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Sudafrica: sotto la superficie, tra oro, silenzi e infanzia violata

Speciale per Africa ExPress
Elena Gazzano
26 Maggio 2025

Le miniere abbandonate del Sudafrica, un tempo simbolo della prosperità economica, sono oggi teatro di una crisi umanitaria e criminale di vasta portata. Recenti indagini hanno rivelato un sistema di sfruttamento che coinvolge migliaia di lavoratori clandestini, noti come zama zama (espressione in isiZulu che significa “tentare la fortuna”), molti dei quali sono minori vittime di traffico e abusi sessuali.

Miniere dismesse

Secondo stime ufficiali, circa 6000 miniere dismesse sono attualmente occupate da attività estrattive illegali, causando una perdita economica annua di oltre 3 miliardi di euro per il Paese. Queste miniere, spesso controllate da reti criminali transfrontaliere, attirano lavoratori migranti, principalmente da Mozambico, Zimbabwe e Lesotho, con la promessa di guadagni facili.

Intrappolati

Una volta entrati nel sistema, molti si trovano intrappolati in condizioni disumane. “È comune che i passaporti vengano sequestrati una volta entrati in Sudafrica – ha spiegato il ricercatore Mahotla Sefuli -. Questi ragazzi non hanno modo di uscire dal sistema.”.

Il fenomeno ha attirato l’attenzione internazionale dopo la tragedia avvenuta nella miniera di Stilfontein, dove oltre 200 minatori sono rimasti intrappolati sottoterra a causa di un’operazione di polizia volta a bloccare l’accesso alla miniera. Le autorità hanno limitato deliberatamente l’invio di viveri, causando la morte di almeno 87 persone per fame e disidratazione. Tra i sopravvissuti, 31 erano minori, tutti di origine mozambicana.

Sudafrica: miniera dismessa a Stilfontein

Volontari locali, tra cui Mzwandile Mkwayi, si sono calati nei pozzi per aiutare a recuperare i corpi e salvare i superstiti. “Quando siamo scesi, l’odore era terribile. Alcuni mi hanno detto che per sopravvivere hanno mangiato carne umana”, ha raccontato Mkwayi. Il trauma vissuto da chi è sopravvissuto resta inciso nella memoria dei soccorritori: corpi emaciati, fame estrema, degrado.

Testimonianze di ONG

Le testimonianze raccolte da media e ONG raccontano anche un’altra verità. I bambini e gli adolescenti, attratti o costretti nei tunnel, diventano bersagli di sfruttamento sessuale. Alcuni cercano protezione da squadre di minatori adulti ma si trovano costretti ad accettare certe condizioni.

“Il sesso è usato anche come punizione“, ha riferito un testimone. Save the Children Sudafrica ha confermato ripetuti casi di abusi sistematici e grooming. I giovani soccorsi mostrano segnali di trauma profondo, diffidenza e isolamento.

Jonathan, un ex minatore , ha raccontato: “I ragazzi si avvicinavano a gruppi di adulti cercando protezione, ma quella protezione ha un prezzo”. Il ricercatore Makhotla Sefuli ha spiegato che i bambini vengono spesso trafficati dai Paesi vicini e privati dei documenti una volta giunti in Sudafrica, rendendo impossibile ogni fuga.

Risposta delle autorità e critiche internazionali

In risposta alla crescente crisi, il governo sudafricano ha lanciato l’operazione “Vala Umgodi” (“Chiudi il buco”), mirata a ostacolare l’accesso alle miniere illegali e a reprimere le attività dei zama zama.

Tuttavia, le tattiche adottate, come il blocco delle forniture di cibo e acqua, hanno suscitato critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani, che le considerano violazioni dei diritti fondamentali. “È falso che quei minatori non volessero uscire. Erano troppo deboli. Stavano morendo”, ha dichiarato ancora Mkwayi.

La mancanza di un’azione efficace contro i responsabili degli abusi e la lentezza nelle operazioni di soccorso hanno ulteriormente alimentato le polemiche.

Evoluzione della crisi

Ad oggi, nessuno è stato incriminato per gli abusi sessuali documentati nelle miniere illegali. La polizia e il Dipartimento per lo Sviluppo Sociale non hanno risposto alle richieste di chiarimento sullo stato delle indagini. E secondo alcune fonti, molti minori non vogliono testimoniare per timore di ritorsioni.

Mentre le autorità proseguono nella sigillatura delle miniere dismesse e nelle operazioni di polizia, il fenomeno delle estrazioni illegali continua. E le condizioni che spingono migliaia di persone a entrare nei tunnel, disoccupazione, povertà, marginalizzazione, restano in gran parte irrisolte.

La presenza minorile, il traffico di esseri umani e gli abusi sono emergenze aperte, con poche garanzie per le vittime e nessun colpevole assicurato alla giustizia.

Nascosta sotto terra, un’intera economia parallela continua a sbattere contro le pareti della legalità. Mentre l’oro scorre fuori dai confini ufficiali, infanzie, corpi e voci restano intrappolati in gallerie troppo profonde per essere ignorate.

Elena Gazzano
elenagazzano6@gmail.com
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Trentuno minatori del Lesotho uccisi dal metano in una miniera d’oro sudafricana dismessa

La miniera d’oro della morte: finora recuperati 78 cadaveri nel pozzo illegale in Sudafrica

Africa ExPress e Senza Bavaglio con i 175 firmatari dell’Appello contro la Congiura del Silenzio su Gaza

Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Valerio Giacoia
Roma, 25 maggio 2025

Ci siamo anche noi di Africa ExPress e Senza Bavaglio tra i 175 giornalisti italiani che hanno sottoscritto un appello per dire basta a quella che il Movimento Giustizia e Pace in Medio Oriente, che lo ha promosso, ha definito la “Congiura del Silenzio” sul genocidio in atto a Gaza, e sul massacro di 230 giornalisti palestinesi.

