La continua guerra di Israele contro i palestinesi ha portato altri 10 Paesi – Messico, Armenia, Slovenia, Irlanda, Norvegia, Spagna, Bahamas, Trinidad e Tobago, Giamaica e Barbados – a riconoscere formalmente lo Stato di Palestina. Una testimonianza del crescente sostegno internazionale verso la popolazione di Gaza e di critica, se non condanna, alla politica di sterminio del governo israeliano.
Tra i Paesi che hanno deciso di “rompere il ghiaccio” e disobbedire agli ordini di scuderia dettati da chi difende a tutti i costi Israele, nonostante la sua politica di sterminio a Gaza, non figurano i membri del G7 – Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti – cioè i più ricchi del pianeta. Chi aveva bollato alcuni Stati come “canaglia” ora tentenna o si rifiuta di definire genocidio la carneficina in atto in Medio Oriente.
Guerra a Gaza
Il riconoscimento della Palestina ne rafforza la posizione a livello globale, migliora la capacità di ritenere le autorità israeliane responsabili dell’occupazione e esercita pressione sulle potenze occidentali affinché agiscano per la soluzione dei due Stati, unico sistema per bloccare la guerra eterna in Medio Oriente.
Anche la Santa Sede
Attualmente, lo Stato di Palestina è riconosciuto come nazione sovrana da 147 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, che rappresentano il 75 per cento della comunità internazionale. È riconosciuto anche dalla Santa Sede, l’organo di governo della Chiesa cattolica e della Città del Vaticano, che all’ONU detiene lo status di osservatore.
Il 15 novembre 1988, nei primi anni della prima Intifada, Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, proclamò la Palestina come Stato indipendente con Gerusalemme come capitale.
Subito dopo quell’annuncio, più di 80 Paesi riconobbero la Palestina come Stato indipendente. Un forte sostegno venne del Sud del mondo soprattutto dai Paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina.
La maggior parte degli europei che riconobbero la Palestina in quel periodo facevano parte del blocco sovietico.
Colloqui diretti
Qualche anno dopo, il 13 settembre 1993, i primi colloqui diretti tra palestinesi e israeliani portarono alla firma degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto concludersi con l’autodeterminazione palestinese sotto forma di uno Stato indipendente accanto a Israele. Obiettivo non è mai stato raggiunto.
Il 15 novembre 1988, nei primi anni della prima Intifada, Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, proclamò la Palestina come Stato indipendente con Gerusalemme come capitale.
Dalla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, quasi 20 Paesi hanno riconosciuto la Palestina, seguiti da altri 12 Paesi tra il 2000 e il 2010, per lo più africani e sudamericani.
Nel 2011, tutti i Paesi africani, ad eccezione di Eritrea e Camerun, hanno riconosciuto la Palestina.
Stragrande maggioranza
Nel 2012, l’Assemblea generale dell’ONU ha votato a stragrande maggioranza (138 favorevoli, 9 contrari, 41 astenuti) per cambiare lo status della Palestina in “Stato osservatore non membro” e nel 2014 la Svezia è stata il primo Paese dell’Europa occidentale a riconoscere la Palestina.
Il 22 maggio 2024, Norvegia, Irlanda e Spagna, in successione, hanno annunciato il riconoscimento della Palestina secondo i confini precedenti al 1967 con Gerusalemme Est come capitale.
Risposta durissima
La risposta di Israele è stata durissima: ha richiamato i suoi ambasciatori dai tre Paesi europei e ha promesso di espandere gli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata come punizione.
Il 4 giugno, la Slovenia è stata l’ultimo Paese europeo a riconoscere lo Stato palestinese. Altre nazioni europee, come Malta, Belgio e Francia, stanno discutendo se e quando riconoscere lo Stato palestinese. L’Italia che al solito latita.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
10 aprile 2024
Nulla di nuovo all’orizzonte. Tra Algeria e Mali non corre buon sangue da tempo e basta un nonnulla per far riesplodere tensioni, mai risolte definitivamente.
Invasione spazio aereo
Nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile l’Algeria ha abbattuto un drone maliano, nella zona di Tinzaouatène, alla frontiera tra i due Paesi, e ha subito rivendicato l’attacco, chiarendo che l’aereo senza pilota di Bamako avrebbe sconfinato di due chilometri nel proprio territorio. “L’intervento è stato necessario per difendere i nostri confini nazionali”, hanno precisato le autorità algerine.
Drone maliano abbattuto dall’Algeria
Bamako, invece, ha smentito categoricamente le affermazioni della Difesa algerina. Il suo capo di Stato maggiore, Oumar Diarra, ha sostenuto: “Il drone ha sorvolato il nostro territorio, nessuna penetrazione in Algeria”. E, secondo le autorità, il loro mezzo senza pilota avrebbe dovuto identificare e colpire ribelli indipendentisti dell’Azawad (FLA) – la cui roccaforte si trova nell’area di Tinzaouatène – mentre partecipavano a una importante riunione.
Tuareg considerati terroristi
Dopo che la giunta militare di transizione del Mali, ha dichiarato nullo il “Trattato di Algeri”, cioè l’accordo di pace del 2015 con gli indipendentisti tuareg, i ribelli hanno ripreso la lotta armata. Da allora il regime di Bamako li considera terroristi, alla stessa stregua dei jihadisti.
Dagli gli scontri dello scorso anno, quando sempre nella stessa area di Tinzaouatène i miliziani uccisero diversi soldati e parecchi mercenari russi dell’Africa Corps (ex Wagner), è partita la caccia al tuareg.
Relitto del drone
Il relitto del drone abbattuto è stato trovato dagli indipendentisti tuareg di FLA sul lato maliano del confine, vicino alla città di frontiera di Tinzaouatène. Hanno pubblicando le immagini dei rottami, senza però dare altre spiegazioni.
In seguito all’incidente”, il 7 aprile i due Paesi hanno reciprocamente chiuso il proprio spazio aereo: cioè nessun velivolo proveniente dal o per il Mali può sorvolare l’Algeria e viceversa. Tali disposizioni non riguardano solo jet militari, ma anche quelli civili e commerciali di compagnie nazionali e internazionali.
