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La guerra scatenata da Israele contro l’Iran e la rappresaglia su Tel Aviv minacciano tutto il mondo

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
14 giugno 2025

Proprio alla vigilia del quinto round di colloqui di pace per il Nuovo Accordo sul nucleare iraniano, quando il presidente USA aveva più volte parlato di “soluzione imminente” Israele nella notte tra il 12 e il 13 giugno ha attaccato la Repubblica islamica.

Diversi stormi di cacciabombardieri hanno colpito le centrali nucleari e aree tecnologiche del Paese. Il bilancio delle distruzioni è solo parziale, perché le comunicazioni con l’Iran sono ancora complicate.

Una delle bombe israeliane che ha colpito Teheran

Le agenzie di stampa persiane hanno parlato di 78 morti e 329 feriti, ma sono numeri evidentemente destinati ad aumentare. Non è chiaro, ad esempio, cosa ne sarà delle popolazioni di città come Natanz, Teheran Isfahan, dove sono stati colpiti impianti nucleari: ci sono state dispersioni radioattive?

Verifica dispersioni radioattive

L’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) non è ancora in grado di precisarlo. Perché in tal caso le conseguenze sarebbero ancor più devastanti. D’altra parte la dottrina militare israeliana applicata a Gaza, con quasi 60 mila morti che secondo le Nazioni Unite sono per la stragrande maggioranza civili e per la maggior parte donne e bambini, ha reso chiaro che allo Stato ebraico non interessano le vittime civili quando deve raggiungere un obbiettivo.

“Non permetteremo mai che l’Iran abbia la bomba”, ha dichiarato Benjamin Netanyahu dopo l’attacco, definito “eccellente” da Donald Trump, che ha parlato della possibilità “forse” di “un’ultima chance per un accordo sul Nucleare”.

Bombardate case di ufficiali

L’attacco lanciato dagli aerei israeliani però non ha colpito solo le centrali, nonostante una narrazione che vorrebbe motivare in tal modo le due incursioni, nella notte e nel pomeriggio di venerdì.

Bombe sono state sganciate – dopo un evidente accurato lavoro di spie sul territorio iraniano – sulle abitazioni private di importanti alti ufficiali.

Sono stati ammazzati, tra gli altri, il capo di Stato maggiore dell’esercito, Mohammed Bagheri, e il successore del generale Soleimani (assassinato da un drone Usa nel 2020 in Iraq).

Ucciso anche il generale in capo delle Guardie della rivoluzione, Hossein Salami, diversi scienziati e Ali Shamkani, capo negoziatore degli incontri con gli USA nonché uno dei principali consiglieri politici della Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei, che ha subito parlato ai cittadini ammonendo, “Israele pagherà un prezzo alto per i suoi crimini”.

Contrattacco di Teheran

Poche ore dopo, nel tardo pomeriggio, è infatti partita la rappresaglia iraniana, con due o tre sciami di oltre cento missili balistici che hanno colpito il centro di Tel Aviv, Gerusalemme e altre città israeliane, dove la popolazione è corsa nei rifugi.

Una bomba iraniana ha colpito Tel Aviv in Israele

A difendere gli israeliani dalla risposta dell’Iran all’incursione contro il Paese, come sempre (e probabilmente anche nell’attacco alle Centrali dato che il “No comment” di Trump lascia pochi dubbi) ci sono gli americani, con gli aerei decollati dalle portaerei e i sistemi antimissile lanciati dai gruppi navali del Mediterraneo e dalle basi presenti nei Paesi arabi del Golfo alleati di Washington.

Basi USA in stato di allerta

E’ molto probabile che nelle prossime ore alcune di queste basi, oltre a raffinerie, porti e forse città, saranno prese di mira dai missili iraniani. Al momento non si sa se oltre ai vettori balistici e ai droni siano stati usati anche missili ipersonici, che l’Iran possiede di certo, dato che li produce in una fabbrica su licenza dei russi, trattenendone una parte.

Quel che è sicuro che ancora una volta lo scudo Iron Dome non ha garantito a Israele l’immunità dagli attacchi iraniani, che prima saturano le difese aeree israeliane con decine di missili di minor tecnologia e poi colpiscono con i missili ipersonici o balistici di precisione.

Bisognerà ora vedere fino a che punto vorrà spingersi la Repubblica islamica e cosa saranno disposti a cedere gli USA, i Paesi del Golfo e l’Europa in termini di sanzioni e di crediti petroliferi.

Bassa intensità

Nei precedenti attacchi contro l’Iran infatti, bilioni di dollari “scongelati” dagli asset dei pagamenti petroliferi sequestrati e l’allentamento dei blocchi sul sistema interbancario Swift erano bastati come contropartita e gli hayatollah avevano tenuto il livello dello scontro ad una bassa intensità.

Ma questa volta la bandiera rossa del sangue dei martiri sventola, a Qom, la capitale religiosa dell’Iran, sulla cupola della moschea di Jamkaran, e la misura sembra colma per un Paese cui sono stati uccisi due generali comandanti dell’esercito, un capo di Stato maggiore, una ventina di scienziati, il capo di Hamas, Ismail Aniyeh, nel luglio 2024, nel cuore di Tehran, 100 persone a un funerale, senza contare un presidente e un ministro degli Esteri, ufficialmente caduti su un elicottero per la nebbia.

Impedire l’escalation

Cosa accadrà ora? Nazioni Unite, Unione Europea, Usa, Paesi Arabi potranno far qualcosa per impedire l’escalation?

“Siamo già in escalation – conferma via messaggio un ufficiale a Teheran – e se le cancellerie europee o le Nazioni Unite credono di essere ancora credibili agli occhi del popolo iraniano fanno male i calcoli. Non hanno fermato Netanyahu quando ha ammazzato 60 mila civili a Gaza, dovrebbero intervenire per noi? E i vostri media continueranno a raccontare di attacchi preventivi, di accordo sul nucleare? Ma lo sanno che un trattato lo avevate già, nel 2015, con limiti di arricchimento al 3,5 per cento (ora siamo al 60 per cento, ndr) e siete voi occidentali che lo avete disdetto?”.

Collasso finanziario mondiale

La sensazione che si respira che questa volta i danni e i tempi saranno più dilatati, molto di più. Se sarà davvero guerra lo capiremo se gli iraniani bloccheranno il Golfo Persico, scatenando un collasso finanziario mondiale, l’unica arma che fa davvero paura ai suoi nemici. Intano il petrolio e il gas si alzano, e le borse affondano.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com

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Iran non vuole cedere sul nucleare, ma accordo urge

Gli approvvigionamenti misteriosi di Israele: il petrolio arriva in segreto dall’Azerbaijan

Speciale per Africa ExPress
Valerio Giacoia
13 Giugno 2025

Anche il petrolio importato da Israele è uno dei temi sullo sfondo del complicato scacchiere che si muove sulle “retrovie” della guerra scatenata dal presidente israeliano, Benjamin Netanyahu, contro i palestinesi. Israele ha tentato di mantenere il massimo riserbo sulle fonti di approvvigionamento energetico, e il perché sta nel timore di spaventare i Paesi fornitori, eventualmente soggetti a critiche, vista la fama internazionale sempre più negativa del ricevente, e mettere così a repentaglio i rifornimenti.

