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Sventato attacco dei terroristi a Kampala, uccisa figlia di un kamikaze del 2021

Africa ExPress
Kampala 6 giugno 2025

E’ fallito l’attentato di martedì scorso davanti al Santuario dei martiri ugandesi di Munyonyo, nella periferia di Kampala, capitale dell’Uganda. Secondo quanto riportato dalle forze armate ugandesi (UPDF), due sospetti kamikaze sono stati intercettati e neutralizzati dalle forze del controterrorismo, mentre viaggiavano sulla loro motocicletta a poca distanza dalla chiesa.

Nessun civile è stato ferito, eppure nella vicina chiesa erano presenti parecchi fedeli riuniti in preghiera. Il 3 giugno è il giorno della commemorazione dei martiri – 22 cattolici e 23 anglicani convertiti al cristianesimo  – che, per questo motivo, furono condannati a morte e uccisi fra il 31 gennaio 1885 e il 27 gennaio 1887.

Kampala, Uganda: uccisi due presunti terroristi di ADF

In base a quanto riferito da fonti della sicurezza ugandese, i militari hanno freddato due presunti terroristi si ADF, un uomo e una donna. La giovane è stata identificata come la figlia di un terrorista che si è fatto saltare per aria alla stazione centrale di polizia di Kampala durante i micidiali attacchi del 2021.

Fedeltà all’ISIS

ADF (acronimo per Allied Democratc Forces) è un gruppo armato di origine ugandese, fondato negli anni ‘90 per spodestare Yoweri Museveni, accusato di maltrattare i musulmani. Dal 1995 l’organizzazione è soprattutto attiva nell’est del Congo-K e pochi anni fa ha giurato fedeltà all’ISIS in Africa centrale (ISCAP).

 

La figlia di terrorista ADF, kamikaze del 2021

I miliziani sono accusati di aver massacrato migliaia di civili nella ex colonia belga e di aver commesso attacchi in Uganda. Nel 2021 gli Stati Uniti hanno inserito i ribelli nella lista dei gruppi terroristi.

Paese limitrofo

Le truppe di Kampala sono presenti in Congo-K dal 2021 nell’ambito dell’operazione Shujaa (che tradotto dallo swahili significa “eroi”, ndr), ufficialmente per dare la caccia ai terroristi di ADF a fianco ai soldati dell’esercito di Kinshasa (FARDC). A gennaio l’Uganda ha dispiegato altri mille uomini nel Paese confinante, portando così il contingente a oltre 5mila unità.

Malgrado il dispiegamento delle forze in campo, ADF continua a colpire la popolazione congolese, in particolare i cristiani, specie da quando si è alleato con ISCAP.

Dispiegamento truppe

A fine gennaio di quest’anno il ministero della Difesa ugandese ha spiegato di aver rafforzato la presenza nella RDC soprattutto per salvaguardare gli interessi dell’Uganda durante il conflitto in corso tra FARDC e il gruppo armato M23, sostenuto dal Ruanda. L’organizzazione ribelle prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009.

Il ruolo di Kampala nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo è passato in gran parte sotto silenzio durante le recenti violenze tra M23 e FARDC. Secondo alcuni esperti la presenza del contingente ugandese mira soprattutto a garantire la sicurezza e gli interessi economici di lunga data nell’area ricca di minerali.

Accuse ONU

Va anche ricordato che gli esperti dell’ONU nel loro rapporto dello scorso luglio hanno accusato ufficiali dell’intelligence militare ugandese di aver fornito supporto logistico e mezzi di trasporto a capi del movimento ribelle M23 nelle aree sotto il loro controllo.

Un diplomatico conoscitore della Regione dei Grandi Laghi ha rivelato recentemente ai reporter di AFP che Il ruolo di Kampala nei confronti del gruppo armato sostenuto dal Ruanda è poco chiaro.

Il ruolo Kampala

Lo stesso esperto, che ha voluto mantenere l’anonimato, ha anche sostenuto che esiste una “simpatia etnica” tra la comunità hima, alla quale appartiene Museveni, e i tutsi che costituiscono la maggioranza di M23. Entrambi tradizionalmente sono allevatori e non contadini.

E non è affatto un segreto che tra Museveni e Paul Kagame, presidente del Ruanda, c’è una relazione “da mentore / fratello maggiore”, in quanto l’attuale capo di Stato di Kigali aveva combattuto con il futuro leader ugandese durante la “Bush war” (guerra della foresta ugandese) degli anni ’80.

Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda

E a febbraio, lo stesso presidente ugandese aveva dichiarato: “La nostra presenza in Congo non ha nulla a che fare con la lotta ai ribelli di M23”.

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https://www.africa-express.info/2025/03/03/non-solo-m23-kinshasa-chiama-kampala-per-combattere-altri-gruppi-armati/

https://www.africa-express.info/2024/07/23/congo-k-gli-esperti-dellonu-inchiodano-ruanda-e-uganda-entrambi-collaborano-con-i-ribelli-m23/

https://www.africa-express.info/2021/11/16/due-bombe-a-kampala-vicino-a-stazione-di-polizia-e-parlamento-il-sindaco/

Zionism and the escalation toward genocide in Gaza according to Avi Shlaim

Special for Africa ExPress
Emanuela Ulivi
4th June 2025

Questo articolo in italiano lo trovate qui. 

Facing official versions on the war in Gaza and fueling the debate on whether genocide is taking place or not, Avi Shlaim, one of the New Historians who have been offering a critical reading of Zionism and Israel for the past few decades, puts forth his perspective in his book Genocide in Gaza: Israel’s Long War on Palestine (Irish Pages Press, 2025). The work includes some previously written essays and new chapters, in which the Oxford professor emeritus, born in Baghdad in 1945 into a Jewish family that moved to Israel in 1951, argues that the Israel-Hamas war did not begin on Oct. 7.

Rather, it must be placed in the context of the occupation of the Palestinian territories and a history that has effectively denied the Palestinians’ right to self-determination and to a statehood.

 

Shlaim’s reconnaissance harks back to the Balfour Declaration and its inclusion in the British Mandate over Palestine, which Britain unilaterally renounced. The British left, without implementing the partition plan envisioned by the United Nations, thus creating the conditions for the Naqba, the forced relocation of 750,000 Palestinians at the time the state of Israel was established in 1948.

Continuous Naqba

Since then, it has been for Shlaim, borrowing the expression coined by Hanan Ashrawi, a “continuous Naqba,” which has marked the history of the Palestinians with progressive dispossession by settlement colonialism that, unlike the subjugation of local populations carried out by colonial powers, has worked for the replacement of the natives.