Paesi AES richiamano ambasciatori
Rien ne va plus: sia Algeri, sia Bamako hanno richiamato i propri ambasciatori. Anche il Niger e il Burkina Faso, Stati membri insieme al Mali di AES (Alleanza degli Stati del Sahel) hanno convocato in patria il loro rappresentante diplomatico accreditato nel Paese nordafricano.
AES: i leader di Burkina Faso (IbrahimTraoré), Niger (Abdourahamane Tchiani) e Mali (Assimi Goïta)
Non solo. I leader di Mali, Niger e Burkina Faso, hanno accusato il regime di Algeri di aver commesso un atto in totale violazione del diritto internazionale, definendo il fatto come “l’ennesima provocazione del regime algerino”.
Consiglio di Sicurezza
Ora i due Paesi – Algeria e Mali – secondo quanto riportato da RFI –, hanno scritto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per denunciare la grave crisi diplomatica in atto. Dal canto suo Bamako accusa Algeri di un fatto ostile e di sostenere il terrorismo, mentre la controparte incolpa la giunta militare di aver invaso il proprio spazio aereo e di aver riportato false accuse.
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Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
9 aprile 2025
Il 4 aprile scorso, ultimo giorno della 58a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’Agenzia ONU con sede a Ginevra ha votato il rinnovo del mandato di Francesca Albanese come relatrice speciale sui Territori palestinesi occupati.
L’incarico durerà altri tre anni, scadrà quindi nel 2028 ed è stato rinnovato nonostante l’opposizione di diversi gruppi pro-Israele, tra cui gli Stati Uniti.
Francesca Albanese ha subito una campagna denigratoria orchestrata dai gruppi di pressione sionisti legati a Israele che si opponevano al rinnovo del suo mandato. Il Paese ebraico ha mobilitato le organizzazioni amiche che mal sopportavano le critiche esplicite e pesanti contro Israele e la sua politica genocidaria sulla battaglia di Gaza.
Per questo motivo diversi Paesi si erano espressi contro il rinnovo dei suo mandato, hanno confidato ad Africa ExPress diverse fonti autorevoli ai quartieri generali delle Nazioni Unite di New York, Ginevra a Nairobi. “Francesca Albanese gode della fiducia incondizionate del segretario generale Antonio Guterres, ma alcuni governi non ne volevano sapere proprio per le critiche che la coraggiosa diplomatica aveva espresso alla politica di Israele”.
Francesca Albanese ha rilasciato diverse interviste (una anche ad Africa Express) ed è stata sempre molto dura con lo Stato ebraico. Ha parlato senza peli sulla lingua di pulizia etnica contro i palestinesi e genocidio sia a Gaza, sia in Cisgiordania.
Non è stata da meno nei sui rapporti ufficiali e nelle sue apparizioni pubbliche. La signora Albanese, visibilmente scioccata dalle immagini e dalle notizie che arrivano dalla Palestina, non ha lesinato rimproveri alla comunità internazionale, rea di inerzia e insipienza.
Il suo attivismo umanitario ha scatenato la reazione dei gruppi filo israeliani, a cominciare dal deputato laburista britannico David Taylor, che in un’intervista a The Jewish Chronicle, giornale di impronta sionista, l’ha accusata di aver giustificato l’ignobile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e di dipingere Israele come un Paese che “aiuta i coloni a invadere le terre palestinesi”.
La campagna di denigrazione ha raggiunto il suo apice sul sito UN Watch dove Francesca Albanese viene definita un’antisemita apologeta di Hamas e attaccata in tutti i modi.
Il banner che campeggia sul sito sionista https://unwatch.org.
UN Watch (un sito di propaganda israeliana che trabocca di insulti) ha pubblicato un rapporto di 60 pagine, intitolato “Un lupo vestito d’agnello”, in cui accusa Albanese di promuovere l’antisemitismo e il “terrorismo” un ruolo, se fosse vero, non consono a qualsiasi rappresentante delle Nazioni Unite. L’organizzazione ha anche lanciato una petizione per sollecitare l’UNHRC a respingere la sua riconferma.
Naturalmente tutte accuse false e non dimostrate. Sono invece semplici critiche suffragate da fatti. E dispiace che si continui a riproporre l’equazione secondo cui ogni critica a Israele diventa un’apologia dell’antisemitismo.
Quest’equazione danneggia innanzitutto gli ebrei perché porta l’opinione pubblica a pensare che la politica genocidaria di Israele sia decisa e voluta dagli ebrei. Invece è decisa e voluta dai circoli sionisti e c’è una grande differenza tra semitismo e sionismo e quindi tra antisemitismo e antisionismo. Una differenza che il sionismo vuole cancellare.
Il libro di Francesca Albanese che ha provocato le reazioni scomposte di sionisti e della destra
In occasione di una recente sessione dell’UNHRC (Alto Commissariato per i Rifugiati) a Ginevra, il direttore di UN Watch, Hillel Neuer, ha chiesto l’immediata cessazione del mandato di Albanese.
Ma no solo: anche altri gruppi, tra cui il Congresso ebraico mondiale e l’organizzazione giovanile sionista e di estrema destra Betar, hanno preso di mira Albanese. Secondo quanto pubblicato da alcuni media inglesi, Betar avrebbe minacciato di attaccarla durante una recente visita a Londra, facendo riferimento ai micidiali attacchi aerei di Israele in Libano dello scorso anno.
Naturalmente non potevano mancare gli insulti dei quotidiani di destra italiani, Libero e il Giornale si sono sperticati in false accuse. Il marito di Francesca Albanese (non si sa neppure se esiste) sarebbe pagato dai palestinesi da qui le posizioni anti israeliane della moglie. Parole in libertà.
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EDITORIALE
Federica Iezzi
Di ritorno da Gaza, 7 aprile 2025
Israele non è più la terra degli ebrei umiliati e massacrati dall’Europa nazista e rifugiati nella Terra Promessa. Paradossalmente sono oggi gli israeliani sopravvissuti all’olocausto le uniche voci di pace che si levano in patria e che vengano represse dal loro stesso sangue. Fino a quando Occidente e Paesi arabi non avranno preso atto di questa realtà, Israele avrà la libertà di uccidere senza processo né pena.
Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]L’ultimo record di questa corsa verso l’inferno è stato raggiunto dopo la diffusione di un filmato – messo in rete dalla Croce Rossa Palestinese il 23 marzo scorso e ripreso dal New York Times: mostra chiaramente le Forze di Difesa Israeliane che attaccano, in maniera deliberata e a sangue freddo, un convoglio di mezzi di soccorso, visibilmente contrassegnato con luci di emergenza lampeggianti, nel quartiere di Tal as-Sultan, a Rafah, a sud della Striscia di Gaza.
Questo il video diffuso dal PRCS – Palestine Red Crescent Society, dove si vedono con estrema chiarezza i veicoli di soccorso con tutti i segni distintivi e i lampeggianti funzionanti. Si fermano uno accanto all’altro, sul ciglio della strada, sede di un incidente. Pochi istanti dopo, scoppia una raffica di colpi d’arma da fuoco, da parte dell’esercito israeliano, e lo schermo si oscura. Nell’attacco vengono uccisi otto operatori del PRCS, sei membri dell’agenzia di Difesa Civile Palestinese e un dipendente dell’UNRWA
Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar, inizialmente ha negato. Poi messo alle strette dalle inequivocabili immagini pubblicate dai media ha diffuso una nota in cui sostiene che tutto sarà esaminato “in modo approfondito per comprendere la sequenza degli eventi e la gestione della situazione”.
La dichiarazione viene dalle Forze di Difesa Israeliane (cioè l’esercito) le stesse che si esaltano alle farneticanti parole di Netanyahu “zakhor et asher asà lekhà Amalek” (Ricorda quello che Amalek ti ha fatto. E cosa Dio ha ordinato al nostro popolo. Uccidere tutti). E questo, ogni israeliano lo studia a scuola.
La dottrina di Netanyahu si richiama spesso ad Amalek che nella Bibbia ebraica rappresenta il male (incarnato ora dai palestinesi). Amalek, il cattivo, dev’essere ucciso ed estirpato alla radice per permettere al bene (cioè agli ebrei) di sopravvivere e prosperare. Lo consentono, anzi, lo ordinano i libri sacri.
Nessun palestinese di Gaza è in grado di riconoscere case e strade. Interi quartieri continuano a essere decimati, lasciando a malapena una traccia. Le strade si sono trasformate in sabbia. Quelle che un tempo erano città, oggi accolgono solo distruzione e macerie. E’ tutto grigio. I colori e la gioia di ogni rione sono scomparsi. Anche i cimiteri sono stati spianati. E questa sarebbe l'”unica democrazia del Medio Oriente”?
La spietata meccanica mediatica scaccia un argomento con un altro, ma non cancella la realtà quotidiana di un popolo in preda al diluvio di fuoco, alla morte, alla carestia, alla mancanza di cure, alla mancanza di tutto. Perfino alla mancanza di solidarietà umana.
Gaza è anche un campo di rovine dove è morto e sepolto sotto le macerie gran parte del diritto internazionale, violato in totale impunità. È un campo di rovine anche per le parole, che vengono svuotate del loro significato per l’incapacità – da uso eccessivo di superlativi – di spiegare una tale catastrofe, e ancora, per la loro mutazione nel loro esatto opposto.
Ma le atrocità di questa guerra continueranno a pesare. Come accettare un conflitto senza limiti, che mette sullo stesso piano civili e militari? È la dottrina israeliana di Dahiyé. Classico esempio di guerra asimmetrica.
In questo tragico contesto, anche i lanci di cibo effettuati dall’Occidente, nel tentativo di rispondere all’emergenza, devono essere presi per quello che sono: una prova di impotenza di fronte alla cinica intransigenza israeliana.
È un fiasco per la corrotta coalizione dall’estrema destra che governa alla Knesset, il parlamento israeliano. Un’estrema destra che nutre apertamente l’ambizione di tornare a colonizzare Gaza e che ha perso il senso di proporzionalità nella risposta militare.
Come afferma apertamente il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, “le regole del gioco sono cambiate”. E le nuove regole sono quelle dettate da Trump e adottate, parola per parola, dal governo di Tel Aviv. E non c’è tregua che tenga. A Gaza si apriranno le porte dell’inferno, avevano promesso. Ma quelle porte si erano già evidentemente spalancate. E tali sono rimaste!
Cosa ne segue? Una narrazione surreale con cui si racconta che, naturalmente l’allontanamento dei palestinesi sarà “volontario”, altrimenti si tratterebbe di una deportazione.
Che naturalmente non vi sarà alcuna “sottomissione intenzionale dei palestinesi che porti alla loro distruzione fisica, totale o parziale”, altrimenti si tratterebbe di genocidio.
E in ogni caso, queste “faziose” norme di diritto internazionale non hanno alcun valore per Trump, Netanyahu e i loro sostenitori che le etichettano come prodotti dei nidi di oppositori politici, da svuotare della loro sostanza.
Il populismo, che adotta la narrativa sionista, è uno schermo nero alimentato dalle paure del domani, che si tratti di disoccupazione, insicurezza, immigrazione o islam.
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Dal Nostro Corrispondente di Cose Militari Antonio Mazzeo
7 aprile 2025
Le Commissioni Difesa ed Esteri dalla Camera dei deputati hanno espresso parere favorevole (a maggioranza) allo schema di decreto trasmesso il 25 febbraio scorso dal governo Meloni-Crosetto-Tajani, concernente la cessione “a titolo gratuito” di materiale d’armamento a favore delle forze armate del Niger.
Paracadutisti nigerini addestrati da militari italiani
Paracaduti dismessi al Niger
Nello specifico si tratta di 220 paracadute modelli T10-C e T10-R MIRPS che saranno impiegati per i “lanci massivi” delle truppe d’élite nigerine. Valore delle attrezzature militari 500.000 euro.
“I materiali oggetto della cessione sono obsoleti in quanto l’esercito ha già avviato un programma che ne prevede la sostituzione con il sistema paracadute EPC (Ensemble de Parachutage du Combattant) che entrerà a pieno servizio nei prossimi mesi”, spiegano le autorità italiane.
L’articolo 311 del Codice dell’ordinamento militare, entrato in vigore nel 2010, consente al ministero della Difesa la consegna di “materiali non d’armamento, dichiarati fuori servizio o fuori uso, a Paesi in via di sviluppo e Paesi partecipanti al Partenariato per la Pace, nell’ambito dei vigenti accordi di cooperazione”.
