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Benin accusa Burkina Faso e Niger, non controllano le frontiere e i jihadisti attaccano

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
15 maggio 2025

Anche in Benin gli attacchi dei terroristi si susseguono, gli ultimi risalgono al 17 aprile scorso. Due offensive simultanee dei jihadisti provenienti dal Sahel, che hanno preso di mira altrettanti avamposti militari nel nord del Paese.

Le aggressioni, la prima al Punto Triplo – zona dove convergono i confini di Benin, Niger e Burkina Faso – e la seconda vicino alle cascate di Koudou nel parco transfrontaliero “W”, non lontano dalla città di Banikoara, hanno colto di sorpresa i soldati di stanza nei campi.

Terroristi minacciano il Benin

I terroristi, arrivati in sella alle loro moto, hanno mitragliato i militari, che hanno risposto prontamente al fuoco nemico. Secondo quanto riferito da fonti governative, parecchi jihadisti sarebbero stati ammazzati, ma durante i combattimenti sono morti oltre 50 soldati beninensi. Una carneficina, rivendicata poi da JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani).

Punto triplo

A gennaio, invece, i sanguinari terroristi avevano sferrato un altro attacco nel cosiddetto Punto Triplo durante il quale avevano ammazzato ben 40 militari. A febbraio l’esercito della ex colonia francese aveva subito un’aggressione nel parco “W”; in tale occasione sono morti 6 soldati.

Benin: “Punto Triplo”

Le autorità di Cotonou, sede del governo del Benin (la capitale del Paese è Porto Novo, dove si trova l’Assemblea nazionale), puntano ora il dito contro Ouagadougou e Niamey per la mancanza di cooperazione nel controllo delle frontiere.

Wilfried Léandre Houngbédji, portavoce del governo del Benin, a fine aprile ha lanciato una frecciatina ai suoi vicini: “Se dall’altra parte del confine ci fossero disposizioni di sicurezza almeno come le nostre, questi attacchi non sarebbero così frequenti e di tale intensità, anzi forse non accadrebbero nemmeno”.

Accuse dei golpisti

Burkina Faso, Niger e Mali sono l’epicentro del terrorismo nel Sahel. I golpisti, a capo dei governi militari di transizione di questi tre Paesi, appena arrivati al potere hanno voltato le spalle all’Occidente. Da tempo, in particolare Ouagadougou e Niamey accusano Cotonou di ospitare basi militari straniere con l’obiettivo di destabilizzarli.

Ovviamente le autorità del Benin hanno respinto le accuse al mittente cosa che ha provocato la mancanza di cooperazione ai confini con i vicini saheliani. Così i terroristi che tentano di conquistare i Paesi del Golfo di Guinea, hanno avuto via libera

Sahel: crocevia dei terroristi

Secondo l’ultimo rapporto di Global Terrorism Index pubblicato a marzo 2025, la regione del Sahel è sede di oltre la metà di tutti i morti per terrorismo nel mondo nel 2024. Per il secondo anno consecutivo il Burkina Faso è il Paese più colpito a livello internazionale, mentre il Niger si posiziona al quinto posto.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Attacchi dei terroristi in Benin

I jihadisti del Sahel continuano la loro corsa alla conquista del Golfo di Guinea

In Mali è tornata la dittatura: repressione e sciolti tutti partiti politici

Africa ExPress
14 maggio 2025

Era nell’aria da tempo, da ieri è ufficiale. Con decreto presidenziale del 13 maggio, varato durante il Consiglio straordinario dei ministri del governo militare golpista del Mali, è stato disposto lo scioglimento di tutti partiti e organizzazioni politiche sull’intero territorio nazionale.

Assimi Goïta, capo della giunta militare in Mali

Sospeso TV5 Monde

Sempre ieri è stato sospeso fino a nuovo ordine anche il canale televisivo francese TV5 Monde, accusato  di parzialità a proposito di un servizio su una manifestazione dell’opposizione.

Già a metà aprile era chiaro che le autorità militari stavano avviando un processo di dissoluzione dei raggruppamenti politici. E, dopo la sospensione della “Carta dei partiti”, con l’obiettivo di aggiornare il quadro giuridico che la regola, i maggiori esponenti delle varie formazioni all’opposizione avevano indetto un meeting per il 3 maggio scorso.

Proteste senza precedenti

L’assemblea è poi stata vietata dalle autorità, ma non ha intimorito gli oppositori, che, in centinaia hanno protestato davanti al Palazzo della Cultura di Bamako. Una manifestazione senza precedenti dopo la presa del potere dei militari. Nuove dimostrazioni erano state indette dai partiti e da esponenti della società civile per il 9 maggio. Per paura di violenze durante le proteste, gli organizzatori hanno rinviato l’evento.

Bamako: Manifestazioni di protesta contro lo scioglimento dei partiti

E ieri la doccia fredda, anzi gelata: con la dissoluzione dei partiti è ritornata la dittatura in piena regola. Il governo di transizione ha precisato alla TV di Stato che questa nuova misura segue l’abrogazione della Carta dei partiti politici. “Siamo in un processo di riforma”, ha spiegato Mamani Nassiré, responsabile delle riforme politiche e del sostegno al processo elettorale. Ha poi aggiunto che è in fase di preparazione una nuova legge per la gestione della vita politica in Mali.

Alcuni degli obiettivi sono già stati presentati, come la riduzione del numero di partiti autorizzati, l’inasprimento delle regole per la creazione di nuovi raggruppamenti politici e la limitazione o addirittura il divieto del loro finanziamento pubblico.

Misura anticostituzionale

Nelle ultime settimane i partiti non hanno mai smesso di denunciare il loro disappunto per lo scioglimento pre-annunciato. Anzi considerano le misure adottate dal governo come una violazione alla Costituzione. Un sistema multipartitico, la libertà di espressione e di associazione sono stati sanciti dalla legge fondamentale dello Stato nel 1992.

Alcuni esponenti di spicco del movimento di protesta nato all’inizio del mese, sono stati rapiti dai servizi di sicurezza per mettere a tacere gli attivisti pro-democrazia.

Esecuzioni sommarie nel sud-ovest

E mentre nella capitale è caccia all’uomo di politici, l’ONU ha denunciato esecuzioni sommarie nel sud-ovest del Paese. Secondi esperti indipendenti incaricati dall’Organizzazione, l’esercito maliano (FAMA) e i suoi partner di Africa Corps (ex Wagner) hanno arrestato un centinaio di abitanti del villaggio di Sebabougou, nella regione di Kayes. In base a quanto riferito a RFI dall’incaricato del Palazzo di Vetro, Eduardo Gonzalez, specialista sulla situazione dei diritti umani in Mali, le persone, per lo più di etnia peul, sarebbero state fermate durante il giorno di mercato.

Una parte dei civili arrestati sono stati portati al campo militare di Kwala, dove sono stati torturati perché ritenuti terroristi. Vicino alla base sono poi state scoperte 54 salme, vittime di esecuzioni extragiudiziali.

Malgrado ripetute richieste, l’esperto dell’ONU non ha ricevuto alcuna risposta circa i morti ritrovati a Kwala. Solo alcuni cadaveri sono stati identificati, tra loro c’erano anche abitanti Sebabougou.

Africa ExPress
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Trump a Riad: sul tavolo affari personali e Gaza

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
13 maggio 2025

Trump è arrivato stamani a Riad. Quelli prossimi saranno quindi giorni cruciali per il Medioriente, periodicamente sull’orlo di esplodere, ma con le sue linee rosse che alla fine si spostano ogni volta più in là. Stavolta probabilmente non sarà cosi. Il presidente USA, con la sua imprevedibilità (o faciloneria che dir si voglia) si trova al centro di un vortice di complesse situazioni che potrebbero davvero segnare svolte, negative o positive, nell’area.