With the advent of right-wing governments in Israel, even the “land for peace” formula, at the heart of negotiations between Israelis and Palestinians until the Oslo Accords, was supplanted by another equation, “peace for peace,” which saw on the one hand the acceleration of settlements in the West Bank, and on the other the Abraham Accords, i.e., the attempt to normalize relations with Arab countries without the need to resolve the Palestinian conflict.

Benjami Netanyahu, Israeli prime minister

Benjamin Netanyahu, son of Benzion – the advisor to Ze’ev Jabotinsky, founder of Revisionist Zionism and author of “On the Iron Wall (We and the Arabs),” a title traced moreover in the name of the operation launched by Israel in the West Bank in late January 2025 – head of Likud since 1993 and now for the sixth time head of government, does not continue the war in Gaza as many claim in order to postpone his judicial appointments, nor because he is a hostage of the messianic right. Netanyahu, Shlaim writes, is not a moderate right-wing politician, he is himself an extremist, a staunch proponent of Greater Israel, which includes Judea and Samaria, i.e., the West Bank, with an existential mission: to prevent the creation of an independent Palestinian state.

Wrong Party

In the same vein, Israel’s 2005 withdrawal from Gaza was anything but a contribution to peace as it was made out to be, it was rather a move in Israel’s interest: 8,000 settlers left the strip, and the following year, thanks to the Likud government, 12,000 new settlers settled in the West Bank, where the separation wall built by Sharon himself was actually a redrawing of the borders, which had more to do with land appropriation than state security.

In Gaza, when the Palestinian Authority’s legislative elections in 2006 – which, the author points out, were held democratically – won Hamas, the wrong party for Israel and the West, and formed a first government and then a second one of national unity in 2007 composed mostly of technocrats, not only did Israel and its allies not recognize them, Israel rejected the proposal of Hamas, the Islamic Resistance Movement, whose positions had become softer than the maximalist and anti-Semitic ones of 1988, to negotiate a long-term truce, which meant acceptance of a two-state agreement and implicitly Hamas recognition of Israel.

Special Rapporteur Francesca Albanese [photo credit United Nations].
It was later learned in 2008 from the Palestine Papers of Israel and the United States’ attempt to sabotage the Hamas government by helping Fatah organize a coup. Hamas, however, played ahead and violently seized power in Gaza in June 2007. The military operations of the IDF, the Israeli Defense Forces, conducted in 2009, 2012, 2014, 2021, 2022, to “mow the grass” – according to a dehumanizing metaphor – were veritable collective punishments for the disproportionate number of deaths, which did nothing but prepare each for the next war.

None, however, like the October 2023 offensive, which raises the specter of a second Naqba. Francesca Albanese, UN Special Rapporteur on the Occupied Palestinian Territories since 2022, who wrote the foreword to Avi Shlaim’s book, in the report Anatomy of a Genocide calls Gaza’s a tragedy foretold.

Genocidal intentions

But the conviction that there were genocidal intentions was not immediate for the author, who has never questioned the legitimacy of the state of Israel within its pre-1967 borders and has always supported the two-state solution, even if that is a now-buried perspective: better, he says, one state “from the river to the sea” where there are freedoms and equal rights for all.

Death and destruction caused by Israeli shelling in the Gaza Strip

Not only the killing of civilians on an industrial scale and the destruction of civilian infrastructure, but the blockade of humanitarian aid and starvation in Gaza show that it has gone far beyond self-defense.

Genocide, he writes, is the last resort of frustrated ethnic cleansers. Zionism and Judaism, however, he is keen to point out, are two different things, the former being an ideology, the latter a religion. The government headed by Netanyahu is the antithesis of Jewish values, which are altruism, truth, justice and peace.

Emanuela Ulivi

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Il sionismo e l’escalation verso il genocidio a Gaza secondo Avi Shlaim

Accordo sul nucleare iraniano: iniziato il round decisivo

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
4 giugno 2025

Nelle ultime 24 ore, come si prevedeva tra impuntature e frasi concilianti, è entrato nel vivo il negoziato per il nucleare iraniano.

Un accordo, infatti, urge, soprattutto a Donald Trump. Il presidente USA necessita un successo in politica estera visti i chiari di luna in Ucraina. Ma anche gli iraniani, al di là della voce grossa e degli “altolà” della Guida Suprema, capiscono perfettamente di essere di fronte a un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più.

Negoziati sul nucleare iraniano Washington-Teheran

Ha aperto le danze finali del confronto Trump, che due notti fa ha scritto su Truth che non permetterà “alcun arricchimento dell’uranio nell’ambito di un potenziale accordo” con Teheran.

Arricchimento limitato dell’uranio

Ma il messaggio va letto in un gioco al poliziotto buono e a quello cattivo che ormai in geopolitica gli analisti più attenti sono abituati a veder fare tra il presidente e il sito web Axios. Quest’ultimo aveva infatti rivelato come l’ultima proposta avanzata dagli americani sabato scorso avrebbe consentito agli iraniani di effettuare un arricchimento limitato dell’uranio, cosa che il governo statunitense prima aveva sempre escluso. L’uscita di Trump sembra quindi essere più una rassicurazione per Netanyahu e il suo Congresso, che un monito all’Iran.

La reazione persiana non si è comunque fatta attendere con la triade allineata. La Guida suprema, Ali Khamenei, ha dichiarato che la proposta statunitense va contro agli interessi del Paese. “L’Iran non aspetta la luce verde di Washington per prendere decisioni”, ha aggiunto.

Il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, ha ribadito su X “Nessun arricchimento, nessun accordo. Nessuna arma nucleare, abbiamo un accordo”. Il presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, ha affermato che la Repubblica islamica non scenderà a compressi sui suoi “diritti nucleari”. In realtà potrebbe farlo, ma non davanti agli occhi dell’orgoglioso popolo iraniano.

Ma cosa c’è di vero? Siamo a un passo dalla rottura o a un passo da un accordo che in realtà imbarazza entrambi i governi? E soprattutto quale sarà il punto di caduta?

Fallimento a Riad

I negoziati precedenti a quelli di Roma sul nucleare iraniano, in occasione della visita in Medio Oriente di Trump, a Riad, avevano subito preso una piega sbagliata. Sulle prime infatti c’era stata l’ipotesi – come avevano chiesto gli stessi iraniani – di tornare semplicemente all’accordo sul nucleare del 2015 con tante scuse degli USA e un totale annullamento delle sanzioni.