Più che in tutte le altre guerre mondiali, come è scritto, e tutti palestinesi. Un dato impressionante, e soltanto provvisorio, perché i colleghi e le colleghe che nonostante l’inferno dei bombardamenti continuano a lavorare, sono a rischio minuto per minuto, anche adesso che scriviamo questa nota.

L’ultima vittima, infatti, proprio ieri. Si chiamava, e citiamo il suo nome e cognome per tutti gli altri colleghi assassinati, Hassan Majdi Abu Warda, era direttore dell’agenzia di stampa Barq Gaza. Un attacco aereo ha colpito la sua casa, nella zona di Jabalia al-Nazla, a di Gaza, causando la sua morte e quella di molti suoi familiari.

L’ennesimo collega palestinese trucidato, secondo un piano di sterminio e di chiusura della bocca a tutti coloro che dal teatro di guerra hanno lavorato e lavorano per dare notizie sul genocidio in atto per mano israeliana. “Una politica sistematica, volta a reprimere la libertà di espressione – scrive in un comunicato il Centro Palestinese per la Protezione dei Giornalisti –, cancellare la narrazione palestinese e impedire la documentazione dei crimini sul campo”.

Massacrati appunto, come si legge nell’appello, pubblicato dal quotidiano la Repubblica di oggi, domenica 25 maggio, mentre indossavano il giubbotto antiproiettile con la scritta PRESS, e spessissimo insieme alle loro famiglie.

Una strage sulla quale in Italia giornali e televisioni hanno “risposto” con un silenzio imbarazzante, indegno di una stampa libera e che lavori per scovare e far conoscere la verità. “Era lecito attendersi un coro unanime di sdegno, ma questa unanimità non c’è stata”, si legge tra l’altro nell’Appello, e col silenzio “ha prevalso la mistificazione della realtà”.

No, su quanto sta accadendo a Gaza, non è possibile più tacere. Starsene zitti è impossibile, impensabile, indecente, spaventoso. Di fronte a questa “congiura” è necessario ribellarsi. Centosettantacinque giornalisti forse sono pochi.

Tuttavia è un appello che sta facendo parlare di sé con grande velocità, grazie anche alla diffusione capillare di ciascun firmatario e con ogni mezzo. Ed è segnale. Dà il senso, di fronte a un abisso di indifferenza – anche (gravissimo questo, lo ripetiamo) da parte della stampa italiana, senza parlare delle istituzioni e del governo – dell’accensione di una piccola luce nel buio.

Valerio Giacoia
valeriogiacoia@yahoo.it

©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Firma questa petizione promossa da Senza Bavaglio e da Africa ExPress

Appello a governo e Parlamento: è ora di riconoscere lo Stato di Palestina

Borsa di studio a Milano per giovani fashion designer del Camerun

Speciale per Africa ExPress
Luisa Espanet
Milano, 25 Maggio 2025

Sono sempre di più i giovani talenti della moda che dall’Africa arrivano a Milano proponendo le loro brillanti creazioni. Sembra molto interessante quindi l’iniziativa dell’Afro Fashion Association che ha preso il via il 21 maggio.

Realizzata in collaborazione con l’Istituto Marangoni di Milano, una delle migliori università del mondo per la moda, e la LABA Douala Academy del Camerun si propone di sostenere e valorizzare i giovani talenti africani del settore. Gli studenti del 3° anno e gli ex allievi della LABA Academy possono da ora partecipare online a sei masterclass intensive tenute da docenti dell’Istituto Marangoni.

Giovani designer al lavoro

Qui riceveranno strumenti e metodologie finalizzate alla creazione di una capsule collection che risponda alle esigenze del mercato attuale e dell’immediato futuro. Le creazioni verranno esaminate da una giuria di esperti e il vincitore riceverà una borsa di studio completa per il prestigioso Master in Fashion Design presso l’Istituto Marangoni di Milano, a partire dal prossimo settembre.

Michelle Francine Ngonmo

A giudicare i lavori saranno esperti di rilievo. Tra questi Michelle Francine Ngonmo presidente di Afro Fashion Association. L’organizzazione, da lei fondata nel 2015, promuove il dialogo fra Italia e Africa, con iniziative come il Black Carpet Award e l’ideazione di hub creativi in Camerun, Rwanda, Ghana, per sostenere e dare visibilità ai talenti emergenti nel panorama della moda contemporanea.

Luisa Espanet
l.espanet@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Zambia: evviva la nonnina della moda

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Gli atleti kenyani travolti dalla passione per il doping: sospensioni a gogo

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
24 maggio 2025

“Sono stata drogata, ma non so da chi. Uno sconosciuto mi ha iniettato una sostanza senza che io potessi identificarlo. E proprio alla vigilia del test antidoping”. “Ho preso quel farmaco dopante, ma senza accorgermene. “E’ stata mia moglie a somministrarmi inavvertitamente quella sostanza proibita al posto degli antidolorifici richiesti”.

Giustificazioni senza senso

Le giustificazioni degli atleti colti con la droga nel sangue sono senza limiti. Ma le bugie – si dice – hanno le gambe corte – e nel caso dei runner kenyani le gambe vengono addirittura segate, o messe a riposo per anni.

ferma i corridori che fanno uso di sostanze vietate

L’atleta drogata inavvertitamente è Faith Chepkoech, 22 anni appena compiuti, che in tal modo ha tentato di spiegare la presenza dell’Eritropietina (Epo) nel suo organismo. I membri del comitato antidoping (Athletics Integrity Unit – AIU) non l’hanno…bevuta. Quella sostanza che aumenta la produzione di globuli rossi e migliora le prestazioni degli sportivi è vietatissima.

E sono stati inflessibili: tre anni di sospensione. Era il settembre scorso quando le è stata irrogata questa pena. La stessa Faith ha poi ammesso la colpevolezza e ha così ottenuto uno sconto di un anno. Era una promettente maratoneta del Kenya, la stella nascente delle lunghe distanze, con tre vittorie importanti nel 2024 in Spagna e negli Usa.