E proprio stamattina Benyamin Netanyahu ha assicurato che l’esercito israeliano “nei prossimi giorni entrerà a Gaza con tutta la sua forza”. Il premier israeliano ha aggiunto di “non vedere uno scenario in cui possiamo fermare la guerra”.

Il presidente USA Donald Trump, al suo arrivo in Arabia Saudita

Ma ciò che sembra stare più a cuore al presidente americano sono gli affari: Trump verrà accolto a Riad da cerimonie sfarzose per portare a casa un accordo economico da mille miliardi di dollari. Un obbiettivo non facilmente raggiungibile, secondo diversi analisti, vista la crisi di liquidità dei fondi sauditi, già impegnati in enormi progetti.

Business first

Ma contemporaneamente Trump si troverà al centro di una delicatissima doppia trattativa: la ripresa dei colloqui diretti con Hamas e l’isolamento voluto di Netanyahu le cui stragi a Gaza senza soluzione di continuità, rappresentano ormai un ostacolo per gli interessi di Washington, come chiaramente detto da Fox News.

Non si creda, quindi, che il problema sia il povero popolo palestinese massacrato e invaso: più che altro interessano gli enormi affari nella regione. Perché il business ha bisogno di stabilità. Questo chiedono ora al presidente le grandi multinazionali presenti ai business forum che si terrà in contemporanea al viaggio e al quale dovrebbero partecipare molti dei CEO più potenti d’America.

Sul tavolo ci sono interessi inimmaginabili nei settori armamenti, tecnologia, intelligenza artificiale ed energia, che poi significa nucleare e petrolio.

Possibile trattativa Hamas – Washington

Ecco che quindi quello che sembrava impossibile mesi fa – una trattativa diretta tra USA e Hamas – è tornata reale, e segna, va detto chiaramente, la più grande vittoria di Hamas dall’orrore del 7 ottobre.

Allo stremo militarmente, l’ala militare del partito palestinese potrebbe ora tornare legittimata dalle trattive e influire pesantemente e nuovamente su qualunque nuova Gaza ci sarà.

Striscia di Gaza

Non va dimenticato che la Striscia è un cumulo di macerie e basta confrontare le foto di qualche anno fa per capire che enorme business immobiliare rappresenti la sua ricostruzione. E quanto gli interessi immobiliari spicchino in questo scenario lo si comprende dai numerosi affari megamiliardari in corso (oltre alle grottesche affermazioni di Trump su Gaza-Resort che non erano per nulla una fantasia).

Investimenti a tutto campo

Eric Trump, il figlio del presidente statunitense e vicepresidente della Trump Organization, ha presentato un campo da golf e un resort di lusso in Qatar. Sono stati annunciati investimenti immobiliari a Dubai, in Arabia Saudita, in Albania, in Oman.

Due Trump Tower sono in costruzione in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi. Una potrebbe nascere perfino a Damasco. Il nucleare saudita sarà quello USA. Il programma da 300 miliardi di dollari di armamenti prosegue. Arrivano catene commerciali a stelle e strisce, autostrade, ingegneri.

Tutto questo renderà l’Arabia Saudita il nuovo alfiere degli USA nel Medioriente, come avvenne per la Persia dello Shah, l’Iraq di Saddam, l’Afghanistan di Karzai e Ghani, e ora della Siria di Jalani. Come è finita per quei Paesi già lo sappiamo, ma è chiaro che in ballo, tra Iran, Arabia Saudita e Israele è l’egemonia geopolitica sulla regione, dalla quale gli Usa hanno iniziato un ritiro strategico che non ammette ripensamenti.

Smentita degli houti

Basti pensare che dopo aver bombardato a tappeto gli houti per settimane, sempre nel quadro della protezione di Israele, ad un certo punto hanno annunciato unilateralmente la resa dei ‘ribelli’. Gli houti governano gran parte dello Yemen e sono una spina nel fianco per la navigazione nel Mar Rosso. Poche ore dopo i ribelli hanno però smentito la dichiarazione di Washington, dicendo che avrebbero perseguito nei lanci missilistici. Un esempio del frettoloso desiderio di sganciamento americano e un fragoroso nulla di fatto.

La Cina, al contrario, ha segnato un punto strategico gigantesco normalizzando i rapporti tra Arabia Saudita e Iran nel 2023. Forse solo un nuovo accordo sul nucleare tra Iran e USA potrebbe equilibrare i successi, ma c’è la strenua opposizione di Israele, l’unica potenza nucleare da quelle parti e che tale vuole rimanere.

Ed ecco quindi che soldi e potere hanno reso possibile questa ipotesi: Washington e Hamas in trattativa diretta per un cessate il fuoco di 70 giorni estendibili a 90. Secondo la rete televisiva israeliana Channel 12 Hamas “è  pronta a un accordo finale per la cessazione della guerra e uno scambio di prigionieri concordato, nonché alla gestione della Striscia di Gaza da parte di un ente professionale indipendente”.

Capo Pentagono annulla viaggio in Israele

Uno schiaffo a Netanyahu. Che però potrebbe tentare di distrarre l’attenzione attaccando l’Iran o scatenando l’inferno sulla Striscia prima che parta il negoziato. E in parte lo ha già fatto. Ha infatti dovuto far buon viso a cattivo gioco durante la liberazione (senza il coinvolgimento di Israele) dell’ostaggio israelo-americano Idan Alexander, accolto “con grande emozione”.

Ma dopo la consegna dell’uomo alla Croce Rossa a Khan Jounis, è seguito un raid israeliano proprio su Khan Jounis. Netanyahu – quasi scompostamente – ha ribadito che i negoziati per un possibile accordo che garantisca il rilascio di tutti gli ostaggi a Gaza saranno condotti “sotto il fuoco nemico”. Inevitabile che il capo del Pentagono, Pete Hegseth, abbia cancellato la visita in Israele prevista per oggi, per “unirsi a Trump nel viaggio nel Golfo”.

Disimpegno dallo Yemen

Se farà scuola ciò che è accaduto con il disimpegno USA dallo Yemen, con l’immediato ‘intervento sostitutivo’ di Israele, che ha bombardato l’aeroporto della capitale, si teme che lo stesso possa accadere nel Golfo. Se Washington taglierà fuori Israele da Gaza e dall’accordo sul nucleare, il governo Netanyahu si sentirà libero di intraprendere azioni unilaterali? Come bombardare le centrali iraniane? Otterrebbe così di sparigliare le carte e incendiare lo scenario.

La risposta dei Pasdaran infatti colpirebbe come annunciato impianti petroliferi e basi militari USA nel Golfo. Uno scenario apocalittico, che scriverebbe probabilmente la parola fine al miliardo di investimenti trumpiani. Potrebbe Netanyahu osare tanto?

Potrebbe, dato che cerca una disperata risposta ai sondaggi che lo edono al punto più basso degli ultimi 16 anni. Con un processo in corso e una pace a Gaza, probabilmente la sua posizione affonderebbe. Non e un caso che abbia appena deciso di mobilitare con urgenza migliaia di riservisti e ha che abbia dato indicazioni allo Stato maggiore di prepararsi a un’incursione ancora più massiccia a Gaza. “Sconfiggere Hamas è più importante della liberazione dei rapiti”. Ma forse per la prima volta il Re è nudo, o rischia di trovarsi presto senza buona parte degli abiti.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Medico congolese, premio Nobel contro la guerra chiede aiuto al Parlamento Europeo

Africa ExPress
12 maggio 2025

Il medico congolese, Denis Mukwege, insignito del Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2014 e del Premio Nobel per la Pace nel 2018, mercoledì a Strasburgo ha parlato della terribile situazione del suo Paese davanti ai parlamentari dell’Unione Europea.