Regime militare
Stavolta il “dono” è però diretto a un Paese partner governato da oltre 20 mesi da una giunta militare (il Consiglio Nazionale di Salvaguardia della Patria) che ha deposto con un golpe il presidente legittimamente eletto, Mohamed Bazoum.
Fa davvero i salti mortali lo Stato Maggiore per giustificare la cessione di materiali d’armamenti alle forze armate di uno Stato africano ormai inviso alle cancellerie occidentali, Francia e Stati Uniti d’America in testa.
Indice sviluppo umano molto basso
“Il Niger è tra gli ultimi Paesi al mondo secondo l’indice di sviluppo umano dell’ONU, con inconsistenti servizi sociali erogati dallo Stato e il minimo dei fondi allocati allo sviluppo”, si legge nella relazione predisposta dai vertici militari italiani, allegata allo schema di decreto.
“Più dell’80 per cento della popolazione vive nelle zone rurali del Sud del Paese e quasi il 40 per cento del PIL dipende dal settore primario (agricoltura e pastorizia). L’età media è tra le più basse al mondo (15,2 anni) mentre il 40 per cento circa dei bambini vive in condizioni di malnutrizione e poco più del 50 per cento della popolazione ha accesso all’acqua potabile”.
Terrorismo
Dopo il preambolo ipocritamente umanitario, lo Stato Maggiore spiega le ragioni di tipo strategico-militare per cui l’Italia è chiamata a sostenere la giunta golpista: “L’estremo nord del Niger – che confina con Algeria, Libia e Ciad – è una zona desertica, di difficile controllo statuale. Si tratta di un’area di grande importanza per la sicurezza nazionale e internazionale, poiché rappresenta rilevante snodo logistico per lo scambio di armi e per i traffici illeciti, utilizzato dalle organizzazioni terroristiche operanti nel Sahel, prima fra tutte AQIM (Al-Qaida nel Maghreb Islamico)”.
Pur consapevole delle violazioni del diritto internazionale perpetuate dai nuovi padroni di Niamey, con un contorto valzer machiavellico la Difesa italiana spiega perché sia necessario restare nel martoriato Paese africano.
Costituzione sospesa
“L’onda lunga del golpe del 26 luglio 2023 ha avuto ripercussioni che vanno ben oltre i confini del Niger ed ha aperto una situazione di crisi lunga e complessa, ancora lungi dall’essere risolta”, aggiunge lo Stato Maggiore.
“La giunta militare ha sospeso la Costituzione entrata in vigore nel 2010 e, successivamente, ha deciso l’uscita del Niger dalla CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), ritenuta troppo influenzata della Francia”. Sempre in dissenso con Parigi, il governo militare di transizione ha pure ordinato la chiusura delle missioni militari EU (EUMPM ed EUCAP).
Alleanza Stati del Sahel
“Interagendo con dinamiche regionali e globali, il golpe di Niamey ha contribuito ad accelerare il processo di frammentazione e polarizzazione degli Stati dell’Africa occidentale, inaugurato dai precedenti golpe militari in Mali (agosto 2020 e maggio 2021) e Burkina Faso (gennaio e settembre 2022)”, lamentano i vertici militari italiani.
“Mali, Burkina Faso e Niger hanno avviato una convergenza politica e militare, denominata Alleanza degli Stati del Sahel (AES), annunciando parallelamente l’intenzione di abbandonare la storica organizzazione regionale CEDEAO, di cui sono stati membri fin dalla fondazione nel 1975”.
A ciò è seguito il “precipitoso ritiro” delle truppe francesi dal Niger e, il 18 marzo 2024, “l’invito senza preavviso” della giunta di Niamey alle truppe degli Stati Uniti d’America di abbandonare il Paese.
Africa Corps (ex Wagner)
“Nel frattempo, dal 10 aprile 2024 sono arrivate a Niamey le prime truppe russe”, allerta lo Stato Maggiore. “Nonostante la modesta entità del contingente, per ora dislocato presso l’aeroporto della capitale e con limitata proiezione sul territorio, non è da escludere che possa trattarsi dell’avanguardia di un nuovo partenariato strategico con Mosca mutuato sull’esempio del Mali”.
“Mentre il quadro regionale di alleanze resta fluido, gli analisti segnalano il progressivo inasprimento delle relazioni bilaterali fra gli Stati del Sahel centrale afferenti a AES da una parte, e i loro vicini della fascia costiera affacciata sull’oceano Atlantico, dall’altra.
Tensioni regionali
In particolare, l’esacerbarsi delle tensioni fra Niger e Benin, fra Burkina Faso e Costa d’Avorio, fra Mali e Mauritania, lascia presagire il rischio di un’ulteriore destabilizzazione di una regione già segnata dall’avanzata dei gruppi terroristi d’ispirazione jihadista, dal radicamento della criminalità transnazionale organizzata, e dall’impatto del riscaldamento globale”.
Truppe italiane in Niger (MISIN)
Lotta al terrorismo, alle migrazioni, ai traffici di droga, ai cambiamenti climatici, eccetera, eccetera, ed ecco allora le “ragion di Stato” per cui l’Italia, unico Paese occidentale “ancora presente e gradito” in Niger debba continuare a fare da “interlocutore privilegiato ”del governo militare.
Missione italiana MISIN
“La cessione di materiale d’armamento ha lo scopo di rafforzare la collaborazione e la cooperazione tra le Forze Armate italiane e le Forze Armate nigerine”, spiegano militari e governo. “L’attività si inquadra nell’ambito dell’attività di sostegno alle istituzioni nigerine e avviene nell’ottica di accrescere l’interoperabilità tra i rispettivi dispositivi, premessa indispensabile per operare congiuntamente e sinergicamente nelle varie situazioni di crisi”.
Italia e Niger hanno sottoscritto il 26 settembre 2017 un Accordo di Cooperazione Generale in materia di Difesa, entrato in vigore il 30 agosto 2019. Un anno prima, nel 2018, aveva preso il via la “Missione Bilaterale di Supporto in Niger (MISIN)”, con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin, al fine di “incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza”.
La missione MISIN prevede l’impiego annuale in Niger fino a un massimo di 500 militari, 100 mezzi terrestri e 6 mezzi aerei italiani. I reparti d’eccellenza dell’Esercito e dell’Arma dei Carabinieri svolgono principalmente attività di formazione e addestramento delle unità nigerine. Ad oggi sono stati realizzati oltre 400 corsi e formati più di 11.000 militari in vari ambiti. Dal 9 marzo 2021 è stata concessa all’Italia a titolo gratuito e fino al termine della missione, una porzione di terreno all’interno dell’aeroporto di Niamey (lo stesso dove opera il contingente russo), nonché ulteriori facilities.