Sarebbe stato un ritorno al 3.67 per cento. Ma Washington ha commesso un errore diplomatico, tirando troppo la corda. Ha improvvisamente inserito nel negoziato due polpette avvelenate: la prima è che quel 3.67 per cento avrebbe dovuto essere arricchito all’estero, probabilmente in Russia. Impensabile per il concetto di sovranità iraniana. La seconda è che l’Iran avrebbe dovuto congelare anche il suo sviluppo militare missilistico, praticamente l’unica cosa che ha impedito fino ad ora ai suoi nemici di farlo fuori. Senza contare che durante i colloqui gli americani, non proprio provvidamente, avevano fatto scattare nuove sanzioni per far contento Israele.

Gli iraniani però hanno già passato anni tremendi, con attentati, assassini mirati di scienziati, mancanza di cibo nei mercati, collasso commerciale, e adesso non hanno più paura, né della guerra né delle sanzioni. Quindi la Repubblica islamica al momento è troppo indurita per venire piegata.

Ma un punto di caduta nella trattiva potrebbe essere quello dell’accordo in due tempi, con una sospensione dell’arricchimento sì, ma solo per un anno, in cambio di un allentamento sostanzioso delle sanzioni economiche e di ulteriori scongelamenti di asset finanziari petroliferi sequestrati.

Accordo a pagamento

Insomma, un accordo a pagamento, in linea con alcune altre importanti concessioni finanziarie del recente passato che hanno probabilmente influito anche sulle limitate reazioni dell’Iran ai colpi militari messi a segno da Israele al cosiddetto “Asse della Resistenza”. L’ipotesi più recente che si è fatta strada, è che gli USA potrebbero facilitare la costruzione di reattori nucleari per l’Iran, ma gli impianti di arricchimento sarebbero gestiti da un consorzio di Paesi della regione, anche se operanti in Iran.

Di certo resta evidente il doppio standard a cui è sottoposto un Paese sovrano, che non ha mai dichiarato guerra a nessuno dal 1979, anno in cui da “amico” di Washington è diventato “nemico”.

Israele: Arsenale nucleare

Intorno a sé ha Paesi con la bomba nucleare: Israele, Pakistan, Russia, tutte le basi USA intorno al Golfo persico con bombardieri strategici, portaerei e sottomarini. Israele viene accreditata di un arsenale nucleare tra le 200 e le 300 testate. Perché l’AIEA non chiede di mettere telecamere e fare controlli anche allo Stato ebraico?

Perché loro sono una “democrazia”? Perché sono “affidabili e moderati”? Dopo lo stermino di Gaza? L’Arabia Saudita sta sviluppando un programma nucleare aiutata da Washington: perché l’AIEA e il mondo occidentale non chiedono controlli anche lì? E ancora: le violazioni sui diritti umani che contestiamo all’Iran non sono forse presenti, e in modo assai più grave, anche a Riad. E quindi?

E ancora: lo sanno, gli europei, che l’Iran aderisce al TNP, il Trattato di non proliferazione nucleare? Israele che protesta per queste ricerche non vi aderisce. E che dire infine di coloro che si ergono a giudici della legittimità del programma nucleare iraniano, gli USA? Il più grande detentore mondiale di ordigni nucleari, con in corso da alcuni anni un profondo riammodernamento dell’arsenale per renderlo più offensivo e letale. Gli Stati Uniti sono gli unici nella storia ad aver avuto il coraggio di usare il nucleare militare, nella Seconda Guerra Mondiale. E su civili inermi.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Iran non vuole cedere sul nucleare, ma accordo urge

Le crisi umanitarie dimenticate: nuovo rapporto di autorevole ONG norvegese

Africa ExPress
Dakar, 3 giugno 2025

Come ogni anno, la ONG Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) ha pubblicato il suo nuovo rapporto sulle crisi di migratorie più trascurate e dimenticate al mondo. La ONG presenterà analisi e conclusioni oggi a Dakar, capitale del Senegal. Nel 2024, tra i primi dieci Paesi analizzati, otto sono in Africa, mentre gli altri due sono Iran e Hondouras, in America Centrale. L’autorevole ONG ha sottolineato che si tratta di emergenze dove i bisogni umanitari di sfollati e rifugiati sono sotto finanziati. Queste crisi godono di poca attenzione dei media e l’azione politica è carente sia a livello nazionale, sia internazionale.

In fuga da guerre, conflitti interni, fame, cambiamenti climatici, terrorismo

In testa alla triste classifica troviamo il Camerun, che da anni deve affrontare crisi su ben tre fronti: nella provincia dell’Estremo Nord le incursioni dei terroristi Boko Haram, violenze degli indipendentisti anglofoni che si consumano in quelle del Nord-Ovest e Sud-Ovest. Infine l’est è colpito di riflesso dall’instabilità della Repubblica Centrafricana.

Lo scorso anno il sostegno economico per 1,1 milioni di sfollati e i circa 500 mila rifugiati ha coperto meno della metà delle necessità urgenti e la situazione umanitaria in Camerun è stata menzionata pochissimo dai media internazionali. Un mea culpa va anche a noi di Africa-ExPress che abbiamo dedicato poco spazio a questo dramma dimenticato.

L’Etiopia si inserisce al secondo posto nel 2024, la posizione più alta da quando il rapporto è uscito per la prima volta nove anni fa. Mentre il Mozambico, mai inserito fino ad ora, è terzo in classifica.

Anche l’accogliente Uganda nella lista

Anche l’Uganda appare per la prima volta nella lista della ONG. Il Paese, all’avanguardia in fatto di politica di accoglienza dei rifugiati, perché garantisce libertà di movimento, diritto al lavoro e accesso ai servizi, nel 2024 si è trovato in grave difficoltà. La pressione migratoria, dovuta ai conflitti in atto in Sudan, Repubblica Democratica del Congo e altri è in costante aumento e i finanziamenti da parte delle Organizzazioni internazionali sono in forte calo, come quasi ovunque nel mondo.

La Repubblica Democratica del Congo è scesa all’ottavo posto, la sua posizione più bassa fino ad oggi e il Burkina Faso, che era in cima alla lista nel 2022 e 2023, è ora in quarta posizione.

Ma attenzione, i cambiamenti non riflettono miglioramenti significativi. Anzi, mettono in risalto la dura verità: quasi tutte le crisi umanitarie prolungate vengono ora trascurate.

Guerre, conflitti interni, terrorismo, fame, cambiamenti climatici e quant’altro sono in continuo aumento e dunque anche le persone in fuga. Il numero di sfollati nel mondo è raddoppiato nel giro di 10 anni.