Senza mezzi termini il Premio Nobel ha ricordato ai rappresentanti dei Paesi europei che 26 milioni di congolesi hanno bisogno di aiuti alimentari, gli sfollati sono attualmente 7,8 milioni. Ha poi sottolineato che “ogni 4 minuti una donna subisce violenza sessuale”.

Il medico congolese, Denis Mukwege, a Strasburgo

Violenze sessuali in aumento

Le donne urlano in silenzio il loro immenso, infinito dolore. Non di rado subiscono stupri di gruppo, raramente qualcuno li soccorre. E quasi sempre questi reati restano impuniti.

Mukwege ha voluto parlare davanti al Parlamento Europeo per sensibilizzare l’UE sul grave problema che affligge la popolazione, costretta a convivere con conflitti interni da oltre 30 anni.

Ribelli occupano vaste zone

Ora la situazione si è aggravata ulteriormente. Dall’inizio dell’anno gli M23/AFC hanno occupato vaste zone nell’est della Repubblica Democratica del Congo, tra questi anche la città di Goma, capoluogo del Nord-Kivu e Bukavu, capoluogo del Sud-Kivu.

M23 è un gruppo armato, composto soprattutto da tutsi e sostenuto dal Ruanda, mentre AFC, che significa Alleanza del Fiume Congo, è una coalizione politico militare, fondata il 15 dicembre 2023 in Kenya e della quale fa parte anche M23.

Bozza accordo pace

Trattative per un accordo di Pace tra Ruanda e Congo-K sono in corso. Una bozza è stata siglata a fine aprile a Washington sotto l’egida delle Nazioni Unite.

“Come sempre, questi negoziati ruotano attorno ai minerali congolesi, il cobalto, il tantalio e tanti altri. I due Paesi intendono cogestire le risorse naturali e minerarie”, ha spiegato il medico. Ma secondo lui una gestione comune è praticamente inconcepibile, dopo anni di guerra e migliaia di morti.

Dal canto suo il medico chiede che venga aperto un confronto a livello internazionale, negoziati ai quali dovrebbe partecipare l’Europa, giacché anche gli USA stanno spingendo per arrivare a un accordo. Ovviamente Washington preme per una tregua e un trattato di pace duraturo per consentire alle proprie aziende un accesso senza pericoli ai siti minerari della regione dei Grandi Laghi.

Dialoghi in Qatar

Intanto sono in corso dialoghi tra il governo di Kinshasa e M23/AFC a Doah, Qatar. Anche se entrambe le parti affermano di voler “lavorare per la conclusione di una tregua, volta ad un cessate il fuoco effettivo”,  in realtà il clima è ancora molto teso.

La popolazione paga sempre il prezzo più alto nei conflitti. E ora verranno a meno anche molti aiuti di prima necessità. L’Ufficio degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA) ha fatto sapere che per mancanza di fondi, gli aiuti umanitari destinati al Congo-K subiranno un taglio significativo, vale a dire quasi del 50 per cento.

Riduzione drastica aiuti umanitari

Con l’insediamento di Donald Trump, l’attività dell’Agenzia Statunitense per lo Sviluppo Internazionale (USAID) è stata ridotta all’osso. Fino allo scorso anno USAID copriva il 70 per cento dei costi del budget umanitario, aiuti che finanziavano vari settori, come la sicurezza alimentare, sanità, risposte immediate alle emergenze e quant’altro. Ma anche altri finanziatori hanno ridotto notevolmente i propri contributi, mettendo così in grave difficoltà le agenzie ONU.

Intanto la guerra continua, anche se il conflitto che si sta consumando nel Congo-K è quasi scomparso dalle prime pagine dei media internazionali.

Goma occupata da 100 giorni

Goma (Nord-Kivu) è ormai occupata da oltre 100 giorni da M23/AFC, sostenuti dal Ruanda. La popolazione, costantemente controllata dai ribelli, vive in un clima di paura, di incertezza e di precarietà estrema. Le condizioni di vita sono peggiorate, c’è penuria di generi alimentari e il degrado generale delle infrastrutture sanitarie e scolastiche comincia a farsi sentire. L’economia locale è paralizzata. Le banche sono chiuse e è dunque assai difficile reperire denaro contante.

Ituri sotto attacco di milizie

Nuovi scontri si sono verificati anche nella provincia di Ituri, nella parte orientale del Paese. Due sanguinari gruppi armati: CODECO (acronimo per Cooperativa per lo sviluppo nel Congo, formato da combattenti di etnia Lendu) e CPR (acronimo per Convention Populaire pour la Révolution) hanno intensificato attacchi a postazioni dell’esercito congolese (FARDC) e preso di mira civili.

Piogge torrenziali – alluvione

Oltre 100 morti causate da piogge torrenziali a Kasaba

Non solo le milizie mettono in pericolo i civili congolesi. Tra i nemici più temuti ci sono anche i cambiamenti climatici. In questi giorni, piogge abbondanti e conseguenti alluvioni hanno ucciso oltre 100 persone a Kasaba, villaggio sulle sponde del lago Tanganica, in provincia del Sud Kivu.

Le piogge torrenziali della notte tra l’8 e il 9 maggio hanno provocato lo straripamento dei fiumi Kasaba e Bekya, inondando il villaggio. La furia dell’acqua ha spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino.

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Congo-K: concessa la grazia presidenziale a tre americani sentenziati a morte per fallito golpe

Mozambico, fondi USA in soccorso alla francese TotalEnergies per riaprire i cantieri di gas

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
10 maggio 2025

Il progetto di estrazione di gas naturale liquefatto (GNL-LNG) a Cabo Delgado nel nord del Mozambico cinque anni fa aveva un valore stimato di 20 miliardi di dollari. Oggi ne occorrono tra 24 e 26 miliardi (tra 21,3 e 23 miliardi di euro).

La tempesta perfetta

La multinazionale francese TotalEnergies, operatore di Mozambique LNG, sta rifacendo i conti dopo la “tempesta perfetta” che ha fatto lievitare i costi del progetto.

Una tempesta cominciata con il terrorismo jihadista a fine 2017 nell’area degli enormi giacimenti di gas. Poi è arrivata la pandemia di Covid-19 che ha rallentato i lavori nel cantiere.

Nel 2021 i jihadisti hanno assediato Palma, “capitale” dell’area, per una settimana. L’occupazione ha fatto migliaia di morti tra la popolazione e il personale tecnico dei cantiere TotalEnergies della penisola di Afungi.

Poi l’occupazione russa dell’est dell’Ucraina e la guerra a Gaza, sono tutti fattori che hanno contribuito allo slittamento del budget pianificato nel 2019.

Mappa onshore e offshore dei giacimenti di GNL) (Courtesy Mozambique LNG)

Questo progetto s’ha da fare

Ora i dirigenti di TotalEnergies stanno misurando i costi effettivi per la costruzione dei due treni di liquefazione da 13 milioni di tonnellate all’anno. E stanno calcolando i costi aggiuntivi del budget da comunicare ai sei partner di Mozambique LNG.

Tre aziende sono indiane (ONGC Videsh, Beas Rovuma Energy Mozambique e BPRL Ventures Mozambique) hanno il 10 per cento ciascuna. La giapponese Mitsui ha il 20 per cento, la tailandese PTTEP l’8,5 e la compagnia mozambicana di Stato ENH il 15 per cento.

Tutti i partner conoscono la situazione e sanno che è necessario rivedere i costi e la multinazionale energetica francese dovrà comunicarne la decisione al governo mozambicano.

Incontro Pouyanné e Chapo

Nel frattempo a marzo c’è stato un incontro tra Patrick Pouyanné,  l’amministratore delegato di TotalEnergies, e il neo-presidente mozambicano Daniel Chapo.