Addestramento truppe nigerine
Come enfatizza lo stesso ministero della Difesa, la “massima espressione ”della cooperazione militare con il regime di Niamey è rappresentata dalla “più grande campagna lanci mai condotta in Niger”: nei mesi di novembre e dicembre 2024, sono stati addestrati 150 nuovi parà nigerini in754 operazioni di lancio.
Quest’anno è previsto un ulteriore sviluppo delle attività di cooperazione bellica. “Il 27 gennaio 2025 MISIN ha dato avvio al nuovo ciclo di addestramento in favore delle forze armate nigerine”, spiega lo Stato Maggiore.
“L’Italia impegnerà, nell’arco del 2025, numerosi team di addestramento dell’esercito per sviluppare corsi basici e avanzati, per il personale all’aviolancio di unità e materiali, alla condotta di operazioni fluviali e al Counter IED (contrasto di ordigni esplosivi improvvisati, nda). Inoltre, sono stati avviati i primi corsi con l’impiego di teams dell’Arma dei Carabinieri per la formazione nei settori delle tecniche di investigazione e di intervento operativo”.
Capo di Stato Maggiore Difesa a Niamey
Il 20 febbraio è giunto in visita ufficiale in Niger il nuovo capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Luciano Portolano. “Le attività di MISIN sono di fondamentale importanza in quanto l’addestramento, la consulenza, l’assistenza, il supporto e mentoring a favore delle Forze di sicurezza e delle istituzioni governative nigerine contribuiscono ad aumentare le capacità e l’autonomia del Paese nella sorveglianza delle frontiere, nel controllo del territorio e nel contrasto ai fenomeni illeciti”, ha spiegato Portolano.
Nel corso della sua visita a Niamey, il capo di Stato Maggiore ha annunciato l’avvio dei progetti per equipaggiare le unità locali addestrate con barchini per il controllo dei movimenti lungo il fiume Niger ed elicotteri da trasporto medio AB412 (produzione di Leonardo SpA) per il controllo del territorio.
Anche nel corso della precedente legislatura le Camere avevano espresso parere favorevole alla cessione “a titolo gratuito” di materiali d’armamento al Niger. Allora si trattò di 250 giubbetti antiproiettile per addestramento, 250 elmetti in kevlar, 10 caschi balistici, 8 tute antiframmento, 2 kit corazzato per tuta antiframmento e 10 contenitori per tuta antiframmento.
Materiale utilizzato per addestramento
Tutto il materiale era già presente in Niger perché utilizzato per l’addestramento del personale nigerino nell’ambito delle attività MISIN.
“I giubbetti antiproiettile e gli elmetti in kevlar risultano obsoleti a causa dell’impossibilità e della non economicità ad effettuare degli interventi di rispristino e di mantenimento delle caratteristiche prestazionali e di protezione originarie indispensabili per poterli impiegare per fini operativi”, riporta senza falsi pudori la relativa Relazione dello Stato Maggiore. “Le tute antiframmentazione RAV 501 risultano obsolete a causa della vetustà del materiale e della progressiva scadenza di validità della protezione balistica dei vari lotti che non hanno superato le prove per l’estensione della vita”.
Ma il deserto del Niger è forse una discarica dove l’Italia può disperdere rifiuti di guerra a costo zero?
Antonio Mazzeo amazzeo61@gmail.com
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Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
6 aprile 2025
Milano si conferma sinonimo di Kenya: la maratona che parte e arriva sotto la Madonnina ha un podio maschile tutto nero, rosso, verde con le due strisce bianche. Come in quasi tutte le 22 precedenti edizioni, la gara dei 42,195 km disputatasi nella calda mattinata del 6 aprile, è stata vinta da un atleta di Nairobi, Leonard Langat, 34 anni, seguito dai connazionali Isaac Kipkemboi Too, 30 anni, e Timothy Kosgei Kipchumba, 28.
I keniani dominano la gara
Leonard Langat, Kenya, primo classificato alla Milano Marathon 2025
Il dominio keniano è stato confermato da altri 5 classificatisi nei primi 10. Non solo. La top 10 maschile è ricca solo di runners africani: Eritrea (quarto posto per l’esordiente Aron Kifle in 2h09’39”), Uganda ed Etiopia.
Langat, già primo a Vienna (2021) e due volte sul podio alla mezza maratona Roma Ostia (nel 2016 e nel 2022), è scappato negli ultimi due km e ha concluso col tempo di 2h08.38, invano inseguito da Kipkemboi giunto con soli 7 secondi di ritardo (2h08’45”). Il vero sconfitto è il terzo, Timothy Kosgei Kipchumba arrivato dopo oltre un minuto, che veniva dato come favorito.
“Sono venuto qui per ottenere il risultato pieno – ha commentato Langat dopo aver tagliato il traguardo –. Sapevo di avere una buona condizione e ho volutamente atteso gli ultimi due chilometri per attaccare. Ringrazio Milano per il tifo che mi ha accompagnato lungo il percorso”.
Milano, percorso più veloce d’Italia
Un percorso che alcuni osservatori, esagerando, decantano come il più veloce al mondo, in una città diventata (nientemeno) capitale mondiale dei runners: è solo il più piatto e veloce d’Italia e Milano ne ha ancora da fare di…strada per raggiunge Boston, Chicago, Londra, per non parlare di New York.. Sicuramente questa maratona non molto generosa con i dominatori, se raffrontato a quanto “pagano”, appunto, le maratone più celebri: appena 13 mila euro al primo, 6500 al secondo, 3 mila euro al terzo. Senza distinzione di sesso, naturalmente.
Prima gara dopo il parto
L’etiope Shure Demise vince la gara femminile alla Milan Marathon 2025
In campo femminile i 13 mila euro vanno all’etiope Shure Demise Ware, 29 anni, che, sola soletta, taglia il traguardo in 2h 23’31” (il tempo migliore segnato in territorio italiano) lasciandosi alle spalle la kenyana Joan Jepkosgei Kilimo (2h25’32”) e l’altra etiope giovanissima Alemtsehay Mekuria Alamirew, 19 anni, in 2h27’23”.
