Speciale per Africa ExPress Fabrizio Cassinelli 24 giugno 2025
Gli Usa impongono la guerra e poi la pace ma quello che ottengono è solo più caos, il programma atomico iraniano è salvo ma il regime perde peso geopolitico, Israele manipola gli Usa ma perde la sua invincibilità
Mentre il mondo assiste, nel silenzio delle sue istituzioni, ai continui colpi di scena in Medioriente, dove il diritto internazionale è stato calpestato più volte, arriva finalmente – 12 giorni e molte vittime dopo – una fragile tregua tra Israele, USA e Iran.
Proteste in America contro la guerra in Iran
Tre Paesi che nei proclami cantano vittoria, ma che nella realtà hanno tutti perso qualcosa, con la stabilità della regione compromessa e tutti i dossier, dalla strage a Gaza al nucleare Iraniano, all’imperialismo americano decisamente peggiorati.
Iran accetta stop
All’alba di martedì 24 giugno è entrata in vigore una tregua che, dopo essere stati due volte attaccati a tradimento mentre erano in trattativa diplomatica, gli iraniani ovviamente non volevano. Ma che dopo il viaggio del ministro degli Esteri persiano in Russia, hanno accettato.
Il presidente Trump, dopo averli bombardati a sorpresa ha cantato vittoria e – in un panorama geopolitico tra l’assurdo e il grottesco – ha invitato alla pace. Atteggiamenti ambigui che hanno causato gravi danni, anche se negati a spada tratta.
Hanno creato una spaccatura nella sua componente politica principale, i cosiddetti Maga. Hanno scatenato proteste popolari estese in alcune importanti città degli Stati Uniti.
Hanno alterato il profilo (reale o propagandistico) della politica estera USA da sedicente “forza di pace” a forza che impone le trattative con le armi, anche a tradimento, creando un pessimo precedente che la rende molto poco credibile nel futuro.
Intervento militare illegale
Washington ha dato vita a un intervento militare platealmente illegale perché aggredire uno Stato sovrano bombardando le sue centrali nucleari è una delle cose più vietate dalle leggi internazionali. Ha anche scatenato le armi convenzionali più terribili che aveva, senza ottenere nulla di significativo. Perché i danni alle strutture nucleari iraniane non sono sufficienti a interrompere il programma atomico.
Bombardamenti di Israele in Iran
Israele, ugualmente, si è lasciata andare a trionfalismi sia per aver attaccato “finalmente” le centrali iraniane, sia per aver indotto, per non dire costretto gli Stati Uniti a entrare nel conflitto.
Ma se la distruzione “superficiale” o “totale” delle strutture di Fordow, Natanz, Isfahan e Arak, dove si trovano i principali complessi atomici iraniani, viene sbandierata come un successo per il futuro stesso di Israele, in realtà ha fornito agli iraniani una scusa legalmente inattaccabile per uscire dal Trattato di non Proliferazione Nucleare (TNP), e quindi da tutti gli eventuali futuri controlli.
Israele non è invincibile
L’Articolo 5 del TNP infatti prevede che in caso di pericolo per lo Stato aderente esso possa uscirne: e cosa c’è di più pericoloso di un’aggressione militare alle centrali nucleari, per un Paese?
Ma c’è di più. È vero che l’aggressione illegale all’Iran è solo una degli attacchi effettuate da Israele (dopo Libano, Siria, Iraq e Yemen) che non si è mai sentito in imbarazzo per la sua condotta, ma questa volta ci sono stati degli smacchi tali da “aver minato profondamente – come scrive Haaretz – l’idea che Israele aveva della sua invincibilità”.
E se il concetto propagandistico della “democrazia del Medioriente” è da tempo in discussione per le violazioni dei diritti umani e dei crimini di guerra a Gaza, e questo magari importa meno al governo di Netanyahu, importano, invece, quelli di “tecnologia superiore” e di “guerra lampo”.
Letteralmente squassati, il primo, dagli abbattimenti degli aerei di quinta generazione e dall’inefficacia degli scudi antimissile, e svanito, il secondo, dopo 12 giorni di bombardamenti reciproci senza vincitori. La fine di queste due certezze, unite alle città sventrate e alle fughe nei rifugi, ha avuto ricadute psicologiche pesantissime sulla popolazione.
Per entrambi, poi, USA e Israele – che nelle dichiarazioni volevano solo “fare la guerra al Nucleare iraniano” come aveva sostenuto Trump – il fallimento strategico è stato netto.
Complotto Washington – Tel Aviv
Come ha scoperto il New York Times, insieme preparavano da anni, coordinati, un colpo di Stato con minacce telefoniche agli ufficiali, autobombe, omicidi mirati, bombardamenti di palazzi e l’eliminazione di intere famiglie.
Le vittime, eccellenti e non, ci sono state e numerose, ma la catena dei militari si è ricostituita e gli ayatollah, che comandano molto meno di prima, sono comunque indenni nei loro ruoli. Perfino la morte di Khamenei non spaventa più il regime.
Agli iraniani e alla comunità internazionale poi, è ormai evidente che l’unico modo per non essere schiacciati dalla legge delle bombe non è la diplomazia – l’Iran era in piena trattativa con UE e Stati Uniti – ma possedere una deterrenza atomica.
Senza contare poi che attaccando l’Iran la popolazione è stata ricompattata al suo governo, o regime che dir si voglia, rendendo inutili le proteste popolari del 2022, con 500 morti e migliaia di arresti, che loro stessi avevano sponsorizzato e istigato. Di fatto usando e poi tradendo per la seconda volta (la prima era stata con il movimento “Onda Verde” del 2009) i giovani scesi in piazza a proprio rischio.
Teheran ha deluso supporter arabi
Anche l’Iran ha però molto di cui rammaricarsi. Accettando di rispondere ancora una volta in modo simbolico all’attacco USA, dopo che lo aveva fatto già in occasione delle precedenti aggressioni e degli omicidi eccellenti subiti, ha deluso molti dei suoi supporter arabi.
Le minacce di chiudere Hormuz, mai concretizzate, hanno inoltre tolto alla Repubblica islamica l’unica dimostrazione di forza che avrebbe scosso l’Occidente, perdendo grande peso geopolitico.
Ultima, fuori quadro, l’Europa. Che non ne ha azzeccata una, rimanendo a discutere di termini come “genocidio” di fronte ai crimini a Gaza, balbettando quando l’aggressione israeliana è passata sopra al negoziato europeo come uno schiacciasassi. E ancora restando smaccata quando nemmeno è stata avvertita dall’alleato a stelle e strisce dell’attacco, e infine quando la strada della pace è stata trovata altrove, a Washington e a Mosca.
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Speciale per Africa ExPress Costantino Muscau
23 giugno 2025
“Un padre non può accettare tanti soldi dallo stesso Stato kenyano che quasi certamente gli ha massacrato il figlio in carcere”.
Delusione, rabbia, indignazione. A meno di 3 settimane dalla morte sospetta di un noto blogger e insegnante, Albert Omondi Ojwang, 31 anni, padre di un bimbo di 2 mesi, non si placano in Kenya le proteste contro le forze dell’ordine e il governo.