Lunga lista della vergogna

Purtroppo, come ha scritto Pulse sport, è finita anche lei “nella lista della vergogna”. Diciamo “anche lei”, perché il 20 maggio, ovvero l’altro giorno, una punizione più severa ha colpito la sorella maggiore, più brava e più famosa: Sheila Chelangat, 27 anni, sospesa (provvisoriamente), sempre a causa dell’EPO, da tutte le competizioni in attesa che le indagini proseguano il loro corso.

Sheila fa parte della notissima società di management sportivo Rosa & Associati e si allena nella contea di Kericho ed è (era?) quella che comunemente si dice una donna in carriera. Da giovanissima è stata medaglia di bronzo ai Mondiali under 18 nei 3 mila metri ed è giunta sesta sulla stessa distanza nel 2016 ai Mondiale under 20, è stata bis campionessa nazionale di cross-country. Più recentemente, il 27 aprile, in Turchia, si è classificata seconda alla mezza maratona di Istanbul, gara che aveva vinto nel 2023. Prima, il 5 gennaio, si era piazzata seconda alla mezza maratona di Hong Kong.

Il caso delle due sorelle è solo il più clamoroso che emerge da quella che nello sport keniota sembra un’epidemia non eradicabile: il ricorso a sostanze dopanti anche se l’organismo antidoping continua a colpire in modo pesante. Nel solo mese di maggio l’AIU ha squalificato, oltre a Sheila, tre validi maratoneti keniani. Tutti avrebbero violato le regole antidoping facendo ricorso a “materiale proibito”.

Il 5 maggio è stato squalificato per 2 anni Brian Kipsang, 30 anni, poche settimane dopo essere arrivato secondo alla 30a edizione della Maratona di Roma, (il 16 marzo), dove si è assicurato un posto sul podio insieme a due connazionali, Robert Ng’eno e Joshua Kogo, classificatisi rispettivamente al primo e al terzo posto. Brian avrebbe fatto ricorso al Triamcinolone Acetonide.

Il 12 maggio è stata la volta di Nehemiah Kipyegon, 27 anni, vincitore della maratona di Monaco il 3 ottobre 2024. Punito per tre anni. Era risultato positivo al test per la Trimetazidina a febbraio, su un campione prelevato in Nigeria. In aprile, Kipyegon ha accettato la sospensione e ha ammesso di aver assunto”inavvertitamente” il farmaco dopante. La Trimetazidina è un farmaco utilizzato – dicono gli esperti – per prevenire gli attacchi di angina.

Nel terzetto messo al bando c’è anche una donna, pentitasi e divenuta collaboratrice della giustizia: Purity Changwony, 35 anni, estromessa fuori dalle gare per due anni e tre mesi. Avrebbe fatto uso (ma non si capacita come…) di Norandrosterone (steroide anabolizzante che aumenta la massa atletica), ma soprattutto di Triamcinolone acetonide, comunemente utilizzato per ridurre l’infiammazione e gestire il dolore.

Dopanti: passione travolgente

E’ curiosa la passione travolgente di molti corridori keniani per questo  corticosteroide sintetico. Citiamo altri tre nomi non a caso: Elijah Kipkosgei, 26 anni, Geoffrey Yegon, 37 anni, Emmanuel Kipchumba Kemboi, 28, che tra gennaio e marzo sono stati condannati a 2 anni di sospensione per essersi serviti del Triamcinolone acetonide. Elijah ha dichiarato di non sapere come nel suo organismo sia finito quel prodotto vietato; Emmanuel prima ha negato tutto poi un mese fa ha ammesso la sua colpa. Idem ha fatto Yegon. Così hanno goduto dello sconto di un anno.

Ma c’è anche chi viene punito per essersi dato alla fuga dalla commissione antidoping. Nel mese di marzo l’organismo per l’integrità dell’Atletica ha fermato Kibiwott Kandie, 28 anni, già detentore del record mondiale della mezza maratona. Fresco del quinto titolo di campione di corsa campestre delle Forze armate, si era rifiutato di sottoporsi alla raccolta dei campioni di sangue e urine da esaminare in laboratorio.

Tra il serio e il faceto, infine, è il caso di un campione vero, Lawrence Kerono, 36 anni, vincitore delle maratone di Boston e Chicage già numero uno al mondo sui 42,195 km.

Così lo scorso anno, la vicenda è stata ricostruita con un comunicato ufficiale di Athletichs Integrity Unit: “Inizialmente Cherono ha affermato che gli era stato somministrato l’antibiotico Eritromicina e che gli era stata anche iniettata una sostanza sconosciuta da un medico per curare problemi di stomaco.

Kenya: scandalo doping

Poi ha anche tentato di coinvolgere i suoi compagni di allenamento per il test fallito, sostenendo che erano “gelosi del suo successo”. In una successiva dichiarazione scritta, Cherono ha dichiarato che sua moglie gli aveva inavvertitamente somministrato Trimetazidina sotto forma di compresse di Carvidon – al posto degli antidolorifici richiesti – per trattare il dolore muscolare dopo l’allenamento. Secondo il corridore, a sua moglie era stata prescritta la Trimetazidina quattro giorni prima in un centro medico…”.

Gloria e vergona di una nazione

Conclusione: accurati controlli hanno dissolto questa cortina fumogena e la sentenza è stata di sette anni di squalifica. Doping: gloria e vergogna di una nazione. Una piaga senza fine.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Trump esibisce foto fake per dimostrare uccisioni di massa di bianchi sudafricani


Africa ExPress
Washington, 23 maggio 2025

Il presidente USA, Donald Trump, durante i colloqui alla Casa Bianca con il suo omologo sudafricano, Cyril Ramaphosa, pur di giustificare il genocidio di afrikaner, ha mostrato uno screenshot con salme, come prova delle uccisioni di massa. Ma i cadaveri mostrati nella foto, tutti avvolti in lenzuola bianche e pronte per la sepoltura, non erano sudafricani ma congolesi. Congolesi uccisi a Goma, capoluogo del Nord-Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo.