Il capo dello Stato, insediatosi nel gennaio scorso, conosce bene la situazione di Cabo Delgado. Nel 2015 è stato amministratore del distretto di Palma e, come presidente, è tornato a Cabo Delgado a febbraio.

TotalEnergies Patrick Pouyanné Daniel Chapo
Da sinistra: Patrick Pouyanné, amministratore delegato di TotalEnergies, e il presidente mozambicano Daniel Chapo

Chapo e Pouyanné hanno parlato a lungo soprattutto della situazione dei militari ruandesi che difendono i cantieri Total nella penisola di Afungi.

Dopo la fine della missione militare SADC in Mozambico (SAMIM) contro i jihadisti di Isis-Mozambico le truppe ruandesi sono rimaste a Cabo Delgado. Secondo Africa intelligence, non si capisce ancora come il presidente mozambicano abbia intenzione di muoversi.

Miliardi e imprese dagli USA

Per il progetto Mozambique LNG, il 13 marzo scorso, è arrivato una boccata d’ossigeno che potrebbe, a breve, riavviare i lavori di TotalEnergies. Il consiglio di amministrazione della Export-Import Bank of the United States (EXIM) ha approvato un prestito: 4,7 miliardi di dollari (4,2 mld di euro).

“Sosterrà l’ingegneria, l’approvvigionamento e la costruzione dell’impianto GNL onshore, delle strutture connesse e delle attività offshore” – dice la nota EXIM – .

“È la più grande operazione nei 91 anni di storia di EXIM. Genererà 600 milioni di dollari in interessi e commissioni per il Tesoro degli Stati Uniti. Tutto questo sarebbe andato ai produttori cinesi e russi se non fosse stato per la leadership del Presidente Trump” – ha affermato il vicepresidente ad interim di AXIM, Jim Burrows -.

TotalEnergies cerca ulteriori finanziamenti: almeno 1,3 miliardi di dollari (1,1 mld di euro).

Crediti foto:
– Patrick Pouyanné
By Jérémy Barande / Ecole polytechnique Université Paris-Saclay, CC BY-SA 2.0, Link
– Daniel Chapo.
By ElBarcobasurero – L’immagine è stata estratta da un altro file, CC BY-SA 4.0, Link

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Giovani jihadisti mozambicani addestrati all’estero da milizie pagate da al Shebab

Mozambico, decine ammazzati dai jihadisti Disperata corsa per salvare gli ostaggi

Il Ruanda presenta il conto per il suo aiuto militare al Mozambico dove rimarrà all’infinito

In luglio termina la missione militare SADC in Mozambico contro i jihadisti. Molti interrogativi

 

Gaza, se la politica è ferma l’attivismo è in marcia

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli*
9 maggio 2025

Il 9 maggio è la Giornata mondiale dell’Europa, il 75mo anniversario della dichiarazione Schuman che ne ha posto le basi. Una ricorrenza in cui a rumoreggiare saranno le proteste verso le politiche interne ed estere dell’Unione, con il Vecchio Mondo in colpevole silenzio di fronte al dramma in diretta social della pulizia etica in Palestina.

 

Questo immobilismo, condannato da più parti, soprattutto dal mondo del cosiddetto Terzo settore, lasciato solo a gestire aiuti e politiche umanitarie, ha creato un solco profondo tra le ONG e l’istituzione europea. Tanto che proprio il movimentismo, in autonomia, ha dato vita in questi giorni a una ‘Marcia su Gaza’.

Il 28 e 29 aprile scorsi, l’eurodeputata dei Verdi, Benedetta Scuderi, insieme ai colleghi del gruppo Greens/EFA Jaume Asens, Ana Miranda e Mounir Satouri hanno organizzato al Parlamento Europeo di Bruxelles due giorni di dibattiti dal titolo “Should we call it Genocide?”, con il supporto della Bertrand Russell Peace Foundation. Come promuovere il diritto e la responsabilità internazionali, e come chiamare un dramma epocale di cui la storia ci chiederà prima o poi conto?

“Questa iniziativa – hanno dichiarato gli organizzatori – è arrivata in un momento in cui le istituzioni europee e la maggior parte degli Stati membri stentano a riconoscere la gravità della situazione”.

Ospite Francesca Albanese

Tra gli ospiti la relatrice speciale delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, l’avvocato e direttore legale di front-LEX, Omer Shatz, il direttore del Centro palestinese per i diritti umani, Raji Sourani, l’operatrice umanitaria Imane Maarifi, lo storico ed esperto di studi sull’Olocausto e sul genocidio Raz Segal, Ilan Pappé e altri.

Perché l’evento – al di là del titolo, un po’ criticato per via della sua ovvietà – ha riunito avvocati, accademici, giornalisti, attivisti e testimoni ProPal provenienti da diverse parti del mondo, e specialmente da Francia, Italia e Spagna?

“C’era bisogno di un ordine del tribunale, e ora che abbiamo il procuratore della Corte Penale Internazionale che ha emesso un mandato contro due leader israeliani, ci sono paesi che si stanno impegnando in ogni sorta di acrobazie concettuali per annullare la forza di questo passo avanti – ha detto in video collegamento Francesca Albanese -. Ma c’è anche il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), che non può essere ignorato”.

La Relatrice speciale Francesca Albanese [photo credit United Nations]
Albanese ha anche criticato fortemente l’immobilismo dell’Unione Europea: “La situazione è questa, dovremmo sentirci come nel 1925 oggi, perché è proprio lì che siamo: con l’Europa travolta dall’ascesa del fascismo, e noi, voi nella vostra burocrazia, e io come esperto indipendente, parte di un’altra burocrazia, stiamo assistendo al crollo di tutto ciò che è stato costruito sulle ceneri della seconda guerra mondiale e al tradimento dell’intero sistema dei diritti umani…”.

Silenzio europeo

Nella conferenza stampa finale anche l’eurodeputata Benedetta Scuderi ha puntato il dito contro il parlamento europeo per non aver adottato “alcuna risoluzione su questo tema”. “Il silenzio del Parlamento europeo è un silenzio politico – ha affermato – Ci stiamo rendendo compici di un genocidio”.

E feroci critiche sono prevedibilmente arrivate anche da altri rappresentanti invitati, in un clima di diffidenza generatosi negli anni verso l’Europarlamento. Eppure questa due giorni ha portato anche un dono: L’aver riunito così tanti protagonisti dell’attivismo per i diritti umani, anch’essi, in qualche modo, dispersi e che procedevano da tempo in ordine sparso.

Lo spiega bene Maria Elena Delia, della Fondazione Arrigoni, tra gli inviati italiani: “Aver riunito attivisti e associazioni proprio a Bruxelles, nel cuore di quella UE che dopo 19 mesi di sterminio a Gaza non è riuscita a produrre nemmeno una risoluzione e che proprio pochi giorni fa ha perfino votato contro la richiesta di aprire un dibattito su quanto sta accadendo nella Striscia, è stata sicuramente una scelta importante. Sarà stato però tutto inutile se non si riuscirà a dare un seguito, a creare e a mantenere una rete che finalmente possa ridurre le distanze tra politica e società civile.”

A conferma dell’importante sussidiarietà del Terzo settore rispetto al vuoto della politica, è la notizia, uscita in contemporanea all’incontro, dell’organizzazione di una “Marcia su Gaza’”. “L’iniziativa ha preso forma in Francia e si sta diffondendo in diversi Paesi, tra cui l‘Italia – spiega Delia – La “March to Gaza”, cui da mesi in tanti stavamo pensando, si è finalmente trasformata in realtà. Si tratta di un movimento di popolo per arrivare pacificamente a Rafah, partendo dal Cairo, e fare pressione affinché gli aiuti umanitari che Israele impedisce di far arrivare alla popolazione di Gaza possano finalmente entrare. È anche una marcia simbolica, che porta un messaggio potente: se i governi intendono essere complici di Israele, la società civile non li seguirà”.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

*Fabrizio Cassinelli, giornalista dell’agenzia Ansa, saggista, presidente dei Cronisti Lombardi.