Giovani indignati
L’ultimo a riassumere, l’altro giorno, lo stato d’animo della popolazione, soprattutto della generazione Z, è stato il popolare attore e attivista, Eric Omondi, 43 anni, in prima linea nelle manifestazioni di piazza per denunciare l’alto costo della vita e la disoccupazione giovanile.
Albert Omondi Ojwang, il giovane blogger-insegnante assassinato in detenzione
Eric, che è stato arrestato diverse volte dalla polizia antisommossa, ha espresso pubblicamente il suo disappunto nei confronti di Meshack Ojwang Opyio, genitore del defunto blogger. Eric ha puntato il dito sul fatto che papà Meshack ha accettato dal presidente William Ruto una donazione di 2 milioni di scellini (quasi 14 mila euro), una cifra enorme per una famiglia povera.
“Avevo fatto tanto per raccogliere fondi a sostegno della vedova e del figlio di Albert dopo la sua tragica fine mentre era sotto custodia della polizia. Non c’era bisogno di accettare soldi proprio dal presidente della Repubblica. Prendere denaro dal capo di uno Stato che riteniamo responsabile della morte di Albert è un atto sleale nei confronti dei cittadini che hanno donato per milioni di scellini oltre che un impedimento all’accertamento della verità”.
Primi rinvii a giudizio
Una richiesta di giustizia che è scattata subito, l’8 giugno scorso, non appena si è diffusa la notizia che Albert Omondi Ojwang era stato trovato senza vita in una cella della Polizia Centrale di Nairobi. E che oggi, 23 giugno, ha avuto una prima risposta: un ufficiale, tre poliziotti e altre persone sono state rinviate a giudizio per quell’omicidio dal procuratore generale dell’alta Corte di Kibera.
Dimostrazione a favore di Albert Omondi Ojwang
Albert, il 7 giugno, era stato prelevato dalla polizia mentre pranzava con la famiglia, condotto nella prigione di Homa Bay, cittadina del Kenya occidentale a 350 chilometri dalla capitale e poi trasportato a Nairobi.
Arrestato e ucciso per un post su X
L’accusa? Sarebbe ridicola se non avesse portato a conseguenze tragiche: aver pubblicato su X (ex Twitter) un post “diffamatorio” riguardante la corruzione nella Polizia e il viceispettore generale della polizia, Eliud Lagat, che aveva sporto denuncia.
La situazione precipita domenica mattina 8 giugno. Il giovane professore-blogger viene trovato esanime in cella. Secondo le dichiarazioni ufficiali della Polizia, “è morto suicida, con gravi ferite alla testa, presumibilmente autoinflitte, ed è stato trasportato d’urgenza in ospedale, dove è morto. Non è morto qui, in custodia. Trovato privo di sensi, è stato immediatamente trasportato all’ospedale di Mbagathi per le cure del caso, come documentato nel registro degli eventi numerato 9/08/06/2025 alle ore 1:39. All’arrivo, è stato dichiarato morto.
Versione ufficiale: suicidio
Un comunicato stampa reso pubblico l’8 giugno, (si può leggere nel sito ufficiale) conferma che l’arrestato si è ucciso picchiando la testa contro un muro della cella.
Ben diversa la versione fornita dall’avvocato della famiglia, Julius Juma. “Secondo le informazioni da noi raccolte non è morto, come dicono, nell’ospedale di Mbagathi (che sorge nel Kenyatta Golf Course, nella sotto-contea di Kibra, ndr), ma in custodia, poi portato direttamente all’obitorio.
Diversi altri aspetti restano poco chiari: le ragioni dell’arresto, le circostanze della detenzione, la causa della morte, la tenuta in isolamento quando avrebbe sbattuto la testa contro il muro. Il corpo di Albert – ha dichiarato ancora l’avvocato – presentava gravi ferite alla testa, bruciature alle mani e alle spalle. La testa era gonfia dappertutto, soprattutto nella parte frontale, nel naso e nell’orecchio. Tutte ferite che suggeriscono un possibile atto criminale. E’ necessaria un’indagine indipendente”.
I dubbi del legale sono stati condivisi anche dal quotidiano Daily Nation che il 9 giugno ha scritto: “Albert Ojwang non è morto per lesioni autoinflitte. E’ stato ucciso dallo Stato. È morto a causa di una cultura di polizia corrotta e brutale che considera le vite dei giovani kenioti come sacrificabili”.
Autopsia conferma uccisione
Il giorno successivo, 10 giugno, ecco che arrivano i risultati dell’autopsia. L’anatomopatologo governativo Berrnard Midia, ha confermato che Ojwang è stato ucciso. “Ha subito un trauma cranico e compressione del collo e altre ferite su tutto il corpo compatibili con un’aggressione. Se la testa fosse stata sbattuta contro il muro, ci sarebbero segni distintivi, come un’emorragia frontale – ha spiegato Midia –, ma l’emorragia che abbiamo notato sul cuoio capelluto era più estesa, sia sul viso che sui lati e sulla nuca. Se si considera il resto delle ferite in tutto il corpo, è improbabile che si tratti di ferite autoinflitte”. I medici hanno rilevato anche segni di colluttazione.
Nevnine Onyango, vedova del blogger assassinato
Quanto all’indagine indipendente, è stata richiesta a gran voce da gruppi per i diritti umani e anche da due ex presidenti della Corte Suprema, Willy Mutunga e David Maraga.
Il presidente della Law Society of Kenya, Faith Odhiambo, ha dichiarato “Come i keniani rispettano lo Stato di diritto, anche la polizia dovrebbe seguire la legge per garantire l’uguaglianz”.
Condanna di Amnesty
Amnesty International Kenya ha espresso una ferma condanna sull’accaduto : “ Nessun keniano dovrebbe perdere la vita mentre è sotto custodia della polizia. Le indagini devono essere rapide, i risultati devono essere resi pubblici e che gli ufficiali ritenuti responsabili devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Gli agenti di polizia hanno il dovere legale e morale di garantire la sicurezza e il benessere di ogni persona sotto la loro custodia. Questo incidente è l’ennesimo duro monito dell’urgente necessità di trasparenza, responsabilità e riforme di vasta portata all’interno delle nostre istituzioni preposte all’applicazione della legge”.
Manifestazioni di massa si sono tenute a Nairobi, Mombasa, Kisumu e altre città con auto bruciate, barricate, cartelli e cori che dicevano: “Giustizia per Albert, smettetela di ucciderci”.
Ripetute uccisioni della polizia
In Kenya, le uccisioni da parte della polizia sono una sanguinosa realtà. Nel 2023, la Commissione nazionale keniota per i diritti umani ha registrato 61 manifestanti uccisi e 73 rapiti. Esattamente un annofa, durante la rivolta della Generazione Z contro la legge finanziaria, almeno 65 persone sono state uccise, migliaia arrestate e decine sono scomparse senza lasciare traccia. Il documentario della BBC “Blood Parliament” ha documentato gli omicidi commessi durante le proteste antitasse del 2024 e come gli alti ufficiali di polizia ordinassero ai loro agenti di “kuua, kuua” (“uccidere, uccidere” in kiswahili), prima di sparare a proiettili veri contro manifestanti disarmati. I quattro registi kenioti del documentario vennero subito arrestati (e poi rilasciati).
Di fronte alle pressioni della società civile, il Potere ha cercato di correre ai ripari.