Una decina di giorni fa, gli USA avevano già accolto i primi 49 afrikaner con lo status di rifugiati. Eppure con l’insediamento di Trump sono state apportate modifiche importanti alle norme che regolano l’ammissione di richiedenti asilo. Praticamente tutte le persone in fuga da carestie e guerre, per esempio i sudanesi, non hanno più la possibilità scappare in America.

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa a colloquio con Donald Trump alla Casa Bianca

La Reuters, agenzia stampa britannica, di proprietà della multinazionale canadese Thomson Reuters, ha smascherato subito Trump: lo screenshot messo in bella vista dal presidente USA durante i dialoghi con la controparte sudafricana, in realtà fa parte di un video pubblicato il 3 febbraio scorso dai loro reporter. Va ricordato che dall’inizio dell’anno il capoluogo del Nord-Kivu, è sotto assedio dei miliziani M23/AFC .

M23 è un gruppo armato, composto soprattutto da tutsi e sostenuto dal Ruanda, mentre AFC, che significa Alleanza del Fiume Congo, è una coalizione politico militare, fondata il 15 dicembre 2023 in Kenya e della quale fa parte anche M23.

Nessuna discriminazione

E’ dunque evidente che non si tratta del tanto proclamato genocidio di sudafricani bianchi, come invece ha sostenuto Trump. E le ultime statistiche sulla criminalità nel Paese smentiscono categoricamente le affermazioni di uccisioni di massa di bianchi.

Non tutti afrikaner sposano la tesi di Trump e difendono Ramaphosa. “Certo la criminalità esiste nel nostro Paese, ma ne vengono colpiti sia neri e non”, ha chiarito un residente di un quartiere prevalentemente abitato da sudafricani bianchi. Per loro la delinquenza non è legata al colore della pelle.

Secondo quanto affermato proprio oggi da Senzo Mchunu, ministro della Polizia di Pretoria, tra gennaio e marzo 2025, durante gli assalti alle fattorie sono state uccise 6 persone, 5 erano neri. Il governo di Ramaphosa ha sempre respinto accuse di discriminazione nei confronti dei boeri. Forse è vero il contrario. Basti pensare che nel Paese esiste una città, Orania, abitata da soli afrikaner e l’ingresso alle altre etnie è strettamente vietato.

American Thinker

Il post mostrato da Trump a Ramaphosa durante il loro recente incontro è stato pubblicato da American Thinker (rivista online conservatrice) in un lungo articolo sul conflitto in Congo-K e le tensioni razziali in Sudafrica .

Il post non riportava la didascalia dell’immagine, ma la identificava come “screen grab di YouTube” con un link a un servizio video sul Congo-K, accreditato come pubblicato dalla Reuters.

La Casa Bianca non ha rilasciato commenti sulla questione. Andrea Widburg, capo redattrice di American Thinker e autrice del post in questione, ha risposto a Reuters scaricando la responsabilità su Trump: “aveva sbagliato a identificare l’immagine”.

Africa ExPress
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Apartheid e razzismo infiammano le scuole in Sudafrica

Orania, città in Sudafrica per soli afrikaner, vietato l’ingresso a altre etnie

Burkina Faso: jihadisti in azione dopo la visita del presidente a Mosca

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
22 maggio 2025

Il capo della giunta militare di transizione del Burkina Faso, Ibrahim Traoré, anno 1988, il più giovane dei golpisti del Sahel, è volato a Mosca lo scorso 10 maggio per partecipare alla commemorazione della vittoria sui nazisti. A latere della cerimonia è stato ricevuto dal suo omologo, Vladimir Putin.

Ibrahim Traoré, presidente di fatto del Burkina Faso con il suo omologo russo, Vladimir Putin

Traoré è molto stimato da Putin, come del resto da altri personaggi di spicco. Ha il suo fascino con indosso la tuta mimetica griffata, è giovane, insomma è un putschista che ha voltato le spalle all’Occidente. Il golpista è amico della Russia e, ovviamente, ciò non dispiace affatto allo “zar”.

Durante l’ultimo colloquio i due presidenti hanno parlato soprattutto della questione sicurezza e il leader della giunta militare di transizione burkinabé ha chiesto maggiore cooperazione militare e scambio di competenze. “Il mio Paese ha bisogno di un esercito forte per poter voltare pagina e potersi finalmente dedicare allo sviluppo”.

Esclusi Stati AES

Intanto ieri a Bruxelles si è svolto un meeting tra i ministri degli Esteri dell’Unione Africana e i loro omologhi dell’Unione Europea, una riunione volta alla preparazione del prossimo vertice Europa-Africa che si svolgerà nei prossimi mesi nel continente “dimenticato”. All’incontro di ieri non hanno partecipato i rappresentanti dei Paesi dell’AES (Alléance des Pays du Sahel), cioè Burkina Faso, Mali e Niger, perché non invitati dall’UA.

Va ricordato che Ouagadougou, Bamako e Niamey sono usciti definitivamente da ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest) alla fine di gennaio 2025.

Thomas Sankara, ex presidente del Burkina Faso, assassinato nell’ottobre 1987

Nei giorni scorsi è stato inaugurato a Ouagadougou il mausoleo in memoria di Thomas Sankara, il visionario della rivoluzione burkinabé, assassinato nel 1987. Molte le personalità presenti anche dei Paesi limitrofi. Il grande assente, invece è stato proprio il “de facto presidente” del Burkina Faso. Traoré ha inviato un messaggio, letto dal primo ministro, Rimtalba Jean Emmanuel. Nel breve comunicato il leader della giunta militare di transizione ha evocato, tra l’altro, il sacrificio di Sankara e dei combattenti per la libertà, morti insieme a lui. “Il 17 maggio è un simbolo: un rifiuto della dominazione imperialista, del neocolonialismo e dei loro avatar”, ha poi sottolineato alla fine della sua nota scritta.