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Ai ribelli del Sudan armi cinesi via Emirati: e Khartoum rompe i rapporti diplomatici

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
8 maggio 2025

Port Sudan, città costiera sul Mar Rosso, nell’est del Sudan, è stata colpita per diversi giorni da bombardamenti con droni.

Fino ad oggi il capoluogo dell’omonimo Stato sudanese era stato risparmiato dal sanguinoso conflitto interno. La guerra, scoppiata il 15 aprile 2023 tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, de facto presidente e capo dell’esercito (SAF) ha causato la morte di decine di migliaia di civili. Inoltre in 12 milioni hanno lasciato le proprie case.

Capitale de facto

Con l’inasprirsi del conflitto a Khartoum, Port Sudan è diventata temporaneamente la capitale amministrativa del Sudan, il quartier generale dell’esercito e sede di molte ambasciate e organizzazioni internazionali.

Port Sudan sotto attacco

La nuova escalation del conflitto rischia di aggravare la già drammatica situazione del Paese. E, in seguito agli attacchi a Port Sudan, le Nazioni Unite hanno momentaneamente sospeso tutti i voli umanitari verso l’aeroporto della città, colpito anch’esso dal raid. Dunque per il momento niente cibo salvavita per i sudanesi, in ginocchio a causa di un conflitto interno, che ha scatenato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo.

Bombardamenti dei ribelli

SAF punta il dito sulle RSF, che, come riferito dal Sudans Post (testata indipendente, che copre eventi in Sudan, Sud Sudan e Africa orientale), negano qualsiasi coinvolgimento nei raid a Port Sudan. Oltre all’aeroporto sono stati colpiti un deposito di carburante e altri obiettivi sensibili, come la più importante centrale elettrica, provocando un blackout totale.

Finora le affermazioni dei ribelli non hanno trovato eco. Ieri le forze armate sudanesi hanno fatto sapere che i loro sistemi antiaerei hanno intercettato altri droni pronti a colpire una base navale.

Oltre a Port Sudan è stata colpita anche Kassala, situata sul confine con l’Eritrea. Secondo quanto riportato da Clementine Nkweta-Salami, coordinatrice umanitaria dell’ONU in Sudan, finora questa città è stata considerata come luogo sicuro per gli sfollati.

Sudan: al-Burhan annuncia stop rapporti diplomatici con Emirati Arabi Uniti

Armi sofisticate

Da martedì il governo militare di transizione sudanese ha interrotto i rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, perché convinti che sostengano i miliziani capitanati da Hemetti. Pare, infatti, che anche i droni utilizzati per bombardare Port Sudan siano stati forniti da Abu Dhabi.

E due giorni fa, al-Burhan, nel suo discorso pronunciato alla popolazione proprio da Port Sudan, ha promesso di sconfiggere le RSF e coloro che le sostengono. Mentre Yassin Ibrahim, ministro della Difesa, ha accusato senza mezzi termini gli Emirati Arabi Uniti di aver fornito armi strategiche sofisticate alle RFS. “Si tratta di crimini di aggressione contro la sovranità del Sudan”, ha poi sottolineato il ministro.

Tribunale Aja respinge ricorso

Mentre all’inizio di questa settimana la Corte Internazionale di Giustizia ha respinto il ricorso del Sudan nei confronti degli Emirati Arabi Uniti. Le autorità sudanesi accusano Abu Dhabi di complicità in genocidio in corso nel Darfur nei confronti dei masalit e di altre etnie non arabe, e di sostenere le RFS. Il Tribunale dell’Aja ha dichiarato di essere incompetente per esprimersi sulla questione. Dal canto suo la monarchia araba ha sempre respinto tali accuse.

Materiale bellico cinese

Sudan: Amnesty scopre materiale bellico prodotto in Cina

Eppure Amnesty ha riferito di aver scoperto che le RFS hanno utilizzato ordigni guidati GB50A di fabbricazione cinese e di obici AH-4 da 155 mm sia per bombardare Khartoum, sia la regione del Darfur. Le armi sono prodotte da Norinco Group, noto anche come China North Industries Group Corporation Limited, azienda statale cinese. L’unico Paese ad aver acquistato gli obici cinesi nel 2019 sono stati gli Emirati. Secondo Amnesty, gli il materiale bellico sarebbe stato quasi certamente riesportato in Sudan da Abu Dhabi. Se confermato, si tratterebbe una evidente violazione dell’embargo imposto dall’ONU.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Sudan inferno in terra: guerra senza sosta da Khartoum al Darfur

Guerra mondiale a pezzi: inquietante escalation dei conflitti nel mondo

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli*
7 maggio 2025

Mentre il mondo attende con ansia l’esito del Conclave che questa settimana proverà a designare un nuovo Papa, il quadro internazionale si aggrava, come se la morte di Francesco abbia contribuito a sciogliere gli ultimi lacci che trattenevano le guerre nel mondo. Che, planisfero alla mano, assumono sempre più una dimensione multilaterale.

Conclave – elezioni Papa

Gli Usa giocano la partita del ‘tanto peggio tanto meglio’ ritirandosi dalla partita di Gaza e inventandosi di sana pianta un “cessate il fuoco” con gli Houti “che – come ha detto Trump – si sono arresi”. Se così fosse gli israeliani non avrebbero immediatamente preso il loro posto, dopo settimane di bombardamenti USA, lanciando un attacco sulla capitale.

Disimpegno dal Medioriente

Ribelli houti, Yemen

I separatisti Houti mercoledì hanno peraltro fatto sapere che gli attacchi – oltre cento quelli nel Mar Rosso – e il blocco navale proseguiranno (1). Più che una vittoria, quindi, sembra un disimpegno dal Medioriente, ipotesi che sarebbe confermata anche dall’inusuale assenza di uno scalo a Tel Aviv nella prossima visita di Trump a Riad.

Il presidente americano vuol convincere l’OPEC a rallentare la produzione e far così alzare i prezzi del greggio. Il presidente incontrerà il 14 maggio i Paesi Arabi convocati da Bin Salman. Le fonti del suo staff parlano di “una visita in Israele” che “non è prevista poiché a breve non vi sarà un accordo per il rilascio dei rapiti e una tregua a Gaza”. (2)

Gli Houti sono entrati in guerra per protesta contro la pulizia etnica in corso a Gaza e per questo attaccano mercantili diretti o provenienti da Israele e Stati Uniti.

Siria in fiamme

Sulla Russia l’America capisce di non avere la bacchetta magica. La Siria è in fiamme, tra epurazioni quotidiane, la Turchia ha appena fermato un atto di sabotaggio attreverso i “cercapersone” stile Mossad. L’Iran, la cui politica estera è stata minimizzata dalle perdite subite dagli alleati libanesi e dalle “deboli” risposte agli attacchi missilistici e terroristici subiti, ufficialmente gongola. E’ felice per l’allontanamento apparente degli Usa da Israele e resta fermo sulle sue posizioni riguardo a un nuovo accordo sul nucleare.

Ma la festa potrebbe durare poco perché proprio il “distacco” USA potrebbe essere foriero di un attacco israeliano, a questo punto senza più opposizioni, alle centrali nucleari persiane.