Il 10 giugno il ODPP (l’ufficio del Direttore della Pubblica accusa) ha incaricato l’Autorità indipendente di vigilanza sulla polizia (IPOA) di indagare sull’incidente,
Anche se lo scetticismo su un’inchiesta “approfondita, imparziale e rapida” era diffuso e palpabile, qualche risultato si è visto. E’ stato arrestato il tecnico, Kelvin Mutysiam Mutava, che aveva cancellato i filmati delle telecamere a circuito chiuso della stazione di polizia e gli hard disk mentre Eliud Lagat, il pezzo grosso da cui tutto ha avuto origine, è stato costretto a dimettersi (il 16 giugno dopo aver incontrato il presidente Ruto).
Oggi, davanti al procuratore generale, Renson Ingonga, sono comparsi il capo della Polizia di Nairobi, Samson Talaam, gli agenti John Mukhwana, Peter Kimani, e tre civili, John Gitau, Gin Abwao e Brian Njue. Tutti incriminati per l’omicidio. Come si legge anche nel comunicato ufficiale subito pubblicato online.
Nessun cenno invece al pesce grosso, Eliud Lagat. E questa scelta ha scatenato le proteste sui social: “Pagheranno i pesci piccoli. E chi ha dato gli ordini…?”
Procuratore generale al centro di polemiche
Il procuratore generale Ingonga, era già stato al centro delle polemiche. Appena il mese scorso sul sito Kurunzi news alcuni critici lo avevano accusato “di aver trasformato il suo ufficio in uno strumento politico dando priorità verso l’esecutivo rispetto alla giustizia” e di essere affetto da cecità selettiva.
La vedova di Albert, Nevin Onyango, ora anche giovane madre single (ha 27 anni), ma piena di coraggio, ha riassunto quelle che sono le angosce e le speranze dei cittadini.
Disperato appello della vedova
Nevin, come ha raccontato il canale TV Tuko.ke, era stata presentata da Albert ai suoi genitori solo nell’aprile scorso, anche se la loro relazione risaliva a tempo prima, rafforzata dalla fede cristiana e…calcistica (per il Manchester United): “Mai avrei immaginato che avrebbero bussato alla mia porta per sentirmi dire quello che vedevo tante volte in TV. Vogliamo vivere in un Paese sicuro, la polizia deve
smetterla di uccidere. So bene che nessuno mi ridarà mio marito, ma se venisse fatta giustizia mi sentirei in pace”.
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Speciale per Africa ExPress Sergio Pizzini
Milano 22 giugno 2025
Il programma nucleare iraniano aveva fin dall’inizio una struttura molto intrigante.
Prevedeva, in particolare la messa in opera ed in esercizio ad Arak di un reattore nucleare ad uranio naturale U238, contenente una concentrazione del 0.72 per cento dell’isotopo fissile U235, moderato ad acqua pesante. L’isotopo è un atomo dello stesso elemento chimico ma con un differente numero di massa atomica; cioè ugual numero di protoni ma differente numero di neutroni.
Ubicazione dei siti nucleari iraniani
Questo tipo di reattore ha il vantaggio di poter usare l’uranio naturale come combustibile, ma lo svantaggio di basse efficienze e la produzione di plutonio come scorie di processo. Reattori di questo tipo sono stati attivi in Europa per lungo tempo, ma sono andati tutti progressivamente fuori esercizio.
Accordo con l’AIEA
Nel 2015, con un accordo con Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA), Iran accetta di mettere fuori esercizio il reattore ed eliminare l’acqua pesante. Sembrerebbe, invece, che (il condizionale è d’obbligo) l’Iran abbia disatteso i termini dell’accordo ed abbia messo fuori esercizio il suddetto reattore solo nel 2025, e per motivi imprecisati.
Nel frattempo erano stati comunque messi in funzione a Ifahan e Natanz gli impianti per la produzione di uranio 238 arricchito di uranio 235, l’isotopo che consente di migliorare l’efficienza del processo di fissione, e pertanto di un reattore nucleare che utilizzi come combustibile l’uranio arricchito e la grafite come moderatore.
Natanz: Fuel Enrichment Plant
Il sito di Natanz, in particolare comprende il Fuel Enrichment Plant, progettato per ospitare operazioni di arricchimento su scala industriale.
Il processo di arricchimento prevede una chimica nota, consistente innanzitutto nella produzione di esafluoruro di uranio (UF6), un solido che sublima (cioè passa dallo stato solido a quello gassoso, ndr) a bassa temperatura e che viene trasferito allo stato di vapore a pressioni inferiori alla pressione ambiente in un sistema di centrifugazione, che permette la separazione dell’isotopo 235 dall’isotopo 238.
Un arricchimento del 20 per cento garantisce eccellenti rese energetiche per un combustibile usato in un reattore nucleare, mentre un materiale arricchito all’ 80 per cento è ideale per la costruzione di una bomba atomica.
L’accordo dell’Iran con l’AIEA, siglato nel 2015, prevedeva un arricchimento fino ad un modesto 3,67 per cento, ma nel 2019 l’Iran aveva deciso unilateralmente di portare comunque l’arricchimento al 5 per cento.
Accesso vietato
Pochi giorni prima dell’offensiva di Israele sull’Iran, l’AIEA, con il documento GOV/2025/38 dichiara che l’Iran non è in regola con gli obblighi di trasparenza, in particolare per non aver dichiarato con precisione la quantità e la qualità del materiale nucleare prodotto, e per aver impedito l’accesso a tre siti in località non dichiarate, Lavisan-Shian, Varamin e Turquzabat, dove erano state rilevate tracce di uranio introdotto con attività umane.
In un rapporto riservato dell’AIEA si legge che l’Iran avrebbe usato questi siti per portare l’arricchimento dell’uranio al 60 per cento, in quantità sufficiente alla fabbricazione di sei ordigni nucleari.
Il mio commento da modesto studioso è che già il reattore ad acqua pesante con uranio naturale era un mezzo per produrre plutonio da usare come combustibile per ordigni nucleari. L’abbandono del progetto probabilmente è stato dovuto non tanto ad una tardiva ottemperanza alla richiesta dell’ AIEA, quanto alla bassa produttività del processo, o a difficoltà di processare un materiale altamente radioattivo.
Teheran futura potenza nucleare
I dati ulteriori riportati più sopra in merito ad un chiaro avanzamento del progetto ed alla disponibilità di elevate quantità di uranio arricchito al 60 per cento sono chiara indicazione della volontà dell’Iran di diventare una potenza nucleare. Senza che USA e Israele abbiano il diritto/dovere di bombardare i siti nucleari iraniani.
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“Sono davvero felice dei risultati ottenuti. Insieme al segretario di Stato, Marco Rubio, siamo finalmente riusciti a concludere un meraviglioso trattato tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo per mettere fine alla loro guerra, che dura da decenni”. Con queste parole, scritte sul social network del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha dato sfogo alla sua gioia. Eppure il documento citato dal capo di Stato americano non è ancora stato siglato dai ministri competenti dei due Paesi.
Qualche mese fa il presidente congolese, Felix Tshisekedi, ha offerto agli Stati Uniti l’accesso esclusivo a minerali critici e progetti infrastrutturali in cambio di sostegno per riportare la pace nell’est del Paese.