Traoré vorrebbe assomigliare a Sankara, che era molto amato dal suo popolo. Ma questo non è il caso del leader attuale.

Terroristi in azione

Molte aree del Paese non sono ancora sotto il controllo del governo centrale e gli attacchi dei jihadisti si intensificano di giorno in giorno, malgrado lo spiegamento dell’esercito e i giovani appartenenti al gruppo “Volontari per la Patria” (VDP, ausiliari civili delle truppe di Ouagadougou).

Subito dopo la visita di Traoré a Mosca, le aggressioni si sono moltiplicate e i terroristi hanno attaccato Diapaga, città in prossimità dei confini con il Niger e il Benin. Lo stesso centro ha già subito un assalto alla fine di marzo, durante il quale sono morti una cinquantina tra soldati e VDP.

A Djibo, invece, i sanguinari miliziani hanno assaltato una base militare, una stazione di polizia e un mercato. Tra i morti non solo soldati e ausiliari dell’esercito, ma anche parecchi civili.

Anche Sollé – comune situato tra  Djibo e Ouahigouya – nel nord del Paese, è stato preso di mira dai terroristi. Durante i combattimenti sono stati ammazzati parecchi lealisti. Anche Sangha, comune nella regione del Centro-Est, non è fuggito alla furia dei jihadisti.

Ammazzati oltre 100 civili

Intanto il 12 maggio scorso Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato un rapporto accusando l’esercito e VDP di atrocità commesse a Solenzo nella regione di Boucle du Mouhon lo scorso mese di marzo.

HRW accusa l’esercito e VDP di massaco etnico

Secondo la ONG, durante l’operazione Tourbillon Vert 2 delle forze speciali burkinabé, durata diverse settimane, sarebbero stati massacrati 130 civili, per lo più di etnia fulani.

HRW, che ha sentito oltre 20 testimoni e ha preso visione di diversi video, ha fatto sapere che, secondo le autorità del Burkina Faso, esercito e VDP “hanno respinto un attacco terroristico e ucciso un centinaio di assalitori per poi inseguire quelli che erano fuggitivi”.

Rappresaglia di JNIM

L’operazione militare Tourbillon Vert 2 è proseguita anche nella provincia di Sourou. Sempre in base al rapporto della ONG, nella stessa zona anche i miliziani di JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani, affiliato a al-Qaeda), hanno poi sferrato un sanguinoso attacco contro i residenti. Gli islamisti hanno rigurgitato la loro furia assassina soprattutto verso gli abitanti sospettatati di collaborazionismo con le truppe governative.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Su Youtube appaiono le prime crepe di Traoré, presidente golpista del Burkina Faso

Manette in Kenya a contrabbandieri di formiche arrestati con 5.400 regine

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
21 maggio 2025

Li hanno arrestati con oltre 5.000 formiche regine vive tenute all’interno di 2.400 siringhe, senza ago, utilizzate come provette. Si tratta di due diciannovenni belgi, Lornoy David e Seppe Lodewijckx, che erano in una guest house nella contea di Nakuru, dove tenevano il “bottino”.

Le grandi regine

Tra le regine prigioniere anche le Messor cephalotes, formica rossa originaria dell’Africa orientale e la più grande tra le cinque del genere Messor. Una formica rara quindi difficilmente acquistabile sul mercato e di alto valore economico.

Arrestati per contrabbando e commercio illegale di fauna selvatica e biopirateria i due giovani avevano detto alla Corte che le avevano acquistate per hobby.

Le formiche sequestrate
Le formiche sequestrate ai trafficanti

Ant Gang

Dopo un controllo sugli smartphone dei due ragazzi sono state trovate note che escludevano il loro interesse hobbistico. Anzi, il magistrato, Njeri Thuku, nei messaggi del telefono di David ha scoperto che era membro della “Ant Gang” (Banda delle formiche, ndr). Il giovane aveva scritto di aver acquistato 2.500 regine per 200 dollari.

I giovani si sono dichiarati colpevoli e la giudice li ha condannati al pagamento di un milione di scellini keniani (circa 6.900 euro), o a un anno di prigione.

Stessa sorte per altri due imputati con la stessa accusa: Duh Heng Nguyen, vietnamita e Dennis Nganga, keniota. Nguyen era stato mandato a Nairobi per incontrare Nganga. Sono stati arrestati con 400 formiche regine.

“Non sapevo che vendere le formiche fosse illegale perché questi insetti vengono acquistati e mangiati” – ha raccontato Nganga alla Corte -. La giudice li ha condannati alla stessa pena dei due giovani belgi.

formiche regina in vendita online
Formiche regina in vendita online. La Messor cephalotes (149 euro) è esaurita

Valgono 800 mila euro

Secondo le autorità le formiche erano destinate ai mercati americani, europei e asiatici nel traffico emergente di specie selvatiche meno conosciute.

La vendita online delle 5.400 formiche regina, secondo quanto dichiarato dal magistrato, in Europa, Asia e in Nord America avrebbero fruttato ai contrabbandieri oltre 800 mila euro.

Il contrabbando delle formiche regina è particolarmente fiorente. Sono le uniche in grado di deporre uova e creare quindi i formicai con formiche operaie, soldato e future regine. Online si trovano in vendita con prezzi che arrivano anche ai 300 euro l’una.