Pakistan – India

A complicare lo scenario, Pakistan e India. I due Paesi, entrambi dotati di armamenti nucleari, hanno cominciato a combattersi. I telegiornali iraniani da giorni segnalavano voli cargo senza sosta, pieni di sistemi d’arma e munizioni dagli USA e dai loro alleati, atterrare negli scali pachistani e indiani. Era solo questione di tempo, quindi. L’opinione dei militari iraniani è che una ulteriore guerra potrebbe convincere la Cina a prendersi Taiwan, coinvolgendo quindi Russia, Corea del Nord, Giappone, e Australia.

Interessi distinti ma incrociati

Ecco che quindi, di fronte all’evidenza di contemporanee escalation e di interessi distinti, ma incrociati, si deve iniziare a pensare in termini diversi ai conflitti internazionali: sempre più improbabile, infatti, una Guerra Mondiale tra due o tre blocchi, mentre un mondo multipolare o meglio ancora multilaterale genererà diverse guerre in atto contemporaneamente, con ripetuti choc sui mercati finanziari ancora globali e interconnessi.

“Personalmente ritengo che sia corretto immaginare guerre post unipolari – conferma l’ex generale di Corpo d’armata ed ex capo di Stato maggiore Sud Nato, Fabio Mini -. Il bipolarismo è morto e sepolto, il multipolarismo non è mai nato e non lo vuole nessuno. Gli stessi BRICS hanno rigettato l’idea di costituire un secondo o terzo polo. Preferiscono parlare di ambiti multilaterali nei quali siano rispettate le sovranità e le esigenze di tutti allo stesso livello”, una visione che le ex Grandi potenze non riescono ad accettare, e che la politica ancora non comprende.

Fragilità 

Quanto accaduto con il blackout in Spagna (con il Portogallo rimasto invischiato per ragioni geografiche) frettolosamente e grottescamente liquidato ad uso di un’opinione pubblica stordita e mansueta, ha colpito il Paese più multilaterale di tutti rispetto all’egemonia eurocentrica. Un accadimento che deve far riflettere tutti sulle nostre fragilità democratiche e di sistema.

“Qualcuno ha deciso che siamo in guerra – ha affermato recentemente e lucidamente il filosofo Massimo Cacciari – o che dobbiamo vivere come se fosse imminente”. Forse solo un neoeletto Papa, forte e deciso nella sua azione politica contro i conflitti, potrebbe incrementare la multilateralità del Vecchio mondo e picconare questo progetto.

(1)Adn Kronos, 07.05.25 (2)ANSA 03.05.25 (da Axios)

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Salviamo Gaza: firma l’appello per riconoscere lo Stato della Palestina

APPELLO
Africa ExPress
6 maggio 2025

Africa ExPress ha lanciato un appello al governo e al parlamento perché l’Italia riconosca lo Stato di Palestina, istituito, come lo Stato di Israele, da una risoluzione dell’ONU. Non possiamo restare silenziosi davanti al massacro di civili inermi che sta avvenendo a Gaza.

Occorre fermare un strage decisa con cinismo e determinazione. Il riconoscimento della Palestina come Stato può essere la pietra angolare per avviare un processo che porti a una pace duratura e permetta una convivenza tra due popolazioni che si combattono da quasi 80 anni. Qui sotto il link dove si trova testo dell’appello che invitiamo tutti a firmare:

Appello: Riconoscere lo Stato della Palestina

Perchè riconoscere la Palestina? Perchè serve per fare nuove pressioni politiche su Israele, visto che secondo l’Onu lo stato palestinese doveva essere creato già nel 1948. Perché serve per dimostrare che gli Stati non se ne lavano le mani davanti alla persecuzione etnica/genocidio/pulizia etnica in corso a Gaza in queste ore.

Cinquecentosettantaquttro giorni di guerra

Siamo al 574esimo giorno di guerra, iniziata il 7 ottobre 2023 con il sanguinoso attacco di Hamas e la morte di 1.200 israeliani (in parte uccisi dagli attacchi dell’esercito amico).

Gaza subisce una guerra da 19 mesi e da 67 giorni non riceve nessun cibo, perché secondo lo Stato di Israele gli aiuti umanitari finiscono tutti ad Hamas e quindi è legittimo bloccare i 650 camion che avevano ripreso per poche settimane ad entrare nella Striscia tra metà febbraio e i primi di marzo. Quindi è legittimo, secondo il governo Netanyahu affamare i civili, per impedire che anche i guerriglieri mangino.

Premio Oscar

Riconoscere la Palestina significa non essere complici degli abomini che stanno succedendo anche nella West Bank, dove solo nelle ultime ore ci sono stati scontri nella zona di Nazareth, sono state distrutte undici case a Masafer Yatta diventata famosa col film premio Oscar No Other Land, ci sono stati attacchi nei campi di Tulkarem e di Nur Shams.

Questi attacchi vengono organizzati dai coloni che incendiano, aggrediscono, distruggono cercando di impedire la vita quotidiana ai palestinesi che non hanno niente a che vedere né con Hamas, né con la guerriglia.

Semplicemente resistono da decenni rivendicando la loro patria e la proprietà di terreni di loro proprietà dei tempi dall’Impero ottomano e di cui non hanno uno straccio di carta per dimostrare il possesso legale.

Solidarietà con gli israeliani anti-Netanyahu

Riconoscere la Palestina significa anche essere solidali con i pochi israeliani che contestano il governo Netanyahu.

Si tratta per lo più dei parenti degli ostaggi (59 pare tra vivi e morti) e di parenti di chi fu ucciso nell’attentato del 7 ottobre. Molti corpi sarebbero stati portati via da Hamas. Quindi diverse famiglie chiedono al premier di far rientrare le salme dei defunti per celebrare un funerale degno della memoria.

Una psicologa che si occupa dei parenti degli ostaggi insieme ad altri attivisti ha organizzato un momento di preghiera per i rapiti e le vittime palestinesi in una sinagoga a nord di Tel Aviv a Ra’anana nei giorni scorsi.

Barricati nel tempio

Una parte di loro ha dovuto barricarsi dentro il tempio e altri sono stati aggrediti da una folla inferocita di coloni. Ebrei contro ebrei, al grido di “ashenaziti a Gaza” e “sei il diavolo”. Diverse persone sono tornate a casa ricoperte di sputi.

Sono i messianici a spadroneggiare. Credono che Amalek (cioè il male assoluto della Bibbia, impersonato dai palestinesi) voglia distruggere il popolo ebraico. Il governo è con loro.

Il bando ai media

Riconoscere la Palestina serve a fare in modo che i giornalisti dei media internazionali possano di nuovo entrare nella Striscia di Gaza e possano essere testimoni di quanto è accaduto e sta accadendo. Il divieto israeliano che ha impedito agli operatori dell’informazione di entrare nell’enclave è un altro segnale di come Israele non sia per niente quel Paese democratico che pretende di essere.

Ricordiamoci che lo Stato ebraico ha deliberatamente ucciso almeno 400 giornalisti nella Striscia, perché non vuole testimoni che possano raccontare i continui massacri.

Mourners attend the funeral of Palestinian journalist Mohammed Abu Hattab, who was killed in an Israeli strike, in Khan Younis in the southern Gaza Strip, November 3, 2023. REUTERS/Mohammed Salem – RC2I54ATCC1L

Riconoscere lo Stato della Palestina potrebbe servire a indire nuove elezioni e restituire uno straccio di pace, che avverrà solo con l’intervento di forze internazionali Onu, visto che l’ultima proposta di Hamas di cinque anni di tregua contro la restituzione di tutti gli ostaggi, è stata appena rifiutata dallo Stato ebraico.

E Netanyhau dopo l’incontro con il presidente degli Usa in visita in Medio Oriente tra il 13 e il 16 maggio, potrebbe ottenere l’ennesimo via libera alla rioccupazione di tutta Gaza o almeno della parte centro-nord con compressione dei 2 milioni di palestinesi  costretti alla fame nel sud della Striscia.