Un pezzo di questa storia riguarda l’oro nero dall’Azerbaijan, che è tra i principali fornitori di Israele. Ma se da un lato, secondo pubblicazioni abbastanza recenti, le esportazioni erano aumentate in maniera costante dal 2021 al 2024, in questa prima parte del 2025 si è registrato uno stop improvviso.

Il ministro degli Esteri azero Ceyhun Bayramov (a sinistra), in visita in Israele per inaugurare l’ambasciata dell’Azerbaigian a Tel Aviv, incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme Ovest il 29 marzo 2023. (Foto di GPO / Handout/Anadolu Agency via Getty Images)

Al punto che, come osserva il quotidiano israeliano Haaretz, bravissimo a fare le pulci al governo e ai suoi affari, Israele addirittura non appare più nella lista dei Paesi destinatari del petrolio azero. In effetti l’Azerbaijan ufficialmente ha negato qualsiasi collegamento, peccato che i dati dicono il contrario.

Rotta cambiata

La rotta è cambiata, ecco lo stratagemma. Il petrolio “non appare più chiaramente diretto verso Israele”, come scrive Haaretz. Il quotidiano precisa che oltre all’Azerbaijan, Israele importa anche piccole quantità di petrolio da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e anche la Russia, secondo uno studio, fornisce carburante a Israele tramite intermediari.

Il percorso passa dalla Turchia tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che inizia sul Mar Caspio in Azerbaijan, attraversa poi la Georgia, e finisce al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo. Da lì, viene caricato su navi cisterna dirette in vari Paesi.

L’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che inizia sul Mar Caspio in Azerbaijan, attraversa poi la Georgia, e termina al porto turco di Ceyhan sul Mar Mediterraneo

Il gioco è semplice così, e la Turchia (dove nel frattempo montano all’interno proteste in questo senso) continua a permettere il passaggio di petrolio verso Israele, nonostante lo scorso anno abbia imposto un embargo sulle merci verso Israele, inclusi divieti di transito via terra.

Esportazioni apparentemente cessate

Ankara non ha ancora bloccato il flusso attraverso gli oleodotti, e questo permette all’Azerbaigian di fornire ancora petrolio a Israele, pur evitando dichiarazioni ufficiali. Il giochino è banale (ma segreto): “I dati azeri mostrano solo che le esportazioni dirette verso Israele sono cessate – si legge su Haartez – ma lo stesso percorso può essere usato surrettiziamente, impiegando intermediari registrati in un Paese terzo, che è quello che comparirà nei dati doganali azeri”.

Chi sono gli intermediari? Trafigura, Vitol e Glencore, tra le più grandi compagnie del settore, acquisterebbero il petrolio azero e rivendendolo a Israele. Un’ulteriore prova del fatto che l’Azerbaigian continui a fare affari con Israele si può vedere nelle recenti mosse della compagnia petrolifera nazionale azera, la SOCAR.

Cerimonia ufficiale

Qui il quotidiano israeliano è diretto e preciso: “Nell’ottobre 2023, un consorzio guidato da SOCAR ha vinto una gara per l’esplorazione di gas naturale nel Blocco 6, al largo delle coste israeliane. A febbraio – si legge nell’edizione di pochi giorni fa – SOCAR ha firmato un accordo per acquistare il 10 per cento del giacimento israeliano di Tamar, e a marzo il ministro azero dell’economia, Mikayil Jabbarov, che è anche presidente di SOCAR, ha partecipato alla cerimonia ufficiale di assegnazione della licenza di esplorazione”. Resta che il 40 per cento del petrolio proviene dall’Azerbaigian. Un piccolo giallo? No. Forse meglio dire un segreto di pulcinella.

Valerio Giacoia
valeriogiacoia@yahoo.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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La “Marcia su Gaza” non si farà, ma gli attivisti hanno vinto

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
13 giugno 2025

La Global march to Gaza non inizierà neppure. Il governo egiziano, dopo fortissime pressioni, e dopo un primo comunicato di apertura ieri, oggi ha preso la sua decisione. Eppure i manifestanti hanno vinto ugualmente. L’iniziativa, infatti, proprio per la paralisi subita, è finita sulle prime pagine e sui TG di tutto il mondo e si appresta a restare un esempio di azione popolare, dal basso, ingovernabile se non con una repressione che abolisce le libertà più elementari, come il diritto alla libera circolazione.

Deve essere chiaro però che non è certo stato l’Egitto a non volerla così ostinatamente. “Se dipendesse dal popolo, sfonderebbe il valico con Gaza e si riverserebbe in massa nella Striscia”, dice un commerciante egiziano in Italia da molti anni”.

Imbarazzo dei governi

“A spingere per il blocco – gli fa eco un provider turistico specializzato nell’area – sono stati ancora una volta gli attori internazionali di sempre, sostenuti dai governi dei 54 Stati che hanno aderito alla marcia, imbarazzati da un’iniziativa che li ha tutti spiazzati”.

La Farnesina ad esempio è stata netta nel boicottaggio, prima diffondendo la notizia che l’Egitto avesse negato i permessi (poco dopo è uscito un comunicato contrario del ministero degli Esteri egiziano), poi sottolineando come i cittadini italiani che si fossero recati nel Sinai non avrebbero avuto alcuna “assistenza consolare”. Un avvertimento che il Movimento 5 Stelle, in Parlamento ha definito “vergognoso”.

Quindi in Egitto sono scattati fermi temporanei, qualche arresto, rimpatri forzati di “turisti” imbarcati in fretta su pullman e aerei, come ha riferito Antonietta Chiodo, uno dei referenti italiani della Marcia. Ma non solo. Sono stati improvvisamente chiusi profili sui social italiani, annullati voli, perfino cancellate prenotazioni alberghiere. “Oltre 7.000 persone da ogni parte del mondo stanno cercando di raggiungere il valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza – ha scritto Assopace Palestina -. È un atto collettivo di coraggio e giustizia. Eppure, chi prova a portare aiuti o semplicemente solidarietà viene trattato come un nemico”.

ONU: fermare la guerra

E proprio giovedì l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato una risoluzione in cui ha chiesto “tutte le misure” necessarie per far pressione su Israele per la fine del blocco umanitario ai valichi.

Alla fine, visti gli interventi di europarlamentari, esponenti politici internazionali, associazioni per i diritti umani, ma soprattutto visto che lo stop stava fruttando alla marcia più visibilità di quella che avrebbe avuto la marcia stessa, c’è stato un “ammorbidimento”. E nella notte tra giovedì e venerdì almeno un migliaio di attivisti di tutto il mondo hanno comunque dormito al Cairo e dintorni senza particolari problemi. Forse non partiranno, ma sono già eroi dei diritti umani.

Carovana africana Sumud

In arrivo via terra però, da Ovest, c’è anche la Carovana Sumud, la risposta africana alla Global March to Gaza. Partita da Tunisi, è composta da circa 2mila partecipanti, tra cui medici, attivisti, avvocati e cittadini comuni, a bordo di circa 300 veicoli, tra cui autobus e automobili private.