“Il Kenya non tollererà il saccheggio della sua biodiversità – ha dichiarato Erustus Kanga, direttore generale del Kenya Wildlife Service (KWS) -. Che si tratti di una formica o di un elefante, perseguiremo i trafficanti senza sosta”.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Bracconieri in azione: sei leoni avvelenati e decapitati in parco dell’Uganda

Mozambico: contro il bracconaggio elefanti nati senza zanne

Strage continua: tra due decenni in Africa non ci saranno più elefanti

 

Israele riapre agli aiuti, ma solo perché “la carestia è un ostacolo per le operazioni militari”

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
20 maggio 2025

Israele riapre agli aiuti umanitari. Ma non come sperava la gente di tutto il mondo. Sarà concesso solo poco cibo, e per combattere meglio i palestinesi. Solamente 5 camion, infatti, sono per ora entrati a Gaza. E due sono carichi di sudari, in un luogo dove ci si appresta a morire più che a vivere.

“Su raccomandazione delle Forze di Difesa Israeliane – si legge in una nota dell’Ufficio del primo ministro secondo quanto riportano le agenzie internazionali – e per la necessità operativa di consentire l’espansione degli intensi combattimenti per sconfiggere Hamas, Israele fornirà alla popolazione una quantità minima di cibo per garantire che non si verifichi una crisi di carestia, che metterebbe a repentaglio la continuazione dell’operazione Gideon Chariots”.

Israele: operazione Gideon Chariots a Gaza

Sembra non avere fine la follia dell’orrore che si è scatenato a Gaza, eppure ogni giorno si registrano nuovi più terribili scenari, e di quella umanità tanto invocata da Vittorio Arrigoni pare resti ben poco.

Operazione Gideon Chariots

Le operazioni militari a Gaza hanno subito un’ulteriore escalation da parte di IDF, l’esercito israeliano. Ora le forze armate israeliane hanno cominciato un’occupazione sistematica del territorio e si prepara (con volantini e un piano di smobilitazione forzata ben preciso) a deportare gli abitanti. I gazesi, privi di acqua, cibo, medicine, con le case ridotte in macerie e i figli che urlano per la fame – almeno quelli rimasti vivi – difficilmente potranno rifiutare. Meglio esuli che morti? Chi conosce bene i palestinesi dice che non sarà mai così.

La notizia dell’assalto è giunta mentre i negoziatori erano in piena attività in Qatar. Le truppe di terra hanno dato il via all’offensiva Carri di Gedeone in quattro aree di Gaza con ben cinque divisioni. I carri armati con la Stella di Davide avanzano a nord e a sud di Khan Younis, con pesanti bombardamenti di artiglieria e attacchi aerei, e nella parte orientale di Jabaliya, nel nord.

L’esercito ha anche ordinato l’evacuazione dall’area orientale di Deir al-Balah. La fase preparatoria, secondo i media, richiederà almeno tre settimane. Sarà “la prima fase di una strategia di lungo termine – ha scritto il Sunday Times – per prendere il controllo di Gaza, radicando le forze israeliane all’interno del territorio palestinese”.

Donald Trump e Benjamin Netanyahu

Insomma mentre con Trump “si apre alla pace, alla tregua, al rilascio di altri ostaggi”, i lavori preparatori per il piano di deportazione sono già iniziati, con la costruzione di strade e infrastrutture su terreni in cui un tempo sorgevano le case della popolazione. Insomma sembra una pantomima vista altre volte che, unendo i puntini, porta all’annessione.

Carovana deputati UE

Mentre tutto questo accade, una delegazione di deputati, europarlamentari, di associazioni e ONG, ha cercato di riscattare l’onore dell’Europa e dell’Italia recandosi in Egitto e fino sul confine israeliano, a Gaza, là dove da 76 giorni si accumulano materiali e soccorsi mentre a poche decine di metri si muore.

Carovana “Gaza oltre il confine”

“Oggi siamo stati al valico di Rafah. Non ci hanno fatto entrare ma potevamo sentire i droni e i bombardamenti continui ed incessanti. Dall’altra parte del confine ci sono 2 milioni di persone che non hanno accesso ad acqua, cibo ed elettricità”. Così dice in un video l’europarlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, Benedetta Scuderi, parlando dal valico di Rafah con la Carovana solidale insieme ad una delegazione di parlamentari ed europarlamentari, associazioni, studiosi e giornalisti italiani.

Immobilismo leader europei

“L’immobilismo dei leader europei è complice dello sterminio del popolo palestinese – ha affermato Laura Boldrini, eurodeputata del Pd e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo -. Oggi la carovana Gaza oltre il confine è arrivata al valico di Rafah, che però è rimasto sigillato: nessuno entra e nessuno esce”.

“Abbiamo anche parlato con vari medici palestinesi, scrive sulla sua pagina FB Cecilia Strada, anch’ella europarlamentare del PD. Sono almeno 100 i morti nelle ultime 24 ore, oltre a malattie ed epidemie, con gli ospedali che sono ormai delle fosse comuni, e con i bambini che vengono amputati senza anestesia, e le madri che partoriscono con il cesareo senza narcosi. Il nostro governo non ha fatto ancora niente, e noi chiediamo al governo italiano e alla Commissione europea di fare subito quello che andava fatto 18 mesi fa”.

L’opinione pubblica internazionale è ormai apertamente schierata (e come non potrebbe) quasi ovunque contro quanto sta accadendo in Palestina, eppure l’Italia continua a non condannare l’invasione e gli evidenti crimini di guerra.

E questo nonostante una giurisprudenza internazionale inattaccabile, fatta di ripetute e chiare condanne, nei decenni trascorsi dalla Nakba (la “tragedia”, come la chiamano i palestinesi).

Un atteggiamento che onestamente sembra inspiegabile, quasi controproducente, o che semplicemente, forse, rende l’idea del livello di sudditanza del nostro Paese. Un giogo così pesante, evidentemente, da non permettere, sei giorni fa in Parlamento, di fronte all’esortazione di uno dei leader dell’opposizione, Giuseppe Conte, nemmeno di alzarsi in piedi per commemorare anche soltanto “le vittime civili”.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Trump alla guerra contro Harvard, l’università liberal schierata con i Palestinesi

Speciale per Africa ExPress
Filippo Senatore
Milano, 19 maggio 2025

L’attacco del Presidente Donald Trump al libero pensiero delle università del suo Paese non ha precedenti. Soprattutto quello sferrato all’Università di Harvard lasciano indignati l’opinione pubblica e il mondo accademico internazionali.