Africa ExPress
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Indipendentisti e Boko Haram: le due crisi del Camerun che si consumano in silenzio

Iran non vuole cedere sul nucleare, ma accordo urge

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
2 giugno 2025

È terminato da alcuni giorni, a Roma, il quinto round di colloqui tra USA e Iran sull’Accordo per il nucleare bis. Al netto dei commenti mainstream che affollano lo scenario mediatico sulla geopolitica della Repubblica islamica, possiamo riassumere il risultato nel seguente modo: è stata una tornata diplomatica che tecnicamente non ha decretato alcun successo ma l’accordo, a sorpresa, potrebbe essere vicino.

Roma: colloqui tra USA e Iran sul nucleare

La minaccia israeliana di attaccare i siti nucleari iraniani, infatti, ha creato la necessità di portare a casa un risultato di contenimento iraniano da parte degli USA nel più breve tempo possibile.

Evitare azione militare israeliana

I media corporate quindi si sono prodotti in contorsionismi dialettici per sottolineare il risultato di Roma, per il semplice fatto – è l’opinione prevalente degli analisti – che una delusione sugli esiti del tavolo avrebbe dato al governo Netanyahu la scusa per far scattare l’opzione militare.

Spauracchio non tanto per la pace nel mondo, quanto perché creerebbe un disastro economico e finanziario a USA e UE.

Se si dovesse riassumere cosa ci lasciano realmente i colloqui italiani è questo: l’Iran non è più disposto a cedere come ha già fatto in passato, non questa volta. Quello del 2025, a distanza di dieci anni dal primo, dovrà essere un accordo win-win, da presentare con orgoglio agli iraniani dopo lo “schiaffo” del 2015.

Un accordo in cui i danneggiati di allora dovranno ottenere quasi tutto, e a Trump resterà invece la gloria di un accordo storico in un momento in cui la sua capacità diplomatica è messa in forte discussione dopo i tira e molla nella mediazione sul conflitto tra Russia e Ucraina.

Proprio per dare forza ai colloqui, il 31 maggio il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha ribadito quanto già detto più volte dalla Guida Suprema, cioè che “le armi nucleari sono inaccettabili”. “Se il problema sono le armi nucleari – ha dichiarato – sì, anche noi consideriamo questo tipo di arma inaccettabile”.

Siamo chiari, l’Iran la bomba è come se l’avesse. Non la assembla ma è molto probabile che possa farlo. La posta in gioco quindi è la sua deterrenza complessiva, che non passa dalla bomba, sbandierata dall’Occidente come un “pericolo imminente” sin dal 1979, ma dal suo arsenale missilistico. Che non a caso Israele voleva infilare nel nuovo Accordo.

Sesto round possibile

Da Vienna, sede dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), il direttore generale, Rafael Grossi, ha sottolineato come il fatto che ci sarà un sesto round sia già un successo.

L’unico, appunto quello che potrebbe generare la svolta, dovrebbe essere, per ora, proprio il prossimo. Sarà firmato in un Paese arabo e potrebbe prevedere una possibile partecipazione esterna degli Stati Uniti nel programma nucleare civile iraniano con la creazione di un consorzio di controllo formato anche da nazioni del Medio Oriente e dall’AIEA.

Uranio arricchito deve restare nel Paese

Questo consorzio (perché portare fuori dal Paese il proprio uranio per l’Iran non se ne parla proprio) produrrebbe l’uranio arricchito per i reattori iraniani del programma nucleare in sviluppo (altro punto sul quale il governo di Teheran non cede di un centimetro).

E il settore missilistico balistico iraniano (nodo sul quale l’Iran avrebbe fatto saltare il tavolo) non rientrerà nell’attuale discussione, ma in futuri “follow up” per evitare magari che i vettori balistici possano essere armati con testate atomiche. Una sottile clausola che non potrebbe mai però portare a un reale controllo.

Insomma, ci si attende una vittoria a tutto campo delle tesi di Teheran, ma un successo ancor più grande di Trump di fronte al Mondo. D’altra parte l’Iran è parte lesa rispetto all’uscita unilaterale decretata da Trump nel 2015: una mossa controproducente, per gli USA, dato che già allora avrebbe congelato nel limite del 3,67 per cento l’arricchimento massimo dell’uranio in cambio della fine delle terribili sanzioni economiche che hanno strozzato la Repubblica islamica.

Teheran a un passo dalla bomba atomica

Ora invece Washington dovrà cooperare per perimetrare quel materiale fissile che gli iraniani, svincolati da un accordo, hanno a quel punto continuato a produrre facendolo salire fino al 60 per cento, a un passo quindi da quel 90 per cento che serve per produrre una bomba.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Il sionismo e l’escalation verso il genocidio a Gaza secondo Avi Shlaim

Speciale per Africa ExPress
Emanuela Ulivi
1° giugno 2025

A fronte delle versioni ufficiali sulla guerra a Gaza e ad alimentare il dibattito se sia in corso o meno un genocidio, Avi Shlaim, uno dei Nuovo Storici che da qualche decennio offrono una lettura critica del Sionismo e di Israele, propone la sua prospettiva in Genocide in Gaza: Israel’s Long War on Palestine (Irish Pages Press, 2025). Una serie di saggi scritti in precedenza e nuovi capitoli, nei quali il professore emerito di Oxford, nato a Baghdad nel 1945 da una famiglia ebrea trasferitasi nel 1951 in Israele, argomenta che la guerra Israele-Hamas non è cominciata il 7 ottobre.

Deve essere piuttosto collocata nel contesto dell’occupazione dei territori palestinesi e di una storia che di fatto ha negato il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e ad avere uno Stato.

La ricognizione di Shlaim si rifà alla dichiarazione Balfour e alla sua inclusione nel Mandato Britannico sulla Palestina, cui la Gran Bretagna rinunciò unilateralmente. Gli inglesi se ne andarono, senza applicare il piano di partizione previsto dalle Nazioni Unite, creando così le condizioni per la Naqba, il trasferimento forzato di 750.000 palestinesi nel momento in cui fu istituito la Stato di Israele nel 1948.

Naqba continua

Da allora si è trattato per Shlaim, riprendendo l’espressione coniata da Hanan Ashrawi, di una “Naqba continua”, che ha contrassegnato la storia dei palestinesi col progressivo spossessamento ad opera del colonialismo di insediamento che, a differenza dell’assoggettamento delle popolazioni locali realizzato dalle potenze coloniali, ha operato per la sostituzione dei nativi.

Con l’avvento dei governi di destra in Israele anche la formula “land for peace”, terra in cambio di pace, al cuore delle trattative tra israeliani e palestinesi fino agli Accordi di Oslo, è stata soppiantata da un’altra equazione, “peace for peace”, che ha visto da un lato l’accelerazione degli insediamenti in Cisgiordania, dall’altra gli Accordi di Abramo, ossia il tentativo di normalizzare le relazioni coi Paesi arabi senza la necessità di risolvere il conflitto palestinese.