La Carovana ha attraversato Sousse, Sfax, Gabes, Medenine e Ben Guerdane, per poi entrare in Libia attraverso il valico di Ras Ajdir. In Libia, è stata accolta calorosamente dalla popolazione locale. Ora tutti si chiedono se verrà fatta transitare in Egitto.

Gli egiziani però non ci stanno a farsi gettare addosso la croce di quelli che ostacolano delle iniziative di pace per Gaza. “Non scherziamo – dice un alto ufficiale – Voi avete permesso che morissero 60mila persone e adesso vi svegliate e i cattivi siamo noi che non vi facciamo marciare? Ma il problema è marciare o far interrompere i bombardamenti sui civili innocenti – aggiunge –. E questo potere chi ce l’ha, il nostro governo, cui è stata impedita pochi giorni fa una visita a Ramallah, o i vostri?”.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Cittadini di 54 Paesi alla “Global March to Gaza”: primo via libera tra imbarazzi diplomatici

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Airola: “Riconoscere la Palestina è un atto di giustizia”

Speciale Per Africa ExPress
Alberto Airola*
13 giugno 2025

Qualche che giorno fa, durante i festeggiamenti del 2 giugno, Festa della Repubblica, ero rimasto colpito dall’improvvisa dichiarazione del presidente Mattarella su Gaza e sul diritto all’esistenza dei Palestinesi

Avevo interpretato questa presa di posizione, seguita dal solito codazzo di ripetitori quirinalizi, come riconoscimento degli ormai innegabili crimini contro l’umanità, stermino e genocidio, del governo Netanyahu e infine come “resa” all’evidenza della realtà non più manipolabile.

Dichiarazioni del presidente Sergio Mattarella su Gaza

Dichiarazioni di grande valore, senza dubbio e importante occasione di pacificare un parte delle coscienze italiane, così dilaniate da guerre e crudeltà disumane e cosi arrabbiate.

Indignazione dei cittadini

L’indignazione di cittadini saturi di crudeltà e efferatezza non possono più accettare altre guerre, armi e violenza.

Così arrivano salvifiche rassicurazioni su Gaza e liberano un slot celebrale per accogliere altri orrori, un’altra guerra e ancora violenza, uno slot da riempire di panico e paura per un conflitto direttamente in casa nostra.

Alle dichiarazioni di Mattarella, è seguita qualche azione concreta? No, dopo pesanti denunce del capo dello Stato, non è seguito un solo atto sostanziale per fermare Netanyahu.

Nulla si è mosso sull’embargo alla vendita di armi ad Israele, nulla su sanzioni, nulla su interventi umanitari… Stesso atteggiamento sul caso della nave di Greta Thunberg fermata da Israele: nessuna reazione concreta del governo italiano, solo qualche dichiarazione di circostanza.

Deludente astensione

Nulla dopo la riuscita manifestazione del 7 giugno che è stato un evento importante perché partecipato da cittadini comuni nonché da esponenti politici che potavano farsi latori di istanze tangibili.

Nulla sul fronte di riconoscimento dello Stato Palestinese e nessuna buona intenzione in vista dei voti futuri in merito, dove il governo ostenta una deludente astensione. Eppure sarebbe un chiaro atto di giustizia e di chiarezza politica”.

Sforzi propagandistici

La bilancia degli sforzi propagandistici pende completamente a favore della guerra alla Russia e la corsa alle disastrose spese per REARM.

La presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni e Marc Rutte, segretario generalo NATO

Vediamone alcune:

– Rutte (NATO) chiede escalation del 400 per cento:  ”i Paesi della NATO devono aumentare del 400 per cento il loro potenziale di difesa aerea e missilistica”

– Esercitazioni NATO-Russia nel Baltico (mordere più che abbaiare)

– “Sarà una guerra lunga” (Repubblica, 9 giugno 2025): la NATO aggiorna i piani per sostenere Zelensky (scavare il fondo del barile oltre a nuove fosse per le vittime)

– “Spese militari: Rutte batte cassa da Meloni” (Il Fatto, 9 giugno 2025) (non c’è più tempo, servono armi, armi, armi

– “Disarmiamoci e partite” – Mondini (Repubblica, 9 giugno 2025): vince il premio propaganda di guerra: non si limita ad annunciare la guerra inevitabile ma attacca anche chi cerca la pace o perlomeno il dialogo. Il titolo è già esplicativo.

Insomma se non serve quasi più diffondere la fantasiosa minaccia che la Russia attaccherà sicuramente L’UE e la NATO, serve però rendere  iper-reale la minaccia. Le parole usate sembrano uscite dalla retorica del secolo scorso: “immediatamente (si usino la flessibilità finanziaria)”, Subito Non basta, “A tutta forza”, prepararsi a cavarsela da soli, fare in fretta, siamo in ritardo, ci attende un lungo conflitto…

Tunnel della crisi

A qualcuno inizia persino a sembrare una via di uscita dal tunnel della crisi italiana.

La propaganda non è rivolta solo ai cittadini (quest’estate, risparmiate i soldi per le vacanze e compratevi del piombo, ne avrete bisogno) ma anche e soprattutto agli elettori di partiti già profondamente spaccati e cito il caso più macroscopico quello PD.

Un partito e una segretaria che vorrebbero mettersi a capo di una coalizione, dove la metà ha l’elmetto e l’altra mette i fiori nei cannoni. Una prospettiva alquanto improbabile se si continua con questi toni scriteriati, incoscienti e pericolosi.

Una situazione che va affrontata perchè fra due anni ci saranno le elezioni politiche (guerra permettendo) ed è sicuro che si proporrà un campo largo per affrontare il Centrodestra (legge elettorale permettendo) .

Come ci si porrà un governo del genere ammesso che vinca, su queste questioni che non sono solo geopolitica ma minano seriamente i conti pubblici, la disgregazione ulteriore del sistema sociale, la castrazione di qualsiasi necessario rapporto multipolare in un mondo che è diventato così.

Speranza in fin di vita

La speranza è l’ultima a morire ma dalle notizie che arrivano dal fronte,  la danno in fin di vita.

Infine oltre al danno, la beffa o meglio le catene all’economia italiana, costretta a spegnersi e peggio seguire i signori della guerra in un baratro di morte.

Non sono ottimista: non vedo segni di un contatto della politica  con la realtà, non vedo alcuna speranza di poter tornare indietro allo stato sociale né all’uguaglianza economica dei cittadini e ai doveri costituzionali dello Stato.

Mi ha fatto estremamente piacere una manifestazione su Gaza partecipata e pacifica ma ahimé, anche a causa della iniqua affluenza ai referendum, non riesco a vedere un popolo che desideri cambiare o essere salvato.