Africa ExPress
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Su Youtube appaiono le prime crepe di Traoré, presidente golpista del Burkina Faso

Africa ExPress ha un accordo con Africa Confidential,
prestigiosa rivista edita a Londra dal 1960, e con il suo direttore
Patrick Smith e pubblica di tanto in tanto i suoi articoli.

Africa Confidential
2 maggio 2025

Il regime del capitano Ibrahim Traoré a Ouagadougou ha scoperto un altro “complotto” che dimostra come la crisi di sicurezza del Burkina Faso si stia aggravando in molti modi diversi.

Quando il governo militare ha accusato la vicina Costa d’Avorio di ospitare cospiratori che stavano progettando di attaccare la sede presidenziale il 16 aprile, ha anche tacitamente riconosciuto le spaccature interne. Il portavoce del governo della Costa d’Avorio, Amadou Coulibaly, ha risposto laconicamente dicendo che si aspettava maggiore serietà dal leader militare del Burkina Faso.

Tra gli arrestati a Ouagadougou c’erano il comandante Frédéric Ouédraogo, capo della giustizia militare che stava indagando sull’uccisione di un sospetto in un precedente putsch abortito, e il capitano Elysée Tassembedo, capo di una forza vitale del nord.

Un Traoré isolato si affida sempre di più a una cerchia di consiglieri della linea dura e si impegna in una strategia le tout sécuritaire. Ciò comporta ripetute epurazioni dell’esercito, la repressione degli oppositori politici e dei critici della società civile e una campagna incessante contro presunti gruppi jihadisti.

Quest’ultima è condotta dalle forze armate e dalle milizie dei Volontaires pour la Défense de la Patrie (VDP), in un’operazione che spesso sconfina nel prendere di mira la popolazione Peul (conosciuti anche come Fulani) e altri gruppi considerati simpatizzanti dei militanti islamisti.

Ci sono dubbi su queste campagne. Circa 54 soldati beninesi sono stati uccisi all’interno del Benin, vicino al confine con il Burkina Faso. Ma il Benin ha riferito che il lato del confine con il Burkina non era protetto. Lamentele simili sono giunte anche dal Togo e dalla Costa d’Avorio. Anche i soldati della giunta di Niamey criticano la mancanza di soldati burkinabé per sorvegliare i jihadisti sul confine comune.

Nell’ultimo incidente, è emerso un video del VDP e di altre milizie filogovernative, guidate da un comandante nominato da Traoré, all’indomani di un attacco mortale contro civili, per lo più Peul, a Solenzo, nell’estremo ovest, il 10 e 11 marzo. Tale brutalità ha alienato il pubblico in misura tale da erodere il sostegno residuo al regime e creare un’apertura più ampia per i militanti.

Dopo la diffusione dell’attacco di Solenzo, Jaffar Dicko, leader di Ansaroul Islam, l’affiliato burkinabè del gruppo pan-saheliano Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), ha descritto i jihadisti come patriottici oppositori della giunta di Traoré e delle altre in Mali e Niger. In posa tra una mappa del Burkina e i Monumenti dei Martiri di Ouagadougou, ha accusato il VDP di aver ucciso i Peul per impossessarsi del loro bestiame.

Nel video, ampiamente diffuso, Dicko ha accusato i tre regimi di non rispettare la sharia e la democrazia, elogiando Human Rights Watch, i media indipendenti e i gruppi umanitari. Eppure i jihadisti hanno sabotato ponti e strade minerarie, attaccato camion, rubato bestiame e cibo, ucciso civili e assassinato leader religiosi e comunitari locali.

La spinta jihadista

Anche prima del rovesciamento del presidente Roch Marc Christian Kaboré nel 2022 con il primo di due colpi di Stato, l’esercito stava lottando per resistere alla diffusione dell’Islam di Ansaroul nell’estremo nord, nell’est, nella Boucle du Mouhoun e nel Centro-Nord. Da allora, i militanti si sono spinti oltre il confine meridionale in tutti gli Stati costieri limitrofi. Nel frattempo, anche lo Stato Islamico nel Grande Sahara (EIGS) è diventato attivo dalle sue basi nel nord-est del Mali e nella regione di Tilabéri in Niger.

Quando il tenente colonnello Paul-Henri Damiba ha deposto Kaboré nel gennaio 2022, ha dichiarato che era necessaria una risposta militare più forte ai jihadisti, ma ha permesso alla società civile e all’attività politica di continuare. Nove mesi dopo, Traoré lo ha messo da parte e ha adottato un approccio più intransigente, versando denaro alle forze armate e lanciando una campagna di reclutamento di massa per il VDP, che era emerso dai gruppi di vigilanti koglwéogo.

Ma il regime di Traoré ha litigato con alcuni dei koglwéogo e con i suoi vecchi leader, come Moussa Thiombiano (detto “Django”), che aveva sede a Fada Ngourma. È stato rapito e si presume sia stato ucciso da ignoti a bordo di un’auto civetta. Traoré trae gran parte del suo sostegno dai giovani disoccupati dei sobborghi di Ouagadougou e Bobo Dioulassso, che si sono anche uniti alle file del VDP. Sono i cosiddetti wayiyans – un riferimento al loro messaggio ai francesi di “uscire” e ai giovani stessi di proteggere Traoré.

In meno di tre anni, Traoré ha supervisionato il reclutamento di 14.000 soldati e quasi 100.000 miliziani. Nel gennaio 2023 ha istituito il Fonds de soutien patriotique, raccogliendo in un anno 175 miliardi di CFA (270 milioni di euro) dai prelievi sugli stipendi e sulle indennità dei lavoratori del settore pubblico, sulle importazioni, sulle comunicazioni, sulle miniere e sulle donazioni. Con un decreto presidenziale del gennaio 2024, Traoré ha creato le Brigades Spéciales d’Intervention Rapide – 28 unità dell’esercito e 13 della polizia, integrate da un’unità di 1938 guardie forestali – per condurre la lotta al terrorismo.

Queste misure hanno potenziato un esercito che non si è mai ripreso del tutto dalla gestione divisiva dell’ex presidente Blaise Compaoré (1987-2014), che ha concentrato le risorse nel Reggimento di Sicurezza Presidenziale (RSP) trascurando il resto delle forze armate.

Traoré ha persino amnistiato gli ex soldati dell’RSP che avevano appoggiato un fallito contro-golpe pro-Compaoré nel 2015 e li ha inseriti nella sua guardia presidenziale, pur lasciando in carcere il capo della sicurezza di Compaoré, il generale Gilbert Diendéré (Africa Confidential Vol. 56 n. 19, Il popolo affronta i putschisti).

Tuttavia, la mobilitazione di massa del VDP si è rivelata estremamente controversa per molti, soprattutto per i Peul. I leader dei movimenti della società civile Peul – Tabital Pulaaku Burkina e Collettivo contro l’impunità e la stigmatizzazione delle comunità – sono stati per lo più spinti all’esilio o intimiditi a tacere. Sebbene vi siano molti Peul nelle forze armate, il VDP deriva dai koglwéogo, che sono per lo più di etnia Mossi, predominante nel Burkina centrale. Questa composizione etnica, unita alla polarizzazione della violenza, fa sì che il VDP sia spesso accusato di omicidi settari e altri abusi.

L’approccio di Traoré non è stato così efficace dal punto di vista militare. Il regime cerca di controllare l’informazione per minimizzare i successi dei jihadisti e rivendicare le proprie vittorie.