Shure Demise, però, era particolarmente soddisfatta non tanto per il modesto premio in danaro, quanto perché, ha rivelato “Era la prima maratona dopo la gravidanza e non conoscevo il mio valore effettivo. Sono quindi estremamente felice per il tempo ottenuto, che mi rende fiduciosa per il futuro. Mi alleno ogni giorno con campionesse del calibro di Tigist Assefa (ex campionessa mondiale) e la campionessa attuale Amane Beriso. Un vero stimolo per migliorare”.
E’ doveroso sottolineare come i tre kenyani finiti sul podio e le tre prime donne facciano parte tutti di tre “scuderie” gestite da italiani: Rosa, Saverio e Volare.
Anche se la maratona milanese non ha fornito risultati esaltanti rispetto ad altre competizioni mondiali, ha caratterizzato, comunque, una grande festa di “popolo”.
Oltre 10mila partecipanti
Grande partecipazione alla Maratona di Milano 2025
E’ stata un successo che cresce di anno in anno con 10.200 partecipanti, ai quali si aggiungono i 16mila della staffetta, il 56 per cento dei quali stranieri. Ben 106 le nazioni rappresentate; dopo l’Italia, il maggior numero di partecipanti è arrivato da Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Irlanda. A livello italiano, il 59 per cento proviene dalla Lombardia, poi Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, Lazio e Toscana. Tra le province svetta Milano, con 1.200 runner, seguita da Monza e Brianza (300), poi Varese, Torino, Como, Bergamo e Roma per un totale di 107 province.
Dimenticavamo: ai primi italiani, Roberto Patuzzo, (diciannovesimo in 2h27’01) e Daniela Valgimigli sono andati 1200 euro a testa.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 6 aprile 2025
I dazi del 30 per cento sono l’ultimo sgradito “regalo” annunciato il 2 aprile dal presidente americano, Donald Trump, al Sudafrica. Queste pesanti tasse seguono cronologicamente l’espulsione dell’ambasciatore sudafricano in USA, Ebrahim Rasool, del 14 marzo come “persona non gradita”.
Il caso Rasool
La “cacciata” dell’ambasciatore, molto rara in diplomazia, è avvenuta dopo le critiche di Rasool. Aveva dichiarato che Trump e il suo seguito sono un movimento “suprematista” che proietta il “vittimismo bianco”. I due episodi sottolineano l’atteggiamento ostile del gigante americano verso il Paese arcobaleno.
L’ambasciatore Ebrahim Rasool al suo ritorno in Sudafrica dopo l’espulsione dagli USA
“Essere persona non grata è per me un distintivo di dignità – ha affermato l’ambasciatore appena arrivato in Sudafrica -. È il sigillo dei nostri valori e ci conferma che abbiamo fatto la cosa giusta: ci siamo impegnati nella difesa dei diritti umani”
Il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, dopo il licenziamento del suo ambasciatore, via X, ha confermato la politica estera del Sudafrica. “Il nostro impegno per i diritti umani definisce la nostra politica internazionale o estera. E questo è ciò che siamo, come sudafricani”, ha sostenuto.
Un impegno che il Sudafrica ha espresso il 29 dicembre scorso, denunciando Israele di genocidio a Gaza alla Corte internazionale di giustizia (CIG). Cosa che gli USA, amici di Israele, non hanno gradito e ha fatto imbestialire Donald Trump insediatosi come 47° presidente il 20 gennaio scorso.
Our commitment to human rights defines our foreign policy. Ubuntu is the philosophy that defines us. pic.twitter.com/vExdDwe7om
Il presidente americano e il suo uomo di fiducia, il miliardario sudafricano Elon Musk, stanno mettendo in atto la resa dei conti. La denuncia alla CIG contro Israele ha innescato una pesante reazione contro il Sudafrica. A febbraio scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo che tagliava gli aiuti finanziari degli Stati Uniti a Pretoria.
“Il Sudafrica dovrebbe essere un alleato dell’Occidente democratico. Invece, si sta comportando in modo più allineato con la Cina, la Russia e l’Iran”. Sono le parole di Joel Pollak, commentatore politico conservatore americano di origine sudafricana, che lavora per Breitbart News, giornale dell’estrema destra USA. Le dichiarazioni di Pollak sono state rilasciate a BusinessTech, quotidiano sudafricano online, per confermare la posizione dell’amministrazione Trump.
Gli afrikaner
Musk ha rincarato il conto verso il Sudafrica accusandolo di razzismo contro la minoranza bianca afrikaner, discendente dei coloni olandesi arrivati in Sudafrica nel 1600.
Trump ha offerto asilo negli Stati Uniti alla minoranza bianca indicandola come vittima dell’apartheid al contrario. Circa 67 mila afrikaner, hanno espresso interesse per l’offerta di diventare rifugiati degli Stati Uniti.
Ma ora gli eredi dei primi olandesi chiedono di più. I rappresentanti di Orania, paesino tutto afrikaner di 3.000 abitanti, sono andati negli USA. Chiedono che Donald Trump li aiuti a diventare uno Stato indipendente.
Sudafrica e i BRICS
Non dimentichiamo il Paese di Mandela, dal 2010 fa parte del gruppo delle economie emergenti (BRICS) composte da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Oggi il gruppo è diventato BRICS+ perché ne fanno parte anche Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran (2024), Indonesia (2025).E la presenza del Sudafrica con Russia, Cina e Iran non è molto gradita agli Stati Uniti.
Mappa della provincia del Capo e la posizione si Simon’s Town nella False Bay (Courtesy GoogleMaps)
Le manovre militari
A Washington non sono piaciute le manovre militari navali della marina sudafricana con Russia e Cina. La prima “Esercitazione Mosi” si è tenuta a Città del Capo nel novembre 2019. La seconda “Esercitazione Mosi II” si è svolta nel febbraio 2023 al largo del KwaZulu-Natal, tra Durban e Richards Bay. Questa non gradita nemmeno all’Unione Europea visto che eravamo in piena occupazione russa dell’Ucraina.
Ricordiamo che il Sudafrica e l’African National Congress (ANC) che governa il Paese dal 1994, hanno un debito di riconoscenza verso Mosca e Pechino. Sono i Paesi che hanno supportato il popolo sudafricano nero ad uscire dall’apartheid.