Alberto Airola*
alberto.airola@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA
*Ex senatore della republica per il M5S 

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Cittadini di 54 Paesi alla “Global March to Gaza”: primo via libera tra imbarazzi diplomatici

Speciale per Africa ExPress
Fabrizio Cassinelli
12 Giugno 2025

Nelle ore in cui tantissime persone nel mondo occidentale hanno seguito con trepidazione il viaggio di una sola imbarcazione verso Gaza, finita dirottata dagli israeliani, un’iniziativa popolare senza precedenti promette di esercitare ancora più pressione, a livello internazionale, per la fine del massacro di civili in corso a Gaza.

Si tratta della Global March to Gaza, totalmente autofinanziata da ciascuno dei partecipanti, organizzata e gestita esclusivamente dal mondo dell’attivismo e del terzo settore, e che vede già l’adesione di 54 Paesi e centinaia di migliaia di followers. Tutti variamente già in partenza. E dopo diversi tentennamenti è arrivato un primo ok ufficiale dal governo egiziano. Tra mille dubbi sulle modalità la marcia pare arriverà al Sinai.

 

C’era infatti un comprensibile timore per un possibile tsunami di partecipanti da gestire (gli iscritti sono almeno in 3mila), ma d’altro canto anche impedire una marcia pacifica e per Gaza morente susciterebbe imbarazzo in un Pase arabo come l’Egitto.

Di sicuro non ne provoca invece all’Italia, con la Farnesina che su un suo sito ufficiale addirittura ne sconsiglia la partecipazione da giorni avvertendo che non sarà “garantita assistenza consolare”. Un comunicato “vergognoso” per il Movimento 5 Stelle, che oggi ha presentato un’interrogazione parlamentare ricordando che la Farnesina ha l’obbligo di assistere i cittadini italiani all’estero. (Vedi video qui sotto).

Non è la prima “marcia” per i diritti umani della storia moderna, ma certamente è la prima nata in poche settimane, e con livelli di partecipazione popolare così ampi nonostante ogni partecipante debba in pratica prendere le ferie, pagarsi il biglietto per il Cairo e il vitto, e marciare per 50 chilometri nel deserto egiziano fino al valico di Rafah con 45 gradi.

Coscienze scosse

In un periodo storico dove non si raggiunge nemmeno il quorum per un referendum nel fine settimana, e dove la partecipazione si esercita con dei ‘like’ sui social, Gaza dimostra ancora una volta di avere scosso le coscienze della gente comune.

Una differenza lampante rispetto all’inanità dei governi, che stano ancora facendo convegni per decidere con quale termine lessicale citare uno sterminio senza precedenti. Una presa di coscienza diffusa nonostante una strutturata disinformazione che non è riuscita ad avere la meglio e a coprire l’orrore commesso quasi in diretta, spesso con tracotanza politica.

Ecco quindi che di fronte all’ipotesi di proiettare alcune migliaia di persone al valico egiziano/israeliano dove centinaia di camion di aiuti sono bloccati, sussulta più di una diplomazia. Sarà anche sconsigliata ma intanto ai confini libici si avvicina lo spezzone algerino, tunisino e marocchino, di oltre mille persone.

La Global March to Gaza ha risposto che “in merito a quanto pubblicato dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, insieme all’ambasciata d’Italia al Cairo, la Global March su Gaza sarà pacifica, non intende entrare nella Striscia e raggiungere Gaza, come non intende trasportare aiuti.

Marciare a piedi

Il programma prevede invece di raggiungere Ismailia, luogo turistico e di libero accesso, e da lì marciare a piedi per circa 50 chilometri fino a raggiungere il valico di Rafah senza forzare alcuna barriera. Il tratto da Al-Aris in poi è infatti una zona militarizzata, impossibile da attraversare se non con permessi speciali. Al momento non esiste una comunicazione ufficiale da parte delle autorità egiziane né sulle misure di sicurezza né sull’autorizzazione alla marcia”.

L’Egitto, secondo quanto appreso informalmente, vede di buon occhio l’iniziativa – e come non potrebbe – ma mantiene una posizione molto prudente, facendo trapelare che dovrebbe essere la diplomazia italiana a fare richiesta per permettere la partecipazione dei suoi cittadini. Ovvio però che questo sia oggettivamente complesso nel momento in cui dovrebbe essere ripetuto per 54 Paesi.

Lentezza dei governi

Mentre quindi si attende cosa decideranno i governi, ancora una volta più lenti delle persone comuni, l’organizzazione della Global March to Gaza procede e si prevedono le prime partenze dall’Italia tra il 12 e il 13 giugno, con rientro tra il 18 e il 20.

“Noi di Global March To Gaza – spiega Antonietta Chiodo, uno dei referenti della marcia – chiediamo che venga rispettato il diritto internazionale e che tutti si prendano la responsabilità di tutelare quei liberi cittadini che si recheranno al Cairo per una marcia pacifica che vedrà riunirsi 54 delegazioni da tutto il mondo. La tensione è molto alta ma dall’altra parte del valico si sta compiendo un genocidio e il mondo non può restare a guardare”.

Fabrizio Cassinelli
cassinelli.fabrizio@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Gaza: attivisti sulla nave con gli aiuti, tra cui francese europarlamentare, sequestrati e ancora detenuti in Israele

 

Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
11 giugno 2025

“Siamo stati rapiti in acque internazionali”. lo ha ribadito ieri 10 giugno all’aeroporto di Parigi prima del volo per la Svezia, Greta Thumberg l’attivista che era a bordo della barca a vela di 18 metri Madleen della Freedom Flotilla, dirottata dall’esercito israeliano per impedire la consegna di pochi pacchi di aiuti umanitari a Gaza. Madleen, partita dal porto di Catania in Sicilia il primo giugno, si trovava a circa 100 chilometri a nord dell’egiziano Porto Said e 200 chilometri a ovest delle coste israeliane. A bordo c’erano 12 militanti.

L’esercito israeliano li ha circondati il 9 giugno nel pieno della notte con ben cinque corvette da guerra e alcuni elicotteri, ha spruzzato del materiale biancastro dai velivoli che secondo l’equipaggio del piccolo veliero ha messo fuori uso il sistema di comunicazione satellitare della barca.

L’equipaggio della Madleen in navigazione verso Gaza

Anche Francesca Albanese, relatrice ONU per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati che era in contatto costante con il battello ha riferito di aver perso allora ogni collegamento.

Dopo aver fatto buttare tutti i loro cellulari in mare, IDF ha trasferito l’equipaggio al porto di Ashdod, sequestrato il natante e cacciato i viaggiatori in carcere. Per 14 ore gli arrestati non hanno potuto contattare nessun avvocato.

Natura politica

La Freedom Flotilla ha rivendicato la natura pacifica della missione, le violazioni del diritto internazionale nell’arresto in acque internazionali e ribadito la necessità di far entrare gli aiuti a Gaza dove è in corso un genocidio e la popolazione è presa per fame e continua a morire sotto i bombardamenti degli israeliani.

Il punto dove la nave Madleen è stata sequestrata dalle corvette israeliane

 

Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha sostenuto che il solo scopo del viaggio era farsi pubblicità. E quello della Difesa, Israel Katz ha bollato gli attivisti sono antisemiti e simpatizzanti di Hamas. Per questi motivi li ha costretti anche ad assistere alla proiezione di un video di un paio d’ore sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre 2023.