Pace per business
Certo, i minerali del Congo-K fanno gola a Washington, ma con un conflitto di tale portata in atto è impossibile fare business. Pertanto gli USA hanno tutto l’interesse di promuovere una pace duratura nella parte orientale della RDC, volta a incentivare gli investimenti del settore privato statunitense nella regione.
Già qualche giorno fa, in un comunicato congiunto, le équipe tecniche di Kigali e Kinshasa, e Allison Hooker, sottosegretario per gli Affari Politici del governo Trump, hanno annunciato di aver preparato una bozza dell’accordo di pace, che in linea di massima dovrebbe essere siglato il 27 giugno prossimo da ministri dei due governi, in presenza del Segretario di Stato USA.
Soldati congolesi si dirigono al fronte
Il condizionale è d’obbligo, visto che in precedenza altri tentativi per arrivare a una soluzione per fermare il conflitto sono falliti. Il presidente angolano, João Lourenço, incaricato dall’Unione Africana come mediatore, ha dovuto gettare la spugna a fine marzo.
Retroscena
Va ricordato a questo punto che il presidente congolese, non appena salito al potere nel 2019, ha sempre manifestato molto interesse per Israele, anzi è uno strenuo difensore della causa dello Stato ebraico. Dunque di riflesso Felix Tshisekedi pone anche molta fiducia negli USA.
Nel 2019 Tel Aviv e Kinshasa avevano siglato un accordo di cooperazione in materia di sicurezza, in base al quale Israele si offriva di addestrare ed equipaggiare l’esercito congolese per combattere Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo ribelle di origine ugandese, che dal 1995 opera per lo più nella parte orientale del Congo-K. Il raggruppamento armato ha giurato fedeltà all’ISIS in Africa centrale (ISCAP). Nel 2021 gli Stati Uniti hanno inserito ADF nella lista dei gruppi terroristi.
Ma, appena scoppiata la guerra con Hamas, Netanyahu ha rimpatriato gli istruttori presenti in RDC. Addirittura Africa ExPress aveva trovato che uno dei testimoni, presentato come “oculare” degli stupri del 7 ottobre, citati dal New York Times, quel giorno si trovata in Congo-K, in una base militare dove si addestrano le truppe. Il capo di Stato congolese, comunque è stato tra i primi africani a sostenere Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023.
Inoltre, uno dei più discussi uomini d’affari israeliano, il multimiliardario Dan Gertler, controlla vari siti minerari in Congo-K. E’ in ottime relazioni con la classe politica, passata e presente.
Dan Gertler
Nel corso degli anni, il nome di Gertler è stato collegato a ripetute accuse di corruzione. Nel maggio 2013, un rapporto pubblicato da Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, ha rivelato le enormi perdite subite da Kinshasa a causa dei rapporti con le società estere di Gertler, facendo luce per la prima volta sull’entità di questo ingente danno economico.
Ma nel 2023 il leader congolese ha chiesto al presidente USA allora in carica, Joe Biden, di far annullare le sanzioni contro il multimiliardario israeliano, in quanto Kinshasa non ha più nessuna rimostranza nei confronti di Gertler e il suo gruppo.
Colloqui preliminari
Prima della stesura del trattato provvisorio, i tecnici dei due Paesi hanno avuto colloqui con la Hooker e Massad Boulos, consigliere principale per l’Africa di Washington, nonché consuocero del presidente. Il figlio Michael è sposato con Tiffany Trump.
Miliziani dell’M23 fotografati a Bukavu
Il documento preparato dalle parti contiene disposizioni su questioni quali il disarmo, l’integrazione dei gruppi armati non governativi e il ritorno dei rifugiati e degli sfollati e altro. E’ previsto anche il rilancio dell’economia con investimenti nelle infrastrutture e naturalmente nel settore minerario. Washington, attraverso la U.S. Development Finance Corporation (DFC), sta pianificando un programma di impegno finanziario, condizionato però alla stabilità del Paese.
Accuse reciproche
Finora il Ruanda ha sempre negato di appoggiare i ribelli M23, che comprende per lo più miliziani di origine tutsi. Kigali insiste sul fatto che la sua presenza militare nell’est del Congo-K è semplicemente una misura difensiva contro le minacce di gruppi armati come le FDLR (acronimo per Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda). Questo raggruppamento è composto in gran parte da hutu, legati al genocidio ruandese del 1994. E il governo di Paul Kagame accusa quello di Felix Tshisekedi di sostenere le FDLR, addebito che Kinshasa ovviamente ha sempre respinto.
Territori occupati
M23/AFC (AFC, acronimo per Alleanza del Fiume Congo, è una coalizione politico militare, fondata il 15 dicembre 2023 in Kenya e della quale fa parte anche M23, ndr) hanno preso il controllo di Goma, capoluogo del Nord-Kivu a fine gennaio. Poco dopo hanno conquistato anche Bukavu (nel Sud-Kivu). I ribelli hanno poi creato strutture di governance nelle regioni sotto il loro controllo.
Negli ultimi mesi sono state uccise migliaia di persone, mentre centinaia di migliaia di civili sono stati costretti a fuggire dalle loro case per gli incessanti combattimenti.
Nel documento che dovrebbe essere siglato fra meno di una settimana restano ancora aperte parecchie questioni, soprattutto per quanto concerne i ribelli. Non è chiaro se e quando dovranno ritirarsi dalle zone occupate.
Questaguerra, come tutti conflitti, non terminerà semplicemente con una firma. Ci vuole tempo per riportare una pace duratura nell’est del Congo-K. Da oltre trent’anni i residenti non hanno conosciuto altro che sofferenza, violenza e distruzione. Il processo di pace richiede fiducia reciproca e una grande determinazione da parte di tutti gli attori coinvolti, come leader politici, organizzazioni internazionali e non per ultimo, la popolazione civile.
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Con questo articolo Stefania Rigo de Righi,
italo americana con una lunga esperienza anche in Africa,
comincia la sua collaborazione con Africa ExPress
Dalla Nostra Corrispondente dal Texas Stefania Rigo de Righi
Austin, 20 giugno 2025
Quando sono stata invitata a scrivere questo articolo e a rispondere a questa domanda. La mia reazione iniziale è stata quella di chiedermi: come posso rappresentare le opinioni di questa nazione etnicamente, culturalmente e politicamente diversificata? Non posso certo parlare a nome di tutti gli americani.
Ho deciso di affrontare la questione con un duplice approccio: condividere la mia opinione personale e, dato che conosco americani ben informati provenienti da contesti molto diversi, condurre interviste informali chiedendo loro come vedono l’escalation dell’aggressione militare tra Israele e Iran.
Ciò che è chiaro è che tutti coloro che seguono la questione hanno delle opinioni – spesso radicate non nell’appartenenza politica, ma in valori profondamente personali e in punti di vista individuali – sulla storia dei disordini, delle guerre e delle conseguenze, intenzionali e non, dell’intervento militare statunitense in Medio Oriente.
Temi chiave trasversali a tutto lo spettro delle opinioni degli americani sugli eventi in corso in Israele e sull’attuale confronto con l’Iran.
Profonda preoccupazione
Profonda preoccupazione per la crisi umanitaria in corso – Ciò che emerge in primo luogo è un senso collettivo di sopraffazione per la crisi umanitaria. Ciò che sta accadendo a Gaza non è stato dimenticato. Il quotidiano verificarsi di abusi aggressivi e senza precedenti delle nostre libertà qui negli Stati Uniti, sta causando un senso di vulnerabilità e, in molti, veri traumi.