Situata a Cambridge nell’area metropolitana di Boston è stata fondata prima della nascita degli Stati Uniti d’America. Fu istituita infatti il 18 settembre del 1636 a seguito di una delibera della Colonia della Baia del Massachusetts.

Università di Harvard, USA

Originariamente chiamata the New College, prese il nome di Harvard College il 13 marzo 1639 in onore di John Harvard, il suo principale finanziatore, che le aveva lasciato nel testamento la  sua biblioteca (circa 400 libri) che oggi conta  oltre 20 milioni di volumi, 400 milioni di manoscritti, 10 milioni di fotografie e un milione di mappe. La più grande biblioteca del mondo.

Durante l’illuminismo lo spirito comunitario e l’opposizione all’autoritarismo, sia politico sia religioso, si affermò nelle élites culturali tra Boston e Filadelfia. Benjamin Franklin, autodidatta  che ricevette la laurea honoris causa  proprio da questa Università nel 1753, fu uno dei fondatori della Confederazione americana che si dichiarò indipendente nei confronti del Regno Unito il 4 luglio 1776.

Da dove derivava questa apertura dei professori di Harward e di Franklin in un luogo dove  dominava il puritanesimo? Durante il soggiorno a Parigi, Franklin intrattenne un lungo rapporto epistolare con Gaetano Filangieri (1752- 1788) il quale  continuò anche dopo il ritorno di Franklin a Filadelfia. Filangieri è una figura di primo piano nell’Europa della seconda metà del Settecento.

Il giurista napoletano ricevette a più riprese Goethe e intrattenne rapporti con il fior fiore degli intellettuali europei. La sua opera principale, La scienza della legislazione, è una costruzione intellettuale lucidamente utopica e al contempo tecnicamente raffinata e moderna; tra l’altro mette in rilievo l’interdipendenza delle leggi della politica e dell’economia, delinea un’analisi del sistema economico aperto alla concorrenza e al libero scambio, e individua per l’Europa l’urgenza di una radicale riforma agraria.

Gli scritti di Filangieri, furono presentati a Franklin dall’attaché del Regno di Napoli a Parigi. I due divennero    amici sino al punto da considerare un trasferimento dello stesso Filangieri a Filadelfia, cosa che non avvenne a causa della sua prematura scomparsa.

Altre figure che intrecciarono la cultura italiana con Harward furono Lauro De Bosis poeta e traduttore eccellente, eroe della trasvolata su Roma e Gaetano Salvemini esule per non essersi piegato al fascismo. Il primo morì durante la trasvolata serea nel 1931 dopo avere lanciato migliaia di volantini sulla Citta Eterna. In precedenza aveva insegnato letteratura ad Harward per alcuni anni.  Dopo la sua morte gli dedicarono la cattedra e una borsa di studio.

Salvemini aveva trovato stabile asilo sin dal 1933 dove ricoprì la cattedra di Storia della civiltà italiana. Nel 1943 pubblicò le sue lezioni di Harward. Le lezioni di Salvemini sulla nascita del fascismo e  il pensiero politico di Machiavelli  furono il miglior viatico anche per lo studente John Fitzgerald Kennedy, futuro presidente americano e anche per il fratello Bob entrambi laureati nella prestigiosa università.

Sono passati tanti anni e questo attuale presidente degli Stati Uniti sta facendo  tornare indietro la politica mondiale con gravi rischi di catastrofi belliche.

Nei primi anni 60, il Dipartimento di Stato americano non era vincolato a un’accettazione o approvazione parziale delle politiche israeliane. Kennedy sostenne  la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, stabilendo (al paragrafo 11) che “ai rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo il prima possibile e che dovrebbe essere pagato un risarcimento per i beni di coloro che scelgono di non tornare e per la perdita o il danneggiamento dei beni che, in base ai principi del diritto internazionale o di equità, dovrebbe essere risarcito dai governi o dalle autorità responsabili”. Questo principio è diventato noto come “diritto al ritorno”.

J.F. Kennedy

Il 21 novembre 1963, il giorno prima dell’assassinio di Kennedy, il New York Times pubblicò due articoli che esemplificavano la discordia tra Washington e Tel Aviv.

Un rapporto delle Nazioni Unite è intitolato “Israele dissente mentre un gruppo delle Nazioni Unite sostiene gli Stati Uniti sui rifugiati arabi”. Inizia così: “Una risoluzione degli Stati Uniti che chiede continui sforzi per risolvere la difficile situazione dei rifugiati arabi palestinesi è stata approvata stasera, con 83 voti favorevoli e 1 contrario… ”

Israele ha espresso l’unico voto contrario.

La questione è incentrata su una risoluzione del 1948 che riguarda il futuro degli arabi sfollati dalle loro case a causa della pulizia etnica inflitta da Israele ai palestinesi. Il presidente Kennedy fu un convinto sostenitore della necessità di fermare la proliferazione nucleare.

Dopo la crisi missilistica di Cuba del 1962, si rese conto di quanto sarebbe stato facile scatenare, intenzionalmente o accidentalmente, una guerra nucleare catastrofica. Se si consentisse alle armi nucleari di diffondersi in più Paesi, i rischi di una catastrofe globale sarebbero ancora maggiori. Si prevedeva anche che, se Israele avesse acquisito la capacità di dotarsi di armi nucleari, sarebbe diventato più aggressivo e meno propenso a raggiungere un accordo di compromesso sulla questione dei rifugiati palestinesi.