Benjami Netanyahu, primo ministro israeliano

Benjamin Netanyahu, figlio di Benzion – il consigliere di Ze’ev Jabotinsky, fondatore del Sionismo Revisionista e autore di “On the Iron Wall (We and the Arabs)”, titolo  ricalcato peraltro nel nome dell’operazione lanciata da Israele in Cisgiordania a fine gennaio 2025 – capo del Likud dal 1993 e oggi per la sesta volta capo di governo, non continua la guerra a Gaza come sostengono molti per rinviare i suoi appuntamenti giudiziari, né perché ostaggio della destra messianica. Netanyahu, scrive Shlaim, non è un politico moderato di destra, è egli stesso un estremista, propugnatore convinto della Greater Israel, che comprende la Giudea e la Samaria, ossia la Cisgiordania, con una missione esistenziale: impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Partito Sbagliato

Nella stessa direzione, il ritiro di Israele da Gaza del 2005 è stato tutt’altro che un contributo alla pace come si è voluto far credere, piuttosto una mossa nell’interesse di Israele: 8.000 coloni hanno lasciato la Striscia e l’anno dopo, grazie al governo del Likud, 12.000 nuovi coloni si sono insediati in Cisgiordania, dove il muro di separazione costruito dallo stesso Sharon è stato in realtà un ridisegno dei confini, che aveva a che fare più con l’appropriazione della terra che con la sicurezza dello Stato.

A Gaza, quando nel 2006 alle elezioni legislative dell’Autorità Palestinese – che, sottolinea l’autore, si sono svolte democraticamente – ha vinto Hamas, il partito sbagliato per Israele e l’Occidente, e ha formato un primo governo e poi un secondo di unità nazionale nel 2007 composto per lo più da tecnocrati, non solo Israele e i suoi alleati non li hanno riconosciuti, Israele ha rigettato la proposta di Hamas, il Movimento di Resistenza Islamico, più morbido rispetto alle posizioni massimaliste e antisemite del 1988, di negoziare una tregua a lungo termine, che significava l’accettazione di un accordo a due Stati e implicitamente il riconoscimento di Israele da parte di Hamas.

Si è saputo poi nel 2008 dai Palestine Papers del tentativo di Israele e degli Stati Uniti di sabotare il governo Hamas aiutando Fatah a organizzare un colpo di Stato. Hamas ha però giocato d’anticipo e ha preso il potere a Gaza con la violenza nel giugno 2007. Le operazioni militari dell’IDF, le forze di difesa israeliane, del 2009, 2012, 2014, 2021, 2022, per “tagliare l’erba” – secondo una metafora disumanizzante – sono state vere e proprie punizioni collettive per il numero sproporzionato di morti, che non hanno fatto altro che preparare ognuna la guerra successiva.

La Relatrice speciale Francesca Albanese [photo credit United Nations]
Nessuna però come l’offensiva dell’ottobre 2023, che solleva lo spettro di una seconda Naqba. Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite nei Territori Palestinesi Occupati dal 2022, che ha scritto la prefazione del libro di Avi Shlaim, nel suo rapporto Anatomia di un Genocidio definisce quella di Gaza una tragedia annunciata.

Intenti genocidari

Ma la convinzione che ci fossero intenti genocidari non è stata immediata per l’autore, che non ha mai messo in dubbio la legittimità dello Stato di Israele nei confini precedenti il 1967 e ha sempre sostenuto la soluzione dei due Stati, anche se questa è una prospettiva ormai sotterrata: meglio, dice, un solo stato “dal fiume al mare” dove ci siano libertà e uguali diritti per tutti.

Striscia di Gaza

Non solo l’uccisione di civili su scala industriale e la distruzione delle infrastrutture civili, ma il blocco degli aiuti umanitari e la morte per fame a Gaza mostrano che si è andati ben oltre l’autodifesa.

Il genocidio, scrive, è l’ultima risorsa di chi, frustrato, opera una pulizia etnica. Il Sionismo e l’Ebraismo, ci tiene però a precisare, sono due cose diverse, il primo è un’ideologia, l’altro una religione. Il governo presieduto da Netanyahu è l’antitesi dei valori ebraici, che sono l’altruismo, la verità, la giustizia e la pace.

Emanuela Ulivi

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Africa ExPress e Senza Bavaglio il 7 e 21 giugno in piazza a Roma: no alla guerra, al riarmo, stop al genocidio a Gaza

Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Valerio Giacoia
Roma, 31 maggio 2025

Africa ExPress e Senza Bavaglio saranno in prima fila a Roma alla grande manifestazione nazionale per dire basta al genocidio in atto a Gaza, organizzata da Partito democratico, Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra.

Appello congiunto

Un appello a “tutte e tutti coloro che sentono come insopportabile quello che sta succedendo a mobilitarsi insieme per fermare il massacro e i crimini del governo Netanyahu”, come si legge in una nota congiunta firmata da Elly Schlein, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni.

A Roma il 7 giugno si terrà la manifestazione contro il genocidio in Palestina

Un’esortazione a scendere compatti in piazza anche per spezzare quel muro di silenzio e indifferenza da parte del governo Meloni e anche della stampa italiana, parte della quale addirittura nega che Israele stia perpetrando un sterminio di massa nei confronti del popolo palestinese.

Silenzio e indifferenza che “le nostre forze politiche non possono permettere”,  spiega la leader del PD, Elly Schlein, sottolineando l’importanza di “avere scritto insieme una mozione che vuole suscitare un dibattito in Parlamento, dove manca da troppo questo tema, ma pure nel Paese”.

PD, M5S e AVS hanno sottoscritto una mozione, tra i cui punti principali ci sono il riconoscimento dello Stato di Palestina secondo i confini del 1967, la condanna dello sterminio a Gaza, la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, la fine dell’occupazione illegale della Cisgiordania, la condanna dei crimini di guerra di Israele e la sospensione degli accordi di associazione tra Unione Europea e Israele.

E di nuovo in Piazza

E dopo il 7, noi di Africa ExPress e Senza Bavaglio saremo di nuovo in piazza il 21 giugno,

Un appuntamento fondamentale nel pur difficile tentativo di pressione mondiale sul governo di Benjamin Netanyahu, che si aggiunge alle mobilitazioni in tutta Europa in calendario appunto dal 21 al 29 del prossimo mese.