Celle separate

Gli attivisti sono stati reclusi in celle separate e di isolamento totale nel carcere di Ramleh.Di fatto sono tutti accusati di aver violato il blocco navale in acque israeliane, mentre sono stati bloccati in acque internazionali, dove Israele non avrebbe alcun potere. Il governo svedese si è rifiutato di occuparsi della Thumberg, dicendo in sostanza che era una questione personale e non internazionale. L’ambasciata francese che ha un gran numero di connazionali a bordo è intervenuta piuttosto tardi su pressioni esercitate del partito France Insumise sul governo Macron.

Chi ha ammesso la responsabilità dei fatti secondo il teorema israeliano poteva essere rimpatriato. Quindi insieme a Greta sono tornati altri tre dell’equipaggio: Sergio Toribio (spagnolo), Baptiste Andrè (francese) e Omar Faiad reporter di al Jazeera (francese).

Manifestazioni in Francia

Gli altri otto si sono rifiutati di firmare e, come dettagliava la sera del 10 giugno il team legale Adalah “otto dei dodici volontari della Madleen sono apparsi davanti al Israeli Detention Review Tribunal del centro di detenzione di Ramleh”. Si tratta di: Suyab Ordu (Turchia); Mark van Rennes (Paesi Bassi); Pascal Maurieras (Francia); Reva Viard (Francia); l’eurodeputata franco-palestinese Rima Hassan (Francia); Thiago Avila (Brasile); Yanis Mhamdi (Francia) e Yasemin Acar (Germania).

La permanenza in Israele degli arrestati ha scatenato diverse manifestazioni nelle ultime ore a Parigi, Marsiglia e Lione con la richiesta di rimuovere il blocco su Gaza e permettere l’entrata degli aiuti.

Israele ha imposto il blocco navale su Gaza dal 2007 con la scusa che dal mare arrivavano armi ad Hamas. Per poi permettere però che arrivassero armi via terra per non parlare dei fondi transitati dalle banche israeliane.

Nel 2008, due navi di Free Gaza Movement avevano raggiunto Gaza rompendo il blocco imposto da Israele. Poi tra il 2008 e il 2016, 5 navi su 31 promosse sempre da Free Gaza Movement erano arrivate sulla Striscia con gli aiuti. Da allora le imbarcazioni che hanno cercato di avvicinarsi sono state fermate in acque internazionali.

Affondata dai droni

Qualche settimana fa una nave della Freedom Flotilla diretta a Gaza è stata affondata da droni israeliani in acque maltesi. Per non parlare della Mavi Marmara dell’ong turca Humanitarian Relief Foundation, che nel 2010 tentando di arrivare a Gaza subì un bombardamento che causò 10 morti e decine di feriti.

Oggi 1 milione e 900 mila gazawi sono in grave penuria alimentare, alla fame almeno per il 93 per cento dei casi, un chilo di zucchero costa 56 dollari. L’Onu segnala che sono vicini alla morte per mancanza di cibo  il 25 per cento delle persone a Rafah e il 15 per cento a Khan Yunis e a Gaza City nel Nord della Striscia.

Le percentuali della fame in fase emergenziale riguardano il 45 per cento della popolazione in tutte le aree di Gaza, splittata ormai almeno in due dall’esercito israeliano che sta sgomberando diversi chilometri quadrati nel Nord della Striscia.

Dispersi sotto le macerie

La guerra dal 7 ottobre 2023 a oggi ha causato almeno il decesso di 55 mila gazawi (ma centinaia di corpi sono dispersi sotto le macerie); di 420 soldati israeliani e il ferimento di altri 2.692 (dati OCHA-ONU). Secondo il ministero della Salute di Gaza i feriti sono oltre 126 mila.

Nell’ultimo report su Gaza, OCHA ha inoltre contato 1.100 TIR arrivati al varco di Kerem Shalom tra il 31 maggio e il 2 giugno. Solo 400 sono riusciti ad entrare. Dalla frontiera giordana di Allenby servono autorizzazioni speciali dello Stato israeliano; quindi non passa quasi niente.

TIR bloccati al valico di Rafah

Sempre OCHA nell’ultimo report scrive che “il 4 giugno sono stati distribuiti circa 259 mila pasti al giorno preparati da 14 partner in 62 cucine da campo, mentre fino al 31 maggio si riusciva a distribuirne 279 mila al dì. Tutte le panetterie e i centri di distribuzione dell’ONU nella Striscia non stanno lavorando. Quattro forni delle Nazione Unite dopo esser riusciti a operare dal 22 al 24 maggio sono chiusi dal 25, a causa della violenza nelle code e la disperazione della gente causata dalla fame e dalla scarsità di cibo reperibile”.

L’ONU chiede un’inchiesta internazionale sulla morte nelle ultime settimane di centinaia di persone, uccise dall’esercito israeliano, mentre cercavano di prendere cibo nei centri di distribuzione.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimo aggiornamento il 12 giugno alle 12:13

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Netanyahu ingaggia milizie fedeli all’ISIS e anti-Hamas per distribuzione di viveri a Gaza

Speciale per Africa ExPress
Valerio Giacoia
10 maggio 2025

Mentre giorno dopo giorno la situazione nella Striscia di Gaza va peggiorando, con notizie continue di attacchi, bombardamenti, e la conta dei morti che sale inesorabilmente senza risparmiare nessuno – é di domenica sera il raid israeliano contro la clinica di Medici Senza Frontiere ad Al Mawasi.

Bombardamenti Israele al-Mawasi

Il bilancio è di 13 feriti e un morto tra gli spari sul percorso verso il centro di distribuzione del cibo – si accumulano le prove in merito alla glaciale e feroce strategia di Benjamin Netanyahu.

Gruppo armato filo ISIS

E’ di questi giorni l’ammissione da parte del primo ministro israeliano di aver mobilitato e armato milizie filo-Isis rivali di Hamas in modo da scatenare un guerra interna, una guerra nella guerra perciò, a favore di Israele. “Che cosa c’è di sbagliato?”, ha dichiarato il premier confermando la denuncia dell’ex ministro della Difesa Avigrod Lieberman, membro della Knesset, sul fatto che Israele, e su ordine dello stesso Netanyhau, stia fornendo armi “a un gruppo di criminali e detenuti”, come li ha definiti.

Una ammissione shock: “Cosa ha reso pubblico Lieberman? Che su consiglio dei responsabili della sicurezza abbiamo attivato clan a Gaza che si oppongono ad Hamas. E cosa c’è di sbagliato in questo?”, chiede Netanyahu in un video pubblicato sui social media, aggiungendo: “Ci sono solo cose buone: le vite dei soldati israeliani vengono salvate”.

Parola d’ordine: sconfiggere Hamas

Lieberman, leader del partito Yisrael Beiteinu (Israele, cosa nostra. ndr), nel corso di una intervista alla radio Kan Bet, giovedì scorso, aveva sostenuto che Israele ha dato fucili d’assalto e armi leggere a “famiglie criminali” di Gaza, e proprio dietro ordine di Netanyahu.