Striscia di Gaza
E ora questa escalation si aggiunge a tutto il resto. C’è un senso di disperazione e per molti di sconforto. Anche se non viene espresso a parole, l’ho sentito nelle voci e l’ho visto nelle espressioni di tutti quelli con cui ho parlato.
Sostegno a un intervento limitato degli Stati Uniti – La maggioranza degli americani con cui ho parlato ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero fornire sostegno difensivo a Israele, in particolare attraverso sistemi di difesa aerea per proteggere le aree civili.
Fermamente convinti
Alcuni sono fermamente convinti che siamo stati manipolati da Israele per fornire loro il sostegno militare che stiamo dando. E temono che saremo involontariamente trascinati in ulteriori interventi militari offensivi. Le persone che la pensano così hanno condiviso la loro convinzione che la nostra leadership sia debole e impreparata ad affrontare questa sfida. Le comunicazioni quotidiane caotiche del presidente Trump e del suo gabinetto lo confermano per molti.
Forte opposizione all’azione militare offensiva – Allo stesso tempo, c’è una chiara resistenza all’idea di un coinvolgimento militare degli Stati Uniti in qualsiasi operazione offensiva, in particolare con l’invio di truppe sul campo. I dolorosi ricordi dell’invasione dell’Iraq, della guerra prolungata in Afghanistan e della destabilizzazione che ne è seguita sono vividi nella memoria degli americani.
Cautela da parte della destra – L’anno scorso, durante la sua campagna presidenziale, Trump ha ripetutamente sottolineato l’importanza di evitare coinvolgimenti all’estero, in particolare in Medio Oriente. Questo gli viene ricordato ogni giorno e a gran voce dalla sua base. Ad esempio, molti ritengono che prendere di mira l’impianto nucleare iraniano di Fordow potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un conflitto dal quale non potrebbero uscire.
Favore globale
Alcuni vedono le azioni di Israele come un favore globale – Ci sono americani che credono che Israele stia agendo nell’interesse della più ampia comunità internazionale impedendo all’Iran di acquisire capacità nucleari.
Scetticismo nei confronti del cambio di regime – I discorsi sul cambio di regime in Iran sono accolti con profondo scetticismo e reale preoccupazione. Le persone con cui ho parlato ricordano ancora le conseguenze disastrose in Iraq e Afghanistan. L’Iran, sotto molti aspetti – militare, politico e di influenza regionale – è molto più temibile di quanto lo sia mai stato l’Iraq.
Le interviste che ho condotto mii hanno convinta, in primo luogo, a esprimere il mio profondo cordoglio per le vittime civili innocenti da entrambe le parti di questa escalation. Estendo la mia compassione agli americani che hanno familiari in Iran e Israele. Sono terrorizzati per le loro famiglie e i loro amici.
Leadership attuale
Non credo che la nostra attuale leadership politica e diplomatica sia all’altezza di questa sfida. Credo che Israele lo sappia e che ci supererà in astuzia per raggiungere i propri obiettivi in ogni fase. L’Iran è stato un cattivo attore ed è direttamente responsabile dei disordini nella regione che risalgono a decenni fa. Non si può permettere che sviluppi un’arma nucleare.
Però sono fortemente contrario a qualsiasi escalation offensiva. Dobbiamo sfruttare il nostro attuale coinvolgimento nella protezione di Israele per lavorare verso un’immediata de-escalation.
L’invio di apparecchi Stealth B-2 per bombardare gli impianti nucleari nel profondo dell’Iran porterebbe sicuramente a un’ulteriore escalation e avrebbe conseguenze a lungo termine, sconosciute e imprevedibili per la zona e per il mondo intero.
Tavolo delle trattative
È ingenuo pensare che l’Iran o Israele siano pronti a sedersi al tavolo delle trattative per cercare una soluzione diplomatica. È ancora più ingenuo pensare che gli Stati Uniti possano svolgere un ruolo significativo. In realtà sarebbe meglio se la leadership europea prendesse l’iniziativa e marginalizzasse il coinvolgimento degli Stati Uniti in una soluzione diplomatica.
Il mio più grande timore è che assisteremo a molte più morti e distruzione e che non ci sarà alcun vincitore. Ancora una volta, sarà la popolazione a pagarne il prezzo. Ci sarà una maggiore destabilizzazione in Medio Oriente. Potremmo assistere all’inizio di disordini che dureranno per diverse generazioni e a ulteriori violenze.
Io, che sono un eterna ottimista sotto ogni punto di vista, mi ritrovo profondamente pessimista e impotente. Posso solo ripiegare sulla compassione per coloro che stanno morendo e soffrendo in quella regione. A cominciare dai palestinesi a Gaza e dai civili innocenti sia in Israele che in Iran.
Le ingiustizie continuano a crescere e gli uomini al potere che prendono queste decisioni sembrano ritenere che il costo umano sia giustificato. Sembra che non impariamo nulla dalla storia. Come dice il proverbio, la storia continua a ripetersi.
How Do Americans View the War Between Israel and Iran?
When I was invited to write this piece and answer this question. My initial reaction was to ask myself: How do I begin to represent the views of this ethnically, culturally, and politically diverse nation? I cannot possibly speak for all Americans. I decided to lean into the question with a two-prong approach: share my own opinion; and, since I know well informed Americans from a wide range of diverse backgrounds, I would conduct informal interviews asking for their opinion on how they view the escalating military aggression between Israel and Iran?
What is clear is that everyone paying attention has some opinions—and these views are often rooted not in party affiliation but in deeply personal values and personal views of the history of turmoil, wars and consequences both intended and not intended of U.S. military intervention in the Middle East.
Key Themes from Across the Spectrum of What Americans Think of the Unfolding Events in Israel and Iran’s current confrontation:
Deep Concern for the unfolding humanitarian crisis – What comes up first and foremost is a collective sense of overwhelm about the humanitarian crisis. What is happening in Gaza is not forgotten. The daily unfolding of aggressive and unprecedented abuses of our freedoms here in the US, are causing a sense of vulnerability and in many true traumas. And now this escalation on top of all that. There is a sense of hopelessness and for many despair. Even if it’s not articulated, I heard it in the voices and saw it in the expression of all I spoke with.
Support for Limited US Intervention – A majority of Americans I spoke with believe the U.S. should provide defensive support to Israel, particularly through air defense systems to protect civilian areas. Some feel very strongly that we were manipulated by Israel into the military support we are giving them. And, fear we will unwittingly be drug into further offensive military interventions. The people that feel strongly about this shared that they believe our leadership is weak and un-prepared for this challenge. The chaotic daily communication from President Trump and his cabinet confirm this for many.
Strong Opposition to Offensive Military Action – At the same time, there is clear resistance to the idea of U.S. military involvement in any offensive operations, especially boots on the ground. The painful memories of the Iraq invasion, the prolonged war in Afghanistan, and the destabilization that followed are vivid memories for Americans.
Wariness on the Right – Last year, during his campaign for President, Trump repeatedly emphasized avoiding foreign entanglements, particularly in the Middle East. He is being reminded this daily and loudly by his base. For instance, many believe targeting Iran’s Fordow nuclear facility could pull the U.S. into a conflict it can’t escape.