No al riarmo dell’UE

Il nostro lavoro quotidiano di informazione, di inchiesta, di verità, non può in questo momento prescindere dalla piazza. Ecco perché saremo al fianco delle centinaia tra reti, associazioni, organizzazioni sindacali e politiche che hanno aderito all’appello di Storm ReArm Europe, e nel giorno in cui all’Aja, il 21 giugno, i vertici UE, governo italiano compreso, lanceranno il grande piano di riarmo.

Una vergogna universale contro cui è necessario gridare NO oceanico. Un NO al quale si uniranno oltre 300 gruppi, ed è confortante vedere come questo numero aumenti di giorno in giorno (la lista è in continuo aggiornamento sul sito di #stoprearm).

Fermiamo Israele

Tutti insieme a Roma anche “per fermare Israele – come leggiamo nella nota dei promotori italiani della Campagna europea, ovvero Arci, Ferma il Riarmo (di cui fanno parte Rete Italiana Pace e Disarmo, Fondazione Perugia Assisi, Greenpeace Italia), Attac e Transform Italia – che ha lanciato, rivendicandola pubblicamente, l’offensiva finale su Gaza”. Lì dove continuano a piovere le bombe israeliane che stanno massacrando la popolazione, uccidendo bambini e intere famiglie con la scusa, vigliacca, di annientare Hamas ma in realtà per eliminare alla radice i palestinesi.

Tutti in Piazza per la PACE

Scenderemo dunque in piazza anche noi di Africa ExPress e Senza Bavaglio, per dichiarare di stare dalla parte della pace e non della guerra, delle vittime innocenti del genocidio, di chi non ha voce, né ormai la forza per usarla, e per urlare la nostra opposizione all’ignobile silenzio sulla barbarie.

Di fronte alla cultura della guerra, che ci fa precipitare indietro di secoli, non si può non alzare la voce, non si può non intervenire. Soprattutto, non si può più tacere

Valerio Giacoia
valeriogiacoia@yahoo.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Rien ne va plus in Sudan: oltre la guerra anche il colera

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
30 maggio 2025

Orrore su orrore. Ora ci si mette anche una epidemia di colera, virus spesso letale per chi è affetto da altre patologie o soffre di grave malnutrizione come una buona fetta della popolazione sudanese, Paese in guerra da oltre due anni.

Sudan: Epidemia di colera

Il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023 tra le Rapid Support Forces (RFS), capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, e le Forze armate sudanesi (SAF) capitanate da Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, continua senza sosta.

Primato mondiale sfollati

L’ex protettorato anglo egiziano ha il maggior numero di sfollati al mondo. Davvero un triste primato. A causa del conflitto, oltre 14,4 milioni di cittadini hanno lasciato le proprie case, tra loro quasi 4 milioni hanno cercato protezione nei Paesi vicini, Egitto, Sud Sudan, Ciad, Etiopia, Libia, Repubblica Centrafricana e altri. I morti non si contano più, ma si stima che dall’inizio del conflitto siano morte oltre 150 mila persone, e questo nel quasi totale silenzio della comunità internazionale.

Nel Paese si è scatenata una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche, ma anche le capacità di risposta dei Paesi limitrofi sono messe a dura prova dalla crisi dei rifugiati.

Epidemia colera

Ed ora ci mancava l’epidemia di colera.  Martedì scorso, il ministero della Sanità ha fatto sapere che negli ultimi giorni sono stati accertati oltre 2.700 persone positive al micidiale batterio vibrio colera. I morti sarebbero 172. Il 90 per cento dei positivi sono residenti nello Stato di Khartoum, dove la rete idrica e l’elettricità è stata interrotta per i continui attacchi con droni di RFS. I residenti non hanno dunque avuto accesso a fonti di acqua controllata.

Armi chimiche

Secondo gli Stati Uniti, il governo di Khartoum avrebbe fatto uso di armi chimiche almeno due volte in aree remote del Paese, durante combattimenti contro i paramilitari guidati da Hemetti. Il fatto era stato riportato lo scorso gennaio dal New York Times.

Pur non avendo fornito prove evidenti, Washington ha chiesto alle autorità sudanesi di rispettare gli obblighi internazionali contro le armi chimiche e ha informato Khartoum che i primi di giugno scatteranno le relative sanzioni. Il Paese africano ha respinto le accuse, e, secondo un comunicato di Khalid Al-Aiser, portavoce del governo sudanese, si tratta di un “ricatto politico e una deliberata falsificazione dei fatti” degli USA.

Al-Aiser ha poi criticato il silenzio di Washington per quanto riguarda i massacri, ben documentati, di civili nel Darfur e in altre regioni del Paese. Il portavoce ha inoltre criticato nuovamente gli Emirati Arabi Uniti per il loro sostegno alla RFS, accuse che Abu Dhabi ha sempre negato.

Nord Darfur, Sudan, Sempre meno cibo a Al-Fashir

Intanto la situazione a Al-Fashir, capoluogo del Nord-Dafur, sta peggiorando di giorno in giorno. In base a quanto riferito dagli attivisti, la città sotto assedio di RFS da aprile 2024, i beni di prima necessità stanno sparendo dai pochi mercati ancora attivi e la merce in vendita ha raggiunto prezzi inverosimili. Migliaia di residenti intrappolati nella città, rischiano di morire di fame.

Stupro come arma da guerra

Secondo un rapporto di MSF di due giorni fa, in Darfur donne e ragazze sono quotidianamente a rischio di violenze sessuali. “Non si sentono al sicuro da nessuna parte. Vengono attaccate nelle loro case, mentre sono in fuga, quando cercano di procurarsi cibo o raccolgono legna da ardere o lavorano nei campi. Ci dicono di sentirsi in trappola ovunque”, ha spiegato Claire San Filippo, coordinatrice per le emergenze di MSF.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ai ribelli del Sudan armi cinesi via Emirati: e Khartoum rompe i rapporti diplomatici

“Genocidio”, il libro di Rula Jebreal che colpisce direttamente il cuore del lettore

Speciale per Africa ExPress e Senza Bavaglio
Filippo Senatore
Milano, 29 maggio 2025

La questione palestinese negli ultimi 78 anni, in sintesi possiamo definirla come la favola di Fedro del lupo e dell’agnello.  “Sei mesi fa – disse il lupo – hai parlato male di me!”. Rispose l’agnello: “Veramente… non ero ancora nato!”

Alla fine degli anni 80 alcuni storiografi israeliani, Benny Morris, Ilan Pappe, Avi Shlaim, Tome Segev hanno divulgato documenti dello Stato di Israele che riguardano la Nakba palestinese del 1948. Rivelano un colonialismo fatto di insediamenti e di sostituzioni etniche, dopo una pulizia feroce e disumana di 750 mila palestinesi.