“Dubito che ciò sia passato attraverso il gabinetto di sicurezza”, aveva aggiunto. Quindi esattamente il contrario di quanto affermato dal primo ministro e dal suo staff, che si era affrettato a spiegare come Israele stia “lavorando per sconfiggere Hamas attraverso vari mezzi, come raccomandato da tutti i vertici dell’apparato di sicurezza”.

Intanto, secondo il quotidiano israeliano di sinistra Haaretz ci sono immagini satellitari che dimostrano come nelle ultime settimane una nuova milizia palestinese abbia ampliato la sua presenza nel sud di Gaza, operando – spiega il giornale – “all’interno di un’area sotto il controllo diretto” dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane).

Poche settimane fa Haaretz aveva parlato dell’esistenza di un gruppo definito Servizio Anti-Terrorismo, che opera nei pressi di Rafah e capeggiato da Yasser Abu Shabab, già noto per le sue attività criminali e per il saccheggio di aiuti umanitari lo scorso anno.

Il gruppo sarebbe composto da un centinaio di uomini armati fino ai denti, e con tanto di lasciapassare, tacito (e omertoso, di fronte alle richieste di chiarimento), dell’IDF. Il leader della banda comunica (anche) attraverso i social: sulle pagine di Facebook pubblica messaggi contro Hamas e contro l’Autorità Palestinese, promuovendo gli sforzi della sua milizia per garantire sicurezza e distribuire aiuti ai civili.

Filmati dove si possono vedere pattugliamenti, fermi, controlli, ispezioni a convoglio di Croce Rossa e ONU sulla strada Salah al-Din, la principale arteria tra nord e sud di Gaza, e con tanto di armamentario e bandiera palestinese.

Sempre Haaretz rivela come in un altro video, postato dallo stesso Abu Shabab, gli uomini che comanda montano un campo di accoglienza e scaricano cibo da un camion delle Nazioni Unite. E in un messaggio allegato si dice che “i cittadini di Gaza che cercano rifugio dai bombardamenti possono recarsi presso il nostro accampamento per ricevere cibo, riparo e protezione”.

Grazie a immagini satellitari di Planets Labs, Haaretz ha identificato la tenda del campo, dimostrando che si trovava in una zona costruita direttamente dall’IDF, vicino al confine con l’Egitto.

Criminale planetario

Tutto normale? Secondo quanto dichiarato da Netanyahu in risposta alle accuse di Lieberman, sì. Non a caso è un primo ministro anche per questo atteggiamento imperturbabile di fronte ai retroscena logistici del genocidio in atto a Gaza, e perciò ai mezzi per portarlo a compimento, definito da alcuni analisti un “criminale planetario”. Come pochi nella Storia.

Valerio Giacoia
valeriogiacoia@yahoo.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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“My way”, Trump e la sua agenda per il Medioriente

 

Dal Nostro Inviato Speciale
Giovanni Porzio
Damasco, 9 giugno 2025

Chi poteva immaginare che il capo della Casa Bianca avrebbe stretto la mano al presidente ad interim siriano Ahmed al-Sharaa, ex tagliagole di al-Qaeda e dello Stato islamico su cui fino allo scorso dicembre pendeva una taglia di 10 milioni di dollari e era leader di un gruppo armato, Hayat Tahrir al-Sham, tuttora bollato come organizzazione terroristica dall’Onu, dagli USA e dall’UE?

Ahmed al-Sharaa, presidente ad interim siriano, a sinistra, e Donald Trump

Viviamo tempi di rapidi e inaspettati stravolgimenti dell’ordine mondiale, in particolare nel volatile e insanguinato Medio Oriente. L’“asse della resistenza” sciita, imperniato sulle milizie filoiraniane di Hezbollah e sul regime di Damasco, si è sgretolato in pochi mesi sotto le bombe di Israele.

Sterminio sistematico

Nella Striscia di Gaza, rasa al suolo dai droni e dai missili di Tel Aviv, è in corso lo sterminio sistematico, anche per fame, della popolazione civile, mentre il governo razzista israeliano, presieduto da Benjamin Netanyahu, autorizza nuovi insediamenti illegali nei Territori occupati e i ministri dell’estrema destra religiosa auspicano l’annessione della Cisgiordania e la deportazione dell’intero popolo palestinese.

Di fronte all’apatia dell’Europa, incapace di formulare – sulla Palestina come sul conflitto russo ucraino – uno straccio d’iniziativa diplomatica, Donald Trump ha se non altro il merito di agire, seppure in modo confuso e unilaterale, spesso contraddittorio e con finalità poco decifrabili.

Le sue mosse, da uomo d’affari e giocatore di poker, sembrano improvvisate e dettate dall’impazienza: aleatorie in molti casi e quasi ricattatorie, come sulla questione dei dazi. Tuttavia, in Medio Oriente pare delinearsi l’abbozzo di una strategia. Qualche passo concreto è stato compiuto.

Dopo 45 giorni di intensi bombardamenti sullo Yemen, costati oltre un miliardo di dollari, il 5 maggio Trump ha deciso di interrompere le ostilità contro gli houthi: in cambio del cessate il fuoco le milizie filoiraniane s’impegnano a non attaccare le navi americane nel Mar Rosso, ma non a risparmiare i cargo diretti a Israele o a colpire il territorio dello stato ebraico. Una decisione, accolta con soddisfazione da Teheran e con irritazione da Tel Aviv, dettata dalla dottrina trumpiana dell’America First, anche a costo di dispiacere ai tradizionali alleati.

Nucleare iraniano

Trump non vuole impegnare gli USA in operazioni militari a lungo termine in Medio Oriente e la campagna yemenita non stava dando i risultati sperati in tempi accettabili per il nuovo inquilino della Casa Bianca, il cui sguardo è rivolto allo scacchiere del Pacifico. La tregua, inoltre, ha incoraggiato la continuazione dei colloqui in Oman tra Washington e Teheran sul dossier nucleare iraniano: un altro punto su cui le posizioni di Trump e Netanyahu divergono.

Israele, che in ottobre ha pesantemente colpito le difese antiaeree di Teheran, continua a pianificare un attacco alle infrastrutture nucleari iraniane, con o senza la diretta partecipazione degli Stati Uniti. Ma Trump ha avvertito l’amico Bibi di essere contrario a qualsiasi operazione militare suscettibile di compromettere i negoziati in corso con gli emissari del regime degli ayatollah.

Netanyahu vorrebbe approfittare dell’indebolimento dell’Iran per sferrare il colpo decisivo, mentre Trump intravede l’opportunità di raggiungere un accordo più favorevole di quello – da lui annullato e definito “disastroso” – concluso nel 2015 da Barack Obama.

Business first

La visita di Trump in Arabia Saudita, Emirati e Qatar (tour che ha evitato uno scalo a Tel Aviv) ha fornito ulteriori indicazioni sulla strategia di Washington. Affari miliardari, prima di tutto. Ma due decisioni politiche sorprendenti, entrambe osteggiate da Netanyahu: la stretta di mano con Al-Sharaa, che significa il riconoscimento del governo siriano, e la cancellazione delle sanzioni economiche a Damasco.