Il porto di Simon’s Town
Secondo Joel Pollak, la piccola Simon’s Town, nella False Bay, Capo occidentale, ha un porto strategico. È diventata un punto geopolitico chiave in una battaglia internazionale tra Stati Uniti e Cina.
Infatti, le navi militari cinesi e russe nelle manovre del 2019 si sono appoggiate a quella base militare navale, la più importante del Sudafrica.
La base militare sudafricana è situata sul punto di incontro tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano. Un porto che fa comodo alla Cina, Paese amico di Pretoria. E anche questo agli Stati Uniti non piace per niente.
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
4 aprile 2025
Il mese scorso il presidente USA, Donald Trump, aveva descritto il Lesotho come un Paese del quale “Nessuno hai mai sentito parlare”. Ora il piccolo Regno è stato nuovamente preso di mira da Washington. Il Paese è destinatario di un dazio commerciale del 50 per cento, il più alto della lunga lista dei governi presi di mira dalla nuova amministrazione.
Quindi da oggi, tutte le merci provenienti dal Lesotho pagheranno all’ingresso in America una tassa piuttosto alta che poi sarà caricata sul consumatore finale. Tra queste le magliette utilizzate dai fan di Trump sui campi dal golf.
Gli stabilimenti del Regno hanno avuto commesse anche per brand famosi, come i jeans Levi’s. Hanno anche prodotto le magliette per la Greg Norman Collection. Fondata nel 1992, l’azienda è leader nella commercializzazione di abbigliamento ispirato al golf e la sua collaborazione con i Trump Golf Club è di lunga data.
Economisti avvertono
Secondo alcuni economisti, i nuovi dazi sono come una condanna “a morte” economica per il Paese, già colpito dai recenti tagli dei finanziamenti USA.
Stabilimento tessile nel LesothoL’export verso gli Stati Uniti – per lo più diamanti e prodotti tessili – nel 2024 ammontava a 237milioni di dollari, ossia oltre il 10 per cento del PIL del Lesotho.
Fine di AGOA
Dunque le nuove misure introdotte da Washington significano la fine di African Growth and Opportunity Act (Agoa). Un piano commerciale che permetteva ai Paesi africani ritenuti idonei di inviare determinate merci negli Stati Uniti senza pagare le tasse. Tra questi anche il Lesotho, le cui fabbriche tessili hanno creato molti posti di lavoro negli ultimi anni.
Il piccolo Regno, ha un prodotto interno lordo che supera di poco i due miliardi di dollari, è dunque tra i Paesi economicamente meno sviluppati al mondo. E’ una enclave del Sudafrica e la sua economia dipende per lo più da Pretoria. Gran parte dei lesothiani lavora nelle miniere sudafricane.
Le risorse del Paese sono poche a causa dell’ambiente ostile dell’altopiano e dello spazio agricolo limitato nelle pianure. La maggiore ricchezza è l’acqua – chiamata localmente “oro bianco” – che viene esportato in Sudafrica. Anche l’export di diamanti contribuisce al PIL.
Il Lesotho, che in bantu significa: il popolo che parla la lingua sothu, è conosciuto anche come il regno del cielo. E’ una monarchia parlamentare e i rapporti tra il re Letsie III, i partiti e l’esercito sono fragili, ma stabili. Il Paese conta 2,3 milioni di abitanti, è un ex protettorato britannico, che ha ottenuto l’indipendenza nel 1996.
Tra i Paesi più colpiti da HIV
Nel Regno il tasso di propagazione del virus HIV è uno tra i più alti al mondo. Inoltre, è tra i Paesi africani con il maggiore numero di suicidi e omicidi.
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Dietro richiesta del pubblico ministero, il capo di Stato della Repubblica Democratica del Congo, Felix Tshisekedi, ha concesso la grazia a tre cittadini statunitensi, Marcel Malanga, Tyler Christian Thomson e Benjamin Zalman. La sentenza di morte è stata commutata in ergastolo.
I tre americani erano stati condannati alla pena capitale insieme a 31 congolesi, un canadese, un inglese e un cittadino belga, lo scorso settembre, durante il processo per il fallito golpe del 19 maggio 2024. La sentenza era poi stata confermata in appello che si è tenuto a gennaio.
I tre cittadini americani durante il processo dello scorso settembre
Tra i tre statunitensi (tutti nati negli USA) c’è anche Marcel, figlio di Christian Malanga, ideatore del fallito golpe e ucciso quando ha tentato di entrare nel Palais de la Nation a Kinshasa.
Tyler Christian Thomson, invece, è una vecchio amico di Marcel. La loro amicizia risale ai tempi del liceo. I due erano anche membri della stessa squadra di football di Salt Lake City in Utah. Mentre Benjamin Zalman era socio in affari dell’ideatore del golpe, Christian Malanga.
Pena capitale ripristinata nel 2024
La pena capitale, abolita de facto nel 2003 in Congo-K, è stata ripristinata a marzo 2024. Grazie all’ordinanza presidenziale, Marcel Malanga, Tyler Christian Thomson e Benjamin Zalman ora potranno chiedere l’estradizione negli Stati Uniti e scontare lì le condanne.
Minerali per Washington
Recentemente Kinshasa ha offerto agli Stati Uniti l’accesso esclusivo a minerali critici e progetti infrastrutturali in cambio di assistenza per la sicurezza, contro i ribelli del M23/AFC, che assieme alle truppe del vicino Ruanda hanno invaso le ricche regioni minerarie dell’est del Paese. Trattative in tal senso sono già in corso.
Ronny Jackson, l’emissario di Trump e membro del Congresso degli Stati Uniti, ha incontrato il presidente congolese a marzo, si è poi recato anche a Kigali, dove è stato ricevuto da Paul Kagame, leader del Ruanda. Il deputato americano ha fatto una breve tappa anche in Burundi e in Uganda.
Corruzione
Dopo il tour nella regione dei Grandi Laghi, durante un’audizione alla Commissione degli Esteri USA, ha criticato severamente la situazione in Congo-K. Secondo Jackson, la corruzione galoppante ha arricchito i membri del governo e le loro famiglie, mentre la popolazione muore di fame. Ma ha puntato il dito anche sui governi vicini, come Ruanda, Burundi e Uganda. “Sappiamo bene che tutti e tre importano minerali dalla ex colonia belga, tutti lo fanno e niente può fermarli”, a poi concluso il deputato di Washington.