L’Onu che pur aveva favorito la nascita di Israele fu colpita da un gruppo di terroristi israeliani che uccise i suoi diplomatici, lo svedese Folke Bernadotte e André Serot, che si stavano adoperando per una soluzione pacifica tra ebrei immigrati e palestinesi residenti da generazioni nella loro terra. Sulla definizione dei crimini di Israele  lasciamo la parola a Ronald Reagan che nel 1982 definì olocausto la strage di Sabra e Shatila.

Fosforo bianco

Israele come il lupo della favola citata, da anni possiede l’atomica, dispone di armi sofisticatissime e distruttive come quelle al fosforo bianco, usate da tempo sui civili.

La giornalista e docente Rula Jebreal nel suo ultimo libro Genocidio, uscito per Piemme nei giorni scorsi, racconta il massacro di uno dei 500 villaggi palestinesi, Deir Yassim, il 9 aprile 1948 compiuto dal, non ancora chiamato così, esercito israeliano che trucidò, stuprò e bruciò gran parte della popolazione residente.

Rula Jebreal. La giornalista palestinese è sposata con un ebreo americano

Jebreal – la cui famiglia ha subito la Nakba nel 1948 con strascichi drammatici che hanno coinvolto la sua vita e quella dei suoi familiari – ha portato avanti un lavoro rigoroso che sta alle radici del suo essere nata in una terra fecondata dal diritto.

L’autrice con una logica rigorosa mette in fila le prove di un genocidio. E Parte dalle “confessioni” dei presunti criminali.

Vertici militari

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, alcuni ministri del suo governo e alti vertici militari israeliani hanno dichiarato  di volere distruggere completamente Gaza  e tutti i suoi abitanti. Da 19 mesi gli israeliani stanno agendo con armi moderne senza avere di fronte un esercito che li contrasti. Giustificano la loro azione dichiarando che i palestinesi sono subumani o bestie.

Hanno tolto alla Striscia di Gaza i beni primari e ciò viene considerato dagli studiosi elementi del genocidio. Gli obiettivi  militari  sono stati le strutture umanitarie dell’Onu (Unrwa), quelle sanitarie e gli ospedali, con l’uccisione di pazienti e  personale medico. Considerati crimini di guerra secondo le Convenzioni internazionali in tempo di guerra. I medici stranieri volontari delle ONG, tra cui 50 statunitensi, hanno testimoniato gli orrori perpetrati dall’IDF, l’esercito israeliano.

L’autrice cita Feroze Sidhwa, chirurgo traumatologo, rientrato negli Stati Uniti, che ha denunciato l’uccisione premeditata di tanti  bambini gazawi, colpiti con proiettili alla testa e al petto. Le sue affermazioni sono supportate da radiografie e reperti medici.  Sono stati colpiti a Gaza i luoghi di culto (cristiani e musulmani) ritenuti da tempo immemorabile zone franche e intoccabili. Sono state rase al suolo le università, le scuole di ogni ordine e grado, i musei e persino i cimiteri luoghi di memoria identitaria.

Hanno ucciso i poeti! E poi l’IDF ha spianato con le ruspe le macerie, incurante della  pietà verso i defunti sepolti sotto le abitazioni.

Spostamenti estenuanti

La popolazione di Gaza è stata costretta in questi 19 mesi a una serie di spostamenti estenuanti che ricordano le marce della morte usate dai nazisti nei confronti degli internati. Sarà  ancora difficile contare il numero preciso dei morti. L’Onu stima a marzo 2025, sessantunomila vittime senza contare i dispersi e i feriti gravi.

Il 70 per cento sono donne e bambini. Per lungo tempo durante i bombardamenti, Israele ha tolto ai gazawi il cibo, l’acqua, i medicinali e ogni aiuto umanitario.  Denutrizione e malattie dovute, secondo l’autrice, alla distruzione delle fogne con i liquami infettivi a cielo aperto.

Gaza non è una città aperta come è stata Roma nel 1944, ma circondata da mura non valicabili per il controllo continuo di Israele da dove non passano né i fuggiaschi né gli aiuti umanitari da parecchie settimane.

Il progetto di deportazione dei sopravvissuti di Gaza è stato confessato dallo stesso Donald Trump con toni sprezzanti di complicità nel promuovere con l’IDF la deportazione di due milioni di abitanti. Di fronte a una richiesta puntuale di arresto dei responsabili della pulizia etnica da parte della Corte Penale internazionale dell’Aia, una parte degli Stati che vi aderiscono ricusano il Tribunale, accogliendo l’imputato Netanyahu come amico e alleato.

False notizie

Un altro elemento fondamentale esaminato dall’autrice sono le false notizie propalate dagli stati maggiori. Il meccanismo fu scoperto, riferisce Jebreal, durante la Prima guerra mondiale dallo storico francese Marc Bloch, soldato al fronte della Marne.

Il governo di occupazione israeliano ha impedito l’ingresso di giornalisti stranieri a Gaza. Chi ha raccontato la cronaca dell’eccidio? I reporter palestinesi. Oltre duecento di loro  hanno pagato con la vita la fedeltà al loro mestiere, in una mattanza premeditata da parte dell’esercito israeliano.

Minacce telefoniche di tipo mafioso prima dell’esecuzione letale anche dei familiari, compresi i bambini. L’opinione pubblica mondiale in questi mesi è stata manipolata da un sistema che nasconde i fatti. Le persone informate che hanno manifestato il loro pensiero nelle università degli Stati Uniti e nel resto del mondo, sono  stati censurati.

Trump ha violato l’autonomia degli atenei con provvedimenti di espulsione degli studenti stranieri, “rei” di avere sostenuto la causa palestinese o semplicemente di avere chiesto la fine del massacro. Sono fatti allarmanti in un Paese che un tempo veniva definito culla della democrazia.

Svolta epocale

Siamo perciò ad una svolta epocale che ha persino cancellato la spartizione del mondo a Yalta? Un impero barbaro vuole cancellare quei principi minimi di sopravvivenza abolendo i diritti civili?

Il silenzio non condanna solo gli innocenti di Gaza ma tutti coloro che, secondo l’autrice, sono destinati a diventare “bersaglio in questa era segnata da cleptocrazia, oligarchia, nuovo imperialismo”. Allora non ci resta che spezzare l’incanto di Prospero.

Ce lo ha insegnato Shakespeare nella Tempesta. “Quella forza che ho è mia e assai debole”. Togliere la forza con la ragione. È stato questo il lavoro superlativo di Rula Jebreal con il cuore rivolto alla sua terra martoriata e con la ragione per aprire gli occhi ai  lettori.