Quando nel 1962 lo spionaggio americano indicò che Israele (aiutata dalla Francia) avrebbe potuto tentare di costruire un’arma nucleare a Dimona (una località a sud di Israele), Kennedy era determinato a scoprire se ciò fosse vero e, in caso affermativo, a fermare la costruzione.

Ciò causò un intenso scontro diplomatico tra JFK e il primo ministro israeliano David Ben-Gurion. La prova di ciò è stata recentemente rivelata dallo scambio di lettere tra il presidente USA e il primo ministro dello Stato ebraico e il suo successore Levy Eshkol. Sono tutti etichettati come “Top Secret” o “Riservati”.

Le prese di posizione di professori e studenti ad Harvard rispetto alla  questione Palestina e al genocidio in atto a Gaza, fondate sui  principi liberali di libertà di espressione risalenti ai padri fondatori, danno fastidio a Trump? Sicuramente la posizione di Kennedy stava adeguando gli USA alle leggi internazionali, alle risoluzioni Onu e alla visione realistica di evitare ulteriori conflitti armati soprattutto in Medioriente.

Filippo Senatore

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Respingimenti migranti in Mauritania: “Non siamo la guardia di frontiera dell’UE”

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
18 maggio 2025

Secondo una stima dell’Associazione Mauritana per i Diritti Umani (AMDH), solo a marzo sono state respinte 1.200 persone, tra loro molti in possesso di permesso di soggiorno. L’ex colonia francese è un punto di transito e di partenza per i migranti che dall’Africa occidentale cercano di raggiungere le Isole Canarie e quindi l’Europa via mare.

Per questo motivo, all’inizio dello scorso anno, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez, erano volati a NouakchottNell’occasione, per arginare il flusso migratorio, è stato siglato un accordo di un finanziamento di 210milioni entro la fine del 2024. Quest’anno Bruxelles ha promesso altri 4 milioni di euro per fornire cibo, assistenza medica ai migranti.

Rotta atlantica verso l’Europa

Subito dopo le prime espulsioni di massa, il Mali aveva espresso indignazione per i respingimenti repressivi e disumani di Nouakchott. E in aprile, in occasione di colloqui a Bamako tra Mohamed Salem Ould Merzoug, ministro degli Esteri mauritano e Assimi Goïta, leader golpista del Mali, le parti si erano accordate per una migliore cooperazione per quanto riguarda i flussi migratori verso la Mauritania. Entrambi i governi avevano promesso maggiori controlli, specie sui social network per stanare i trafficanti di esseri umani e i falsari di passaporti. Molti migranti in possesso di documenti di viaggio maliani erano poi risultati essere originari di altri Paesi subsahariani.

Respingimenti xenofobi

Anche Dakar ha protestato per il trattamento dei migranti in Mauritania. Un membro dell’Assemblea nazionale senegalese ha persino apostrofato le deportazioni come “respingimenti xenofobi” e ha chiesto al suo governo di avviare un’indagine.

Qualche settimana fa il ministro degli Esteri mauritano ha sottolineato che il suo Paese non è la “guardia di frontiera dell’Europa”. Ha poi difeso la politica del suo governo: “La Mauritania è crocevia tra l’Africa subsahariana, il Maghreb e l’Europa ed è dunque al centro delle dinamiche migratorie del continente. La nostra situazione geografica ci espone, ma ci conferisce di gestire questi movimenti in modo ordinato e legale, nel rispetto dei diritti fondamentali”.

La Mauritania non ha preso solo di mira i migranti che intendono imbarcarsi verso le Canarie. Ora sono soggetti alla deportazione forzata anche coloro che risiedono nel Paese da anni per motivi di lavoro e con tutti documenti in regola.

Gli stranieri provenienti da altri Paesi subsahariani rischiano di essere arrestati dalla polizia e deportati a Rosso. La città mauritana, capoluogo della regione di Trarza è situata sulla sponda destra del fiume Senegal che segna il confine tra il Paese vicini. In seguito vengono imbarcati su un traghetto e trasportati alla parte senegalese di Rosso, dove ora sono confinate persone di diverse nazionalità.

Derubati di cellulari, soldi

Un giovane nigeriano che porta segni di bastonate e altre ferite sul corpo, ha raccontato ai reporter di AFP di essere stato arrestato insieme a altri subsahariani. “Ci hanno fermato e picchiato senza dire nemmeno una parola. Poi ci hanno portato via tutto: cellulari, soldi, orologi. Siamo stati ammanettati e buttati su bus carichi fino all’inverosimile alla volta di Rosso.

Rosso: confine tra Mauritania e Senegal: situazione disperata dei migranti espulsi

Un operatore umanitario ha poi raccontato le difficolta di chi cerca di assistere le persone a Rosso; purtroppo gli aiuti non bastano per tutti. Mancano acqua, cibo e tende/ripari.

Diversi analisti, anche a Bruxelles, ritengono che l’ondata di migranti verso la Mauritania sia dovuta anche alla grave crisi che sta attraversando il Sahel. Per esempio in Mali comunità locali vengono attaccate sia da gruppi terroristi, sia dalle forze governative e/o dai loro partner (Africa Force, ex Wagner). In molti hanno cercato protezione nel Paese limitrofo per fuggire a aggressioni e violenze.

Anche mauritani neri temono deportazione

Persino alcuni mauritani neri temono di essere inclusi in queste deportazioni. Va ricordato che la società mauritana è ancora suddivisa in caste. I “mauri” bianchi o “beydens”, di origini arabe-berbere, costituiscono la classe dominante, mentre gli haratines e gli afro-mauritani appartengono alla “classe inferiore” e non hanno quasi mai potuto occupare posti di prestigio nella società. E lo status di schiavo viene ancor oggi tramandato da madre in figlio.

Sulla carta tale asservimento è stato ufficialmente abolito nel 1981, e poi nuovamente il 12 agosto 2015. Ora la nuova legge lo considera come un reato contro l’umanità. Ma nella realtà la schiavitù in questo angolo di mondo esiste ancora.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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