Some See Israel’s Actions as a Global Favor – There are Americans who believe Israel is acting in the interest of the broader international community by preventing Iran from acquiring nuclear capabilities.
Skepticism Toward Regime Change – Talk of regime change in Iran is met with deep skepticism and real concern. People I spoke with still recall the disastrous consequences in Iraq and Afghanistan. Iran, by most measures—military, political, and regional influence—is far more formidable than Iraq ever was
Finally, My View
Firstly, I want to express my deep sorrow for the innocent civilian casualties on both sides of this escalation. To Americans that have family in Iran and Israel I extend my compassion. They are terrified for their families and friends.
Personally, I do not believe our current political and diplomatic leadership is up to this challenge. I believe Israel know this and will outmaneuver us to meet their own objectives at every step. Iran has been a bad actor and is directly responsible for the unrest in the region going back decades. They cannot be permitted to develop a nuclear weapon.
I strongly oppose any offensive escalation. We must leverage our current involvement in protecting Israel to work towards an immediate de-escalation.
Sending B-2 Stealth bombers to bomb nuclear facilities deep into Iran would absolutely lead to further escalation and have long term, un-known and un-predictable consequences for the area and the world at large.
It is naïve to think either Iran or Israel is ready to go to the table to seek a diplomatic solution. It is even more naïve to think the United States can fulfill any meaningful role. It would actually be best if EU leadership took initiative and marginalized US involvement in a diplomatic solution.
My greatest fear is that we will witness much more death and destruction and that there will not be a winner. Once again, the general population will pay the price. There will be more de-stabilization in the Middle East. We may be witnessing the beginning of a multi-generational unrest and further violence.
In conclusion, I an eternal optimist by any measure find myself deeply pessimistic and powerless. I can only fall back into compassion for those who are dying and suffering in that region. Starting with the Palestinians in Gaza and innocent civilians in both Israel and Iran. The injustices continue to grow and the men in power who make these decisions seem to feel the human cost is worth it. We seem to learn nothing from history. As the saying goes it continues to repeat itself.
Speciale Per Africa ExPress Livia Bidioli
20 giugno 2025
Propaganda come Liberazione. Le guerre permanenti. Il mio titolo è fuorviante, lo so, allo stesso modo del messaggio orwelliano, tipicamente da 1984, che chiama “Rivoluzione” la nascita dello stato totalitario di 1984 immaginato da Erich Arthur Blair, in arte, George Orwell.
Questo perchè la prima cosa che farà la Propaganda, volutamente scritta con la lettera maiuscola, sarà “ammaliarti”, ovvero affascinarti, condurti seco, dalla sua parte. Come si fa? Convincendoti che sta facendo il tuo bene e difendendoti dai tuoi nemici.
Massacro di operai
Uno dei massimi esperti, è stato Joseph Goebbels (Paul Joseph Goebbels: Rheydt, 29 ottobre 1897 – Berlino, 1º maggio 1945; Ministro della Propaganda e dell’Istruzione del Terzo Reich) istruito da “Poison” Ivy Lee – che ha ripulito Rockfeller dall’onta del massacro dei suoi operai a Ludow nel 1921, mentre erano in sciopero – che a sua volta è stato a lezione da Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che ha formato il Creel Committee (CPI; Committee on Public Information) nel 1917 insieme a Walter Lippmann, per convincere gli Americani che il nemico era la Germania ed era giusto entrarci in guerra.
Giusto o sbagliato che sia, il punto è che, come ha scritto lo stesso Lippmann in “Public Opinion” (1922), chiamandolo “The manifacture of consent” (la fabbricazione del consenso), l’opinione pubblica crede a quello che le viene servito su un piatto d’argento e ripetuto da mane a sera, una sorta di refrain ipnotico che produce il “convincimento” che l’opinione o la “convinzione”, che si è creata, sia sua e non prodotta in outbound dalla Propaganda.
A tergo consiglio il libro di Noam Chomsky e Lee Herman intitolato, proprio in riferimento a Lippmann, “Manifacturing Consent”(1988) per approfondire.
Nemico Unico
Ritorniamo a Joseph Goebbels, che ha molto da insegnare in questo senso e va preso alla lettera per capire come si sono succedute svariate tecniche, strategiche e tattiche per obbligare ad un pensiero comune e non critico. La prima regola della Propaganda è il Principio della Semplificazione e del Nemico Unico: prendiamo la situazione odierna, per esempio, al posto della Germania della prima guerra mondiale, mettiamo la Russia in Europa e l’Iran in Medio Oriente.
La Russia viene declinata come stato totalitario e aggressore dell’Ucraina. Si sorvola però su un punto fondamentale, che non viene mai citato: il tradimento dei due Trattati internazionali, sotto egida OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) di Minsk (2014-2015), che volevano la fine del conflitto a fuoco iniziata il 20 febbraio 2014, dopo la caduta dell’ultimo governo filorusso di Janukovich e l’inizio delle proteste ribattezzate Euromaidan.
Un altro aspetto sul quale si sorvola sono gli 800.000 profughi del Donbass fuggiti in Russia per scampare allo sterminio in atto dal 2014 e gli oltre 15000 morti tra separatisti, ucraini e civili. Questo prima del 22 febbraio 2022.
Mire espansionistiche
I negoziati per porre fine alla guerra russo-ucraina sono stati rifiutati fin dall’inizio, anzi, ora ci viene raccontato che la Russia ha mire espansionistiche in Europa e la Comunità Europea giustifica così REARM Europe, in primis la Germania.
Medio Oriente: Israele ha il diritto di difendersi da Hamas però l’Iran non da Israele. I cattivi sono solo questi ultimi, quindi il regime va spodestato con ogni mezzo e Merz, alla guida della Germania asserisce: “Dobbiamo ringraziare Israele perché sta facendo il lavoro sporco per noi.”
Inteso: eliminare i capi militari e di Stato iraniani, questo in quanto si tratta di una nazione antidemocratica che, si sa, non ha diritto all’esistenza. Però la Corea del Nord, in quanto ha l’atomica già a disposizione, invece, può continuare ad esistere con a capo Kim.
Tour turistici
Da notare che fra tutti i Paesi del Medio Oriente, il più democratico rimane sempre Israele, nonostante lo sterminio di oltre 50.000 civili nella striscia di Gaza, per la maggior parte bambini e donne. Questi ultimi hanno vinto anche un superbonus: vengono usati come protagonisti-vittime di “tour turistici” (fonte: Cartabianca di Bianca Berlinguer), financo quando vengono colpiti dalle pallottole avvicinandosi alle rare razioni di cibo ed acqua che Israele, stato democratico, fornisce attraverso il GHF che ha sostituito il “terrorista”, secondo lui, UNRWA, inviato dall’ONU, le Nazioni Unite.
La Liberazione di Gaza, come dell’Iran, come dell’Ucraina, finisce col coincidere con la guerra permanente: War is Peace. titolava uno dei tre slogan di 1984, la guerra è pace e la proseguono per liberarci dal Nemico. Hamas, Russia e Iran sono il nostro nemico.