Eserciti di troll legati alla Russia a Ouagadougou sfornano messaggi a favore del regime e attaccano i critici, come il presidente nigeriano Bola Tinubu. Il primo ministro Rimtalba Jean Emmanuel Ouédraogo, ex caporedattore dell’emittente nazionale che a dicembre ha sostituito Apollinaire Kyélem de Tambéla, è a capo delle operazioni di pubbliche relazioni di Traoré.

In Costa d’Avorio c’è un gruppo di propagandisti pro-Traoré molto abili. Uno dei principali propagandisti, Alain Christophe Traoré alias “Aino Faso”, è stato arrestato ad Abidjan a gennaio ed è accusato di legami con un complotto di Ouagadougou per destabilizzare la Costa d’Avorio.

Un’altra grande operazione di propaganda di Traoré è gestita dagli Stati Uniti, sotto la guida di Ibrahim Maïga (Africa Confidential Vol. 66 n. 6, Il capitano Traoré si trincera dietro un lungo soggiorno). Hanno riempito le piattaforme YouTube e si sono assicurati che venissero captate dalle società di intelligenza artificiale, una delle quali ha riportato fedelmente che il 30 aprile si sarebbero svolte in tutta l’Africa manifestazioni di massa a favore di Traoré, ore prima del loro inizio.

Gli analisti sono concordi nel ritenere che il regime di Traoré controlli meno di un terzo del Paese. Almeno 22 e forse addirittura 40 città sono isolate a causa dell’attività dei gruppi militanti e sono accessibili solo con elicotteri o convogli armati. L’autorità statale si estende ancora a Kaya, 110 km a nord-est di Ouagadougou, ma intorno a Bobo Dioulasso, la seconda città del Burkina, è limitata a un perimetro di pochi chilometri. Il governo mantiene inoltre solo un tenue controllo del corridoio stradale e ferroviario che collega la capitale a Bobo e al confine ivoriano.

Probabilmente la maggior parte degli abitanti delle campagne vive oggi in comunità sotto l’influenza dei jihadisti, che li spingono ad adottare modelli di abbigliamento conservatori e li privano dell’istruzione di base, della sanità e dei servizi amministrativi.

Chi abbandona le fattorie e la pastorizia per rifugiarsi a Ouagadougou o in altre città si arrangia con l’elemosina e l’economia informale. Con i trasporti interrotti, chi rimane nei villaggi fatica a portare i prodotti ai mercati. Le condizioni sono particolarmente difficili a Djibo, una città chiave nell’estremo nord, dove decine di migliaia di persone, sia residenti sia sfollati di recente, lottano per sopravvivere con i rifornimenti portati per lo più in elicottero.

La produzione di cotone, la principale coltura da reddito, e di prodotti di base come il mais rischia di essere ridotta dalla disintegrazione del controllo governativo sulla Boucle du Mohoun, nella parte occidentale, la regione agricola più importante.

Un sistema di monitoraggio degli alimenti e di stoccaggio dei cereali, un tempo molto apprezzato, è ora disfunzionale in molte aree. Alcune ONG – MSF Belgique, Action contre la Faim e alcune organizzazioni scandinave – stavano cercando di mantenere una presenza nelle aree fuori dal controllo governativo, ma sono state costrette a limitare le loro attività a causa dell’insicurezza e delle pressioni governative.

I funzionari temono che il sostegno umanitario o i servizi pubblici nelle aree controllate dai jihadisti possano legittimare i militanti agli occhi della popolazione locale. Nella provincia di Soum, su nove comuni, solo due – Djibo e Kelbo – continuano a funzionare.

I combattenti di Ansaroul Islam non sembrano essere a corto di cibo o di armi, molte delle quali sono state sequestrate in battaglia. Per quanto riguarda i finanziamenti, i militanti controllano molte comunità coinvolte nell’estrazione artigianale dell’oro, raccogliendo fondi per la lotta futura.

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Il capitano Traoré sceglie lo stile rispetto alla sostanza 

In tuta firmata, con guanti di pelle abbinati sotto il sole dell’Africa occidentale e una pistola d’ordinanza nella fondina alla cintura, il capitano Ibrahim Traoré è un putschista assolutamente moderno, anche se la più grande minaccia alla sua sicurezza viene dai suoi colleghi.

Quando a gennaio ha partecipato all’insediamento del presidente ghanese John Mahama, il suo stile rivoluzionario contrastava in modo stridente con i politici dell’establishment dell’Africa occidentale. Il suo comportamento, e persino il suo senso della moda, sono stati calcolati per attirare paragoni con il venerato leader militare del Burkina negli anni ’80, il capitano Thomas Sankara. Ma per chi ha la memoria lunga, il paragone non regge.

Traoré sposa un’ideologia panafricana incentrata sull’opposizione al neocolonialismo occidentale, messaggi che paga profumatamente agli influencer dei social media per diffonderli nel cyberspazio. Ma a differenza di Sankara, è detestato e temuto da molti della sua stessa gente.

Ibrahim Traoré, golpista Burkina Faso

Il 34enne Traoré è originario del villaggio di Kéra, vicino a Boundoukui, nell’ovest, a 120 km da Bobo Dioulasso. Sua madre proviene da una famiglia Mandingo, mentre suo padre, Zoumana, infermiere, potrebbe avere origini Mossi; si pensa che il nonno paterno sia originario di Yako, nel centro del Paese, ma si sia poi stabilito a ovest, vicino a Bobo. Aveva prestato servizio nell’esercito coloniale francese nei Tirailleurs Sénégalais durante la Seconda guerra mondiale, e aveva poi adottato il tipico nome di famiglia Mandingue Traoré.

Dopo aver studiato geologia all’università, Traoré ha militato in organizzazioni studentesche musulmane e marxiste prima di arruolarsi nell’esercito. Ha prestato servizio nella Missione integrata multidimensionale di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) e poi nelle campagne contro i militanti jihadisti in patria.

Ha cercato di presentarsi come un naturale successore di Sankara per sfruttare la diffusa nostalgia per l’eroe popolare nazionale. Ma questi sono tempi molto diversi da quelli pacifici degli anni ’80, quando Sankara – che aveva studiato agricoltura insieme a materie politiche e militari mentre frequentava l’accademia militare di Antsirabe in Madagascar – poté lanciare un programma di sviluppo rurale e sociale di base molto ammirato e tuttora influente a livello internazionale.

Nel contesto attuale di sicurezza catastrofica, perseguire un programma di questo tipo sarebbe impraticabile in gran parte del Burkina e, anche dove le condizioni sono meno difficili, Traoré sembra più interessato a sperimentare modelli collettivisti che affondano le radici nell’era sovietica piuttosto che concentrarsi sui piccoli proprietari.

Inoltre, l’innovazione economica e sociale è diventata quasi impossibile in un clima politico teso in cui Traoré rimane in gran parte isolato, in parte protetto da guardie del corpo russe nonostante la partenza del gruppo paramilitare legato a Mosca, la Brigata dell’Orso.

Negli affari di governo, gli attori principali sembrano essere Oumar Yabré, capo dell’intelligence, e il tenente Abdul-Aziz Pacmogda, capo della sicurezza di Ibrahim Traoré, che godono di una sostanziale autonomia nel processo decisionale quotidiano. Yabré è al centro del Korag, un gruppo consultivo creato da Traoré che opera come un politburo. Sono dietro la macchina della repressione in Burkina Faso, dai reclutamenti forzati, alle sparizioni, alle torture e alle esecuzioni extragiudiziali. Provenienti dall’apparato di sicurezza, i membri del Korag supervisionano aree politiche specifiche ed esercitano più influenza dei ministri.

Africa Confidential
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L’articolo originale in inglese lo trovate qui:

https://www.africa-confidential.com/article/id/15467/cracks-appear-in-traore%27s-youtube-persona

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