Era, quest’ultima, una richiesta che veniva da più parti. Quando in aprile ero in Siria sia l’ambasciatore italiano Stefano Ravagnan che il nunzio apostolico Mario Zenari mi avevano fatto presente che per scongiurare un nuovo ciclo di violenze e di anarchia ritenevano indispensabile l’abolizione dell’embargo imposto al regime di Assad durante la guerra civile: le restrizioni finanziarie gravano su una popolazione che vive al 90 per cento sotto la linea della povertà, stretta nella tenaglia della disoccupazione e dell’iperinflazione.

Trump ha cancellato le sanzioni imposte con ordini esecutivi del presidente, mentre più lungo e complesso sarà l’iter per abolire le sanzioni del Congresso e quelle relative al terrorismo; ma il segnale è inequivocabile e la contropartita auspicata altrettanto esplicita: la normalizzazione delle relazioni tra Damasco e Tel Aviv.

Un percorso oggi ostacolato dal genocidio a Gaza, intollerabile agli altri firmatari degli accordi di Abramo, dall’annessione strisciante della Cisgiordania e dai continui bombardamenti israeliani sulle installazioni militari e sulle basi aeree siriane.

Interessi USA

Il presidente americano, in sostanza, persegue i propri obiettivi e quelli degli Stati Uniti senza curarsi degli interessi e delle preoccupazioni degli alleati. Ha promesso forniture militari per 142 miliardi di dollari ai sauditi senza neppure informare il governo israeliano. E tratta con i nemici d’Israele, Hamas, gli Houthi e l’Iran, senza coordinarsi con Netanyahu. Se l’intenzione dichiarata da Trump è quella di stabilizzare la regione per sganciarsi dall’impegno militare in Siria (come sta cercando di fare in Ucraina, accollando il conflitto all’Europa) e concentrarsi sul dossier Cina, Netanyahu rischia di diventare un intralcio, una palla al piede.

Il sostegno allo Stato ebraico non è in dubbio. Ma non è più “incrollabile” e “incondizionato” come durante l’amministrazione Biden e come speravano i falchi del governo di Tel Aviv. I segnali di una crescente insofferenza nei confronti di Bibi sono sempre più evidenti.

La Casa Bianca non ha reagito alle dure condanne di Francia, Canada e Regno Unito che minacciano azioni concrete se Israele non cesserà le operazioni militari e il blocco degli aiuti a Gaza. Trump è consapevole che l’annessione della Cisgiordania inasprirebbe i rapporti con l’Arabia Saudita e con i Paesi del Golfo. E che il prolungarsi del conflitto non è più sostenibile di fronte alle crescenti proteste dell’opinione pubblica mondiale, araba e israeliana.

Frank Lowenstein, inviato per il Medio Oriente durante l’amministrazione Obama, ha sintetizzato gli attuali rapporti tra Washington e Tel Aviv con queste parole: “Credo che gli israeliani si rendano ormai conto che, per quanto abbiano accolto con favore l’elezione del presidente Trump e fossero convinti di potere incassare un assegno in bianco per perseguire qualsiasi agenda volessero, Trump ha la propria agenda”.

Giovanni Porzio
pozzo.giovanni@gmail.com

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Accordo sul nucleare iraniano: iniziato il round decisivo

Settimana di fuoco in Mali: islamisti scatenati da nord a sud

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
8 giugno 2025

Le autorità di Bamako hanno imposto un coprifuoco dalle 21.00 alle 06.00 in diverse zone del territorio nazionale dopo i recenti molteplici attacchi dei terroristi islamici.

E’ stata una settimana di fuoco in Mali. I gruppi armati hanno preso di mira molte aree del Paese, da nord a sud: attentati a Dioura, Boulikessi e Timbuctù, solo per citare i più importanti.

Ripetuti attacchi dei terroristi in Mali

Il 4 giugno JNIM (Gruppo di Sostegno dell’Islam e dei Musulmani, legato ad al-Qaeda) ha rivendicato anche un attacco a Mamaribougou, nella periferia della capitale Bamako. Sempre mercoledì, EIGS (Stato Islamico del Grande Sahara) ha assalito il campo militare di Tessit, nella regione di Gao, nel nord del Paese.

Attacchi senza sosta

Anche Niger e Burkina Faso hanno subito forti perdite di civili e militari nelle ultime settimane a causa dei ripetuti e intensi attacchi dei jihadisti.

Le incursioni dei terroristi del Sahel non danno tregua. Imboscate, agguati di tutti generi, autobombe, spari con artiglieria pesante e quant’altro sono ormai all’ordine del giorno in Burkina Faso, Niger e Mali.

Dal 2023 nei tre Paesi di AES (Alleanza degli Stati del Sahel), governati da giunte militari di transizione, gli attacchi dei gruppi armati si sono intensificati notevolmente. Eppure tutti e tre i golpisti, non appena saliti al potere avevano dichiarato guerra ai jihadisti. Anzi, avevano rassicurato le popolazioni che la loro priorità assoluta era proprio quella di ripristinare la sicurezza e di riprendere il controllo sui territori in mano ai gruppi armati.

Malgrado la presenza dei mercenari russi – sempre negata da Assimi Goïta, presidente de facto del Mali – la piaga jihadista non è diminuita. E per stessa ammissione degli uomini di Wagner, parecchie zone sfuggono ancora al controllo di Bamako.

Per contrastare i jihadisti, i tre presidenti delle giunte militari – Ibrahim Traoré (Burkina Faso), Assimi Goïta (Mali) e Abdourahamane Tchiani (Niger) – hanno deciso di formare un nuovo contingente di 5000 militari, composto dalla forze armate dei tre Paesi.

Finanziamenti russi

Secondo quanto riportato dall’Agenzia di stampa Bloomberg, Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha promesso di fornire armi e addestramento militare al nuovo contingente. Lavrov ha poi aggiunto che Mosca utilizzerà i suoi istruttori già presenti nei tre Paesi per sostenere l’iniziativa.

Mercenari del gruppo Wagner in Mali

Ma non solo Burkina Faso, Mali e Niger sono sotto la costante minaccia dei terroristi. Anche il Togo, Paese confinante con il Burkina Faso, e il Benin, che condivide frontiere con il Niger e il Burkina Faso, sono spesso teatro di attacchi di gruppi armati provenienti dai Paesi limitrofi.

Arriva Africa Corps

E intanto Mosca sta riportando a casa i mercenari di Wagner dal Mali. Saranno rimpiazzati con quelli di Africa Corps, come già annunciato dal ministero della Difesa della Federazione russa, che vuole avere un maggiore controllo sui soldati di ventura. Cioè, in sostanza, cambiano solo la divisa, anzi solo lo scudetto sul braccio.

Infatti, la partenza dei paramilitari della società privata russa Wagner non significa assolutamente la fine della presenza di Mosca nel Paese. Anzi, nonostante la morte nell’agosto del 2023 del fondatore dell’organizzazione, Yevgeny Prigozhin, che aveva osato criticare il governo di Vladimir Putin due mesi prima e addirittura tentato anche un colpo di Stato, gli irregolari soldati non spariranno. Resteranno attivi più che mai sotto la bandiera di Africa Corps, organizzazione creata dal Cremlino.