D’altronde, gli Stati Uniti sono gli Amici, da sempre considerati democratici, anche qualora buttassero un’altra atomica; l’Iran, l’atomica non ce l’ha, come l’Iraq non aveva il gas nervino, però, essendo non democratico, ha tutta la necessità di essere abbattuto. A quale prezzo?
Livia Bidioli
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Speciale Per Africa ExPress Alessandra Fava
19 giugno 2025
Vaid Pillay, presidente della Commissione Internazionale di Inchiesta delle Nazioni Unite (creata già nel 2021 per le violazioni di Israele nei territori palestinesi occupati) ieri ha detto a Ginevra di ritenere “scandaloso” l’appoggio statunitense alla Fondazione umanitaria di Gaza (GHF) criticata da tempo dall’ONU per i suoi metodi.
“Succede, come constatiamo tutti i giorni – ha spiegato Pullay – che la gente che va nei centri di distribuzione, viene uccisa mentre cerca del cibo”. Dall’apertura di 4 dei 5 siti di GHF previsti a Gaza si verificano quasi quotidianamente mattanze. Pur sostenendo di aver distribuito quasi 28 milioni di pasti, anche oggi nella Striscia, secondo il governo di Hamas, sono stati ammazzati 47 palestinesi.
In rosso i centri di attività di Gaza Humanitarian Foundation (GHF)
L’esercito israeliano e i contractor assoldati nella cosiddetta operazione umanitaria sparano tutti i giorni sulla folla che accorre in cerca di alimenti. Non sembrano operazioni volte alla distribuzione degli aiuti come si cerca di far credere all’opinione pubblica.
Da fonti di Africa ExPress ci sono anche contractor italiani impegnati con la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) con sede a Delaware negli USA, l’azienda che Israele ha imposto a Gaza dopo aver delegittimato UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente). Quindi – come si può facilmente dedurre non vengono assunti operatori umanitari ma cecchini.
Quattro centri
Ogni giorni si registrano morti nelle quattro sedi di distribuzione di GHF, un fatto anomalo che conferma l’intento genocidario in corso, per fame e per armi. Ieri sono state uccise almeno 61 persone a Khan Younis: cercavano da mangiare. Altri 397 sono state ferite.
I testimoni oculari presenti due giorni fa sulla scena, sono stati sentiti da Al Jazeera, hanno dichiarato di aver visto carri armati sparare da terra mentre altre bombe cadevano da droni, senza alcun avvertimento. Sempre lo stesso giorno un altro palestinese è morto, mentre altri sei hanno riportato lesioni nei pressi di un altro centro gestito da GHF, vicino al corridoio di Netzarim, a sud di Gaza City.
A Gaza si muore durante la distribuzione di generi alimentari
In tre settimane di attività della Fondazione sono state uccise quindi almeno 300 persone. GHF ovviamente rivendica, invece, di aver distribuito migliaia di pasti e IDF (esercito israeliano) dice di esser dispiaciuto per gli incidenti e di aver aperto varie indagini.
Altre due compagnie
La presenza dei cosiddetti operatori umanitari di due compagnie sconosciute in supporto dell’americana Gaza Humanitarian Foundation ha destato perplessità già a metà maggio sul giornale israeliano Haaretz. Si tratta di due società pressoché sconosciute: Safe Reach Solutions e UG Solutions.
Si internet si trovano alcune informazioni sulle due società, investigate dai giornali americani: per la SRS si può leggere qui: https://thegrayzone.com/2025/01/24/gaza-checkpoint-contractor-wealth-management-firm/ .
Per la UG soluzions si può leggere qualcosa qui: https://eu.citizen-times.com/story/news/2025/01/31/north-carolina-security-firm-sending-armed-contractors-to-gaza-checkpoint/78049385007/
E’ sconosciuta la reale sede legale di entrambi, si sa solamente che è negli USA. Per la prima, da un sito molto scarno, si apprende che sta cercando personale tecnico, specialisti in operazioni umanitarie, un capo staff. Viene precisato che il personale deve “essere disposto a lavorare in regioni di conflitto e instabilità, in aree con infrastrutture limitate ed elevati rischi”.
Scheda precompilata
Si possono inviate i curricula su una scheda precompilata. Neppure sulle informative privacy c’è una sede, né un responsabile per il trattamento dei dati, per eventuali controversie con cittadini UE è stata scelta l’Authority della Romania, a metà classifica sui Paesi UE per numero di provvedimenti in materia.
Pista rumena
La Romania è già stata al centro di indagini giornalistiche e non. Anche noi di Africa ExPress abbiamo pubblica to una serie di articoli riguardanti Horatiu Potra e il suo gruppo di mercenari in diversi contesti africani, l’ultima volta in Congo K. Nel Paese prosperano società di sicurezza legate a gruppi dichiaratamente fascisti.
Oltre all’inchiesta della BBC che abbiamo pubblicato, anche media statunitensi si sono insospettiti su queste fantomatiche aziende incaricate della distribuzione degli aiuti, una foglia di fico che nasconde contractor pronti ad uccidere.
Un’inchiesta di CBN ha messo in luce che GHF avrebbe assoldato 300 contractor, vale a dire mercenari impiegati in guerre sporche, non in operazioni umanitarie. GHF avrebbe anche cercato di aprire una sorta di filiale in Svizzera. Ma nel mese di maggio sono emerse delle irregolarità sulla registrazione di questo ufficio secondario di GHF.
Misteriosamente la società che ha la sede principale a Delaware (una sede fantasma come assodato dalla BBC) avrebbe deciso di aprire un’attività, una sorta di filiale in Svizzera, per raccogliere donazioni di soggetti che non “desiderano” fare versamenti negli Usa.
Vaso di Pandora
Ad aprire il vaso di Pandora, è stata Trial International, una ong elvetica che si occupa di illeciti societari https://trialinternational.org/. Trial il 23 maggio ha fatto due ricorsi, uno alla Supervisory Authority sulle Foundazioni (ASF) e l’altro al Dipartimento Federale sugli Affari esteri (FDFA) della Confederazione.
I due appelli sono relativi proprio alle “attività di GHF in Svizzera”, anche alla luce anche del fatto che il paese elvetico è depositario della Convenzione di Ginevra. Trial chiede in particolare di indagare sui servizi delle compagnie di “private security” e di valutare i rischi della militarizzazione degli aiuti a Gaza.
Il comunicato di Trial sull’inchiesta sulla filiale svizzera di Gaza Humanitarian Foundation
Secondo quanto poi pubblicato da CBN, la registrazione della società in Svizzera risale a gennaio e febbraio di quest’anno. Ma la ‘filiale’ non risponde alle norme legali vigenti (“vari obblighi di natura legale”, si legge in un documento). Ad esempio non ha tre membri del Cda residenti in Svizzera, non ha un conto bancario e un indirizzo.
Tutto questo avviene a Gaza, mentre infuria la guerra contro l’Iran che “tra un anno avrebbe potuto avere l’atomica”, secondo informazioni tutte da verificare. C’è una volontà evidente di Israele di distogliere l’attenzione da Gaza; i continui omicidi della popolazione di Gaza preludono a una Soluzione finale perché non si possono tollerare decine di morti al giorno nella Striscia; di fatto è impossibile la verifica diretta degli eventi a Gaza da parte della stampa internazionale e arriva notizia anche continui black-out sulla rete internet proprio per evitare che i palestinesi sopravvissuti a quasi tre anni di guerra mandino segnali e testimonianze fuori.