Filippo Senatore
fsenatore57@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Trump alla guerra contro Harvard, l’università liberal schierata con i Palestinesi

L’ex deputato europeo liberale britannico Graham Watson: “Dilapidato il credito di Israele con l’Occidente”

Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Graham Watson*
Londra, 29 maggio 2025

At the end of the article in Italian the original text in English

Il motto fondamentale “chi ha potere ha ragione” continua a far vergognare la razza umana e attualmente ciò è più evidente che mai in Palestina. Ancora una volta, una nazione con superiorità tecnologica e supremazia di risorse commette atrocità freddamente calcolate contro un avversario più debole. E non c’è alcun freno da parte di altri.

Striscia di Gaza

Nel 1917, acconsentendo alla creazione dello Stato di Israele, il primo ministro britannico Arthur Balfour previde esattamente il pericolo attuale, quando avvertì: “Non sarà fatto nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”.

Interesse globale

Se è vero che oggi esistono un’economia globale, un ordine globale e una cultura globale, non esiste ancora – come lamentava il defunto rabbino capo Jonathan Sacks – una visione ampiamente condivisa e coerente dell’interesse globale.

Il destino dei popoli più deboli nel mondo, così spesso caratterizzato dalla pulizia etnica, sempre più comune dopo la rivoluzione agricola e così spietatamente efficace dopo quella industriale, è appeso a questo squilibrio. Gli sforzi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e degli organismi sovranazionali non governativi per fornire soccorso e curare le ferite delle nazioni, sono troppo spesso ostacolati dalla mancanza di sostegno politico.

Nessuno può negare che gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023 siano stati una provocazione estrema, anche per gli standard di umiliazione così tristemente comuni in questo conflitto.

Occhio per occhio

Tuttavia, anche coloro che preferiscono la punizione “occhio per occhio” all’applicazione del concetto illuministico di giustizia devono sentirsi offesi dalla risposta di Israele. In effetti, molti cittadini israeliani si sentono oltraggiati.

Per i 78 anni della sua esistenza, l’Occidente ha continuato a sostenere Israele in molti modi. Le azioni del Primo Ministro Netanyahu hanno dilapidato il credito accumulato dallo Stato ebraico?

Mandato d’arresto

La Corte penale internazionale ha emesso contro Netanyahu un mandato di arresto per i crimini contro l’umanità. Francia e Arabia Saudita stanno organizzando congiuntamente una conferenza per discutere la creazione di uno Stato palestinese. Il Regno Unito ha sospeso i negoziati commerciali con Israele per protestare contro le sue azioni. Altre nazioni europee stanno facendo passi simili. Gran Bretagna, Canada e Francia hanno criticato congiuntamente le recenti azioni di Israele definendole “del tutto sproporzionate”.

Netanyahu il mese scorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite -Credit Maansi Srivastava/The New York Times

I popoli europei, a loro volta colpevoli dell’oppressione e della schiavitù di ebrei e arabi, hanno recentemente faticato a liberarsi dal braccio di ferro del principale sostenitore di Israele, gli Stati Uniti, per esprimere critiche o intraprendere azioni contro Israele.

Sembra che le cose stiano cambiando. Il fatto che oggi l’opposizione britannica e francese alle azioni di Israele sia condivisa da altri governi europei è utile. Forse solo la combinazione di un impegno europeo a favore della pace e di una crescente disponibilità mediorientale ad assumersi l’onere di vigilare sul conflitto ha qualche possibilità di essere efficace.

Graham Watson*

*Sir Graham Watson è stato membro del Parlamento europeo dal 1994 al 2014. È stato presidente della Commissione per i diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo dal 1999 al 2002 e leader del gruppo liberale del Parlamento dal 2002 al 2009. Dal 2011 al 2015 è stato presidente del partito liberale europeo ALDE.

Original text in English

Former British Liberal MEP Graham Watson:
‘Israel’s credit with the West squandered’

Special for Africa ExPress
Graham Watson**
London, 29 maggio 2025

The fundamental dilemma of ‘might is right’ continues to shame the human race and currently nowhere more so than in Palestine. Yet again, a nation with technological and resource superiority commits coldly calculated atrocities against a weaker adversary, unrestrained by others.

In 1917, agreeing to the creation of the state of Israel, UK Prime Minster Arthur Balfour foresaw exactly the currently danger when he warned ‘… nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine’.

If it is true that there is now a global economy, a global order and a global culture, there is still not yet – as the late Chief Rabbi Jonathan Sacks lamented – a widely shared, coherent vision of global concern. The fate of weaker peoples the world over, so often characterised by the ethnic cleansing increasingly common since the agricultural revolution and so ruthlessly effective since the industrial, hangs in the imbalance. Efforts by the United Nations Organisation and non-governmental supranational bodies to provide relief and to heal the hurts of nations are too often hamstrung by lack of political support.

None can deny that the Hamas terrorist attacks of 7 October 2023 were a provocation extreme, even by the standards of the humiliation so sadly common in this conflict. Yet even those who prefer the retribution of ‘an eye for an eye’ to the application of the enlightenment concept of justice must take offence at Israel’s response. Indeed, many Israeli citizens do.

For the 78 years of its existence, the West has continued to support Israel in many ways.
Have Prime Minister Netanyahu’s actions squandered that support?

The International Criminal Court for crimes against humanity has issued a warrant for the arrest of Mr Netanyahu. France and Saudi Arabia are jointly organising a conference to discuss the creation of a Palestinian state. The United Kingdom has suspended trade negotiations with Israel in protest against its actions. Other European nations are making similar moves. Britain, Canada and France have jointly criticised Israel’s recent actions as ‘wholly disproportionate’.

European peoples, themselves guilty of oppression and enslavement of Jews and Arabs, have recently struggled to liberate themselves from the arm-twisting of Israel’s main backer the USA to voice criticism of or take action against Israel. That appears to be changing. That today’s British and French opposition to Israel’s actions is shared by other European governments is helpful. Perhaps only the combination of a Europe-wide commitment to peace-making and an increasing Middle Eastern willingness to shoulder the burden of policing the conflict has any chance of being effective.

Graham Watson**

**Sir Graham Watson was a Member of the European Parliament from 1994 to 2014. He served as Chairman of the EP’s Committee of Citizens Rights, Justice and Home Affairs from 1999 to 2002 and as Leader of the Parliament’s Liberal group from 2002-09. From 2011 to 2015 he was President of Europe’s liberal ALDE Party.

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