Wagner, sulla sua piattaforma Telegram sostiene di aver “completato” la propria missione in Mali, dove i suoi uomini erano presenti dal dicembre 2021.

Crisi umanitaria

Intanto milioni di persone nel Sahel, dove attualmente ci sono più di 2 milioni di rifugiati e oltre sei milioni di sfollati, necessitano di aiuti umanitari urgentil. OCHA, l’Ufficio per gli Affari Umanitari delle Nazione Unite, ha denunciato nell’ultimo rapporto pubblicato pochi giorni fa, che, mentre aumentano quotidianamente le persone in difficoltà, i fondi per sostenerli diminuiscono.

Sempre OCHA sostiene che nel Sahel ben 29 milioni di persone hanno bisogno di aiuto; 12 milioni tra questi potrebbero trovarsi in grave difficoltà alimentare tra giugno e agosto e le conseguenze potrebbero essere devastanti.

Le popolazioni fuggono dalle proprie case per vari motivi, come insicurezza (terrorismo), povertà estrema, instabilità politica, conseguenza di cambiamenti climatici e altro. I Paesi maggiormente colpiti dal fenomeno sono ovviamente il Burkina Faso, Niger, Mali, ma anche il Bacino del Lago Ciad, il Ciad, l’estremo nord del Camerun e il nord-est della Nigeria. Le ultime due regioni sono continuo bersaglio dei sanguinari Boko Haram e dei loro cugini di ISWAP, che nel 2016 si sono separati dal gruppo originale.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Benin accusa Burkina Faso e Niger, non controllano le frontiere e i jihadisti attaccano

In Niger gli islamisti attaccano base militare con mortai made in Ucraina

Mozambico, aumentano gli attacchi jihadisti a Cabo Delgado. E Maputo non paga il conto per truppe ruandesi

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
8 giugno 2025

Mentre nel nord del Paese si intensificano gli attacchi jihadisti di IS-Mozambico, il giornale Africa Intelligence svela un debito di Maputo verso Kigali.

Da agosto scorso il Mozambico non paga l’intervento delle truppe ruandesi (RDF). Operazioni militari dei 4.000 soldati di Kigali che combattono gli insorti a Cabo Delgado: un debito tra 1,75 e 3,5 milioni di euro mensili.

La cosa ha irritato il presidente ruandese, Paul Kagame, e soprattutto preoccupa la multinazionale energetica francese TotalEnergies che sta per riaprire i cantieri di Afungi.

 I militari ruandesi, presenti dal 2021 a Cabo Delgado, grazie a un accordo bilaterale Maputo-Kigali sono fondamentali per la protezione dei giacimenti di gas.

Rischio sicurezza

La loro partenza metterebbe a rischio la sicurezza dell’area, visto il fallimento della Missione militare in Mozambico (SAMIM) della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC).

L’intervento militare SADC era stato richiesto dall’ex presidente mozambicano Filipe Nyusi, visto che i militari mozambicani (FADM), non erano in condizioni di fermare il terrorismo islamista a Cabo Delgado. Ragione questa che ha convinto Nyusi a siglare l’accordo col suo omologo ruandese.

Crisi umanitaria

Ma perché il governo ha smesso di pagare l’intervento militare del Ruanda? Il Mozambico si trova davanti a una triplice crisi. Secondo le Nazioni Unite l’ex colonia portoghese è colpita da una crisi umanitaria dovuta alla guerra, cambiamenti climatici e disordini post elettorali.

Cabo Ligado 19mag 1giu2025
Mappa degli scontri di Cabo Delgado

“La violenza armata continua a sradicare le persone” scrive Cabo Ligado organizzazione associata all’ong ACLED. “Dal 1° ottobre 2017, inizio deglii attacchi, ci sono stati oltre 6.000 morti dei quali più di 2.500 civili. Gli ultimi episodi di violenza sono stati nel distretto di Mocímboa da Praia”.

Gli insorti hanno imposto agli abitanti di un villaggio di guardare la proiezione dei sermoni del defunto predicatore estremista keniota Sheikh Aboud Rogo e hanno chiesto denaro. Poi hanno saccheggiato un altro villaggio.

La crisi post-elettorale dovuta ai brogli ha causato
oltre 300 morti e più di 3.000 feriti oltre alla paralisi dell’economia per lunghi mesi. Il Paese fa fatica a ripartire.

Preoccupazione dell’ONU

L’Unicef denuncia l’uccisione di tre adolescenti tra 12 e 17 anni e il rapimento di altri otto bambini nel villaggio di Magaia. Le Nazioni Unite avvertono di un peggioramento della crisi umanitaria in Mozambico. l’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR) registra oltre 25.000 nuovi sfollati a causa violenza islamista, che si aggiungono agli 1,3 milioni di persone già sradicate. Secondo i dati presentati dal ministero della Sanità del Mozambico il 61 per cento dei bambini sotto i cinque anni ha un ritardo di crescita rispetto ai principali indicatori.

La violenza jiadista, secondo gli esperti, è aumentata da quando gli Stati Uniti hanno confermato il finanziamento di 4,7 miliardi di dollari (4,13mld di euro). L’ingente cifra è stata approvata a metà marzo dalla Export-Import Bank (US Exim). Andrà a sostenere economicamente il mega progetto di estrazione del gas naturale liquefatto (GNL) di TotalEnergies, chiuso nel 2021 a causa dell’attacco jihadista a Palma.

L’assalto alla nave russa

Gli islamisti mozambicani da diversi mesi si muovono anche ad ovest nella confinante provincia del Niassa e fanno persino incursioni in mare. Non solo assaltano i pescatori e le imbarcazioni più piccole e, a maggio, hanno attaccato anche una una nave oceanografica russa, la Atlantida.

Post FB La nave russa Atlantida arrivata nel porto di Maputo
Posrt FB dell’ambasciata della Russia in Mozambico: la nave oceanografica Atlantida arrivata nel porto di Maputo

Un’imbarcazione registrata come peschereccio che ufficialmente fa ricerca dei fondali ma che alcuni ritengono sia una nave spia. L’attacco armato jihadista non ha fatto vittime ma, secondo gli esperti, serve a dare visibilità internazionale al gruppo islamista.

A maggio, IS-Mozambico ha attaccato due caserme delle FADM: bilancio, secondo un esperto di sicurezza, 17 vittime nel primo attacco. Le autorità mozambicane non hanno rilasciato commenti. In altri scontri sono morti tre militari ruandesi, decessi confermati da Kigali.

Secondo quanto scrive Radio France Internationale (RFI) nel 2024 gli attacchi mortali sono aumentati del 36 per cento. Ma per Maputo la situazione è “ stabile e sotto controllo”.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Truppe sudafricane lasciano il Mozambico per fine missione anti jihadista: sono finiti i fondi

A difesa della Total contro jihadisti arrivano nel nord Mozambico i soldati ruandesi