Massad Boulos, consuocero di Donald Trump, nominato consigliere per l’Africa
Intanto due giorni fa il dipartimento di Stato USA ha nominato l’uomo d’affari di origine libanese, Massad Boulos, come principale consigliere per l’Africa. Boulos è già incaricato delle stesse mansioni per quanto riguarda Medio Oriente e le questioni arabe.
Boulos vicino a Trump
L’uomo d’affari americano è nato in Libano e proviene da una famiglia greco-ortodossa. Dopo gli studi in Business administration in Texas, ha lavorato in Nigeria, come direttore di SCOA, società che si occupa di vendita, manutenzione e locazione di autovetture.
Boulos è un personaggio talmente “discreto”, che a volte non rispecchia la realtà. Viene presentato come miliardario, ma, secondo quanto reso noto dal NYT, l’anno scorso la sua società ha prodotto solamente 66mila dollari di profitto. La ricca di casa sarebbe la moglie Sarah, erede di un impero familiare attivo per lo più in Africa centrale. Va sottolineato che il nuovo consigliere per l’Africa è padre di un genero di Trump. Il figlio Michael, infatti, è il marito di Tiffany Trump. Nei prossimi giorni il consuocero del presidente USA visiterà alcuni Paesi africani – Uganda, Congo-K, Ruanda e Kenya – e sarà accompagnato da Corina Sanders, diplomatico di carriera.
Pace per Business
Durante il tour africano, Boulos e il suo team incontreranno capi di Stato e leader d’impresa per promuovere gli sforzi per una pace duratura nella parte orientale della RDC e per incentivare gli investimenti del settore privato statunitense nella regione.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
1° aprile 2025
“Ritorneremo a Khartoum con maggiore determinazione”, ha promesso Mohamed Hamdane Dagalo, meglio noto come Hemetti, capo delle Rapid Support Forces, dopo aver ammesso di aver perso il controllo della capitale del Sudan.
Il cuore della metropoli distrutto
Del Palazzo governativo resta solo lo scheletro
Ma Khartoum è ormai una città irriconoscibile. Dopo giorni e giorni di combattimenti, ora regna un silenzio spettrale. Il centro della metropoli, un tempo il cuore commerciale del Paese e sede del governo, è distrutto, parzialmente in cenere e gran parte dei suoi abitanti è fuggito sin dall’inizio del conflitto.
Ritorno nella capitale
Mercoledì scorso, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, aveva dichiarato che le forze armate (SAF) avevano liberato Khartoum. Anche aeroporto (in pieno centro nella parte nuova della città) era stato riconquistato. Per la prima volta, dopo quasi due anni di guerra, il leader del Sudan, si è rivolto alla nazione dal palazzo presidenziale della capitale.
Al-Burhane trionfante nella capitale sudanese,
La presidenza e il governo si erano trasferiti provvisoriamente a Port Sudan, sulla costa del Mar Rosso, uno dei pochi centri risparmiati dalla devastante guerra iniziata il 15 aprile del 2023 tra RFS e SAF.
Al-Burhan ha puntualizzato sabato che non intende avviare trattative con le RSF per porre fine al conflitto: terminerà quando Hemetti e i suoi uomini deporranno le armi. Ha poi promesso alla popolazione che le forze armate continueranno a combattere finché i paramilitari non saranno sconfitti.
Pace lontana
A quanto pare, almeno per ora, nessuna delle parti sembra essere pronto per negoziati, per risolvere il sanguinoso conflitto interno, costato la vita a decine di migliaia di persone, e costretto alla fuga di oltre 11 milioni di sudanesi. Oltre 8 milioni sono sfollati, mentre più di 3 milioni hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi per sfuggire alle atrocità commesse da entrambe le fazioni coinvolte.
L’aeroporto di Khartoum il 30 marzo
Sia sfollati, sia profughi vivono in condizione più che precarie nei campi a loro destinati, per mancanza di cibo, assistenza sanitaria e quant’altro.
Sudanesi torturati in Libia
E in Libia, dove si trovano oltre 200mila sudanesi, la situazione è terribile. Secondo un rapporto dello scorso gennaio stilato dall’UNHCR con la collaborazione dell’Organizzazione Mondiale contro la Tortura (OMCT) nella ex colonia italiana i sudanesi subiscono vessazioni di ogni genere. Chi proviene dall’ex protettorato anglo-egiziano, specie se sprovvisto di documenti d’identità, è soggetto a arresti arbitrari, estorsioni, traffico di esseri umani, torture, discriminazioni razziali e non di rado le donne subiscono violenze sessuali.
Profughi sudanesi in Libia
Nel sud e nell’est della Libia, zone controllate dalle forze armate LAAF (Libyan Arab Armed Forces) di Haftar, alleato di Hemetti, i sudanesi rischiano di essere consegnati alle RSF e costretti a ritornare nel loro Paese sempre in fiamme.
Intanto la guerra continua. Qualche giorno fa i paramilitari hanno nuovamente bombardato Al-Fashir, capoluogo del Darfur settentrionale, uccidendo 9 civili e ferendo altri 17. Altri attacchi sono stati registrati nel Nord Kordofan.
Spariti i tesori del Museo nazionale
Il sanguinoso conflitto non solo ha distrutto il presente e il futuro dei sudanesi, ma ha spazzato via anche gran parte della storia di questo immenso Paese. Le sale del Museo nazionale di Khartoum sono praticamente vuote. Reperti storici, statue, migliaia di manufatti di inestimabile valore dei Regni di Kush e della Nubia sono spariti.
Museo nazionale di Khartoum devastato e tesori spariti
Già nel giugno 2023, quando i paramilitari si erano impossessati dell’edificio, si era temuto il peggio. Allora il vicedirettore del Museo, Ikhlas Abdellatif, aveva riferito che il personale aveva cessato qualsiasi attività con l’occupazione delle RSF. Un anno dopo sono poi apparse immagini satellitari con camion che si allontanavano con il loro carico di tesori antichi.
Saccheggiato anche l’oro di stanza blindata
Il furto non riguarda solo gli oggetti esposti al pubblico, ma anche quelli custoditi all’interno di una stanza blindata, tra cui l’oro.
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