Vittime complessive
Intanto il numero ufficiale dei morti complessivi di Gaza potrebbe essere sbagliato, molto molto sbagliato per difetto: uno studio di Harvard sull’elaborazione di immagini satellitari stima che siano ancora vivi 1 milione e 850 mila persone quindi mancano all’appello 450 mila palestinesi, che includono i morti e chi è riuscito a scappare. Ne ha parlato solo Pressenza in Italia.
Potete leggere il testo per intero qui: Garb, Yaakov, 2025, “The Israeli/American/GHF “aid distribution” compounds in Gaza: Dataset and initial analysis of location, context, and internal structure”, https://doi.org/10.7910/DVN/QB75LB, Harvard Dataverse, V1
Uomini pesantemente armati sono entrati nuovamente in azione a Yelewata nel Benue State, Nigeria centrale. Durante la notte tra venerdì e sabato hanno fatto una strage, uccidendo almeno 150 persone.
Da mesi la regione è teatro di continui violenti scontri tra contadini stanziali, per lo più cristiani, e i fulani, pastori semi-nomadi musulmani, giunti nella zona nel XVII secolo provenienti dal Mali. Un conflitto che dura da anni per il controllo di terre e risorse.
Capi dello spionaggio
Domenica sera, in un breve comunicato, il presidente nigeriano, Bola Tinubu, ha fatto sapere di aver inviato i capi di intelligence, polizia e dell’esercito per sorvegliare le operazioni di sicurezza e di ripristinare l’ordine. Il capo di Stato ha poi aggiunto: “Ho ordinato alle forze di sicurezza di agire con decisione, di arrestare gli autori di queste sanguinosi crimini, chiunque essi siano, e di consegnarli alla giustizia”.
Morte e distruzione dopo attacco di uomini armati nel Benue State, Nigeria
Sabato Amnesty International Nigeria ha confermato la carneficina che si è consumata nel Benue State, criticando le autorità, perché, secondo la ONG “le misure di sicurezza che il governo sostiene di attuare nello Stato non funzionano”.
Popolazione in fuga
Dopo l’ultima aggressione, almeno 6mila nigeriani sono fuggiti dalle proprie abitazioni. NEMA (acronimo per National Emergency Management Agency, ndr), la Croce Rossa e UNHCR hanno allestito un campo per sfollati a Makurdi, capoluogo del Benue State.
All’indomani della carneficina, centinaia di persone sono scese nelle strade e piazze del capoluogo per protestare pacificamente contro le ripetute, infinite aggressioni. La gente, stanca dei continui attacchi, ha manifestato per chiedere alle autorità misure urgenti per mettere fine ai massacri.
Gas lacrimogeni
La manifestazione è stata ovviamente repressa dalla polizia, e, secondo alcuni testimoni oculari, gli agenti avrebbero usato gas lacrimogeni per disperdere la folla.
Gli attacchi nella cosiddetta “cintura centrale” della Nigeria hanno spesso dimensione religiosa o etnica.
Ma secondo Joseph Ochogwu, direttore generale dell’Istitutoper la Pace e la Risoluzione dei Conflitti di Abuja, la causa di questa violenza è una combinazione di fattori: desertificazione, problemi di distribuzione delle terre, proliferazione delle armi e assenza di una solida amministrazione locale. Prevale quindi la legge del più forte.
Governance locale
“Bisogna quindi partire da una governance locale efficace, solo così la crisi si attenuerà” ha precisato Ochogwu ai reporter di RFI. Ha poi aggiunto: “Ma le attuali amministrazioni locali sono estremamente deboli. Queste autorità dovrebbero assicurare l’istruzione di base, strutture sanitarie, strade e infrastrutture per garantire la presenza dello Stato nelle comunità. Tuttavia, visto che questi servizi sono quasi totalmente assenti, le persone sono abbandonate a se stesse e attori esterni approfittano della situazione per cercare di prendere il controllo dei territori”.
Ipastori fulani vengono generalmente ritenuti i responsabili degli scontri. Dal canto loro gli allevatori sostengono di essere pure bersaglio di sanguinari attacchi da parte degli agricoltori e dell’espropriazione delle proprie terre.
Appena due settimane fa, sempre nel Benue State, sono state uccise almeno 25 persone da uomini armati. Ad aprile, in una serie di massacri ancora da chiarire, sono morte 100 persone nel Plateau State (sempre nel centro della Nigeria) e oltre 50 nel Benue. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, negli ultimi due anni hanno perso la vita 6.896 persone in svariati attacchi nel Benue e 2.630 nel Plateau.
Bola Tinubu
Insomma con la salita al potere di Bola Tinubu nel 2023, il suo governo non ha saputo proteggere la popolazione. La ONG per i diritti umani con sede a Londra ha evidenziato che in due anni sono morte oltre 10mila persone nel nord e nel centro del Paese. Si tratta di zone particolarmente colpite dalle incursioni dei terroristi Boko Haram e dei loro cugini di ISWAP e di bande armate criminali che attaccano i villaggi, uccidendo e rapendo i residenti.
Speciale per Africa ExPress Fabrizio Cassinelli
17 giugno 2025
Israele chiude l’export di gas dopo la rappresaglia iraniana agli impianti offshore. L’Egitto, che ne è collettore, entra in emergenza nazionale. E manca ancora l’azione più estrema: il blocco di Hormuz. rischia di diventare sempre più complicata non solo per il Medioriente ma per l’intero scacchiere internazionale dell’energia. La prima nazione a farne le spese però è un Paese africano, l’Egitto, che si trova al centro di una vera e propria emergenza energetica.
Impianti sensibili
Dopo la rappresaglia iraniana sugli impianti di Haifa e su quelli offshore, che si trovano di fronte alle coste, attaccabili dai missili e dai droni (come nella notte tra lunedì e martedì) e di fatto indifendibili, Israele “per motivi di sicurezza ha dovuto chiuder l’estrazione” bloccando “l’export di gas verso l’Egitto”.
Colpiti impianti di Haifa
Proprio dalla nazione confinante, infatti, passando sotto il mare di Gaza (guarda caso) e poi dal Sinai, il gas prodotto dagli impianti di Israele arrivano in Europa tramite il porto-hub di Damietta, sia tramite pipeline sotterranee sia grazie agli impianti di rigassificazione.
Già l’UE nel 2022 dichiarava: “Con Egitto e Israele storico accordo sul gas”. Nel 2023 il premier italiano, Giorgia Meloni, e quello israeliano, Benjamin Netanyahu, avevano dichiarato di aprire a una “maggiore cooperazione” annunciando “più gas da Israele per l’Italia” con la partecipazione di ENI. Progetto che in questo difficile periodo di ricerca di diversificazione energetica ci lega a Israele a doppio filo, e forse spiega molte cose nell’atteggiamento politico italiano.
Cairo stato di emergenza
Ora però Israele ha chiuso i rubinetti. Per l’Italia è un problema, dato che i contratti del gas in essere prevedono ovviamente clausole di sospensione per cause come i conflitti e le calamità naturali. Quindi non si può impedire questa blocco di erogazione.
Per l’Egitto è un guaio ancora più grande, dato che quel gas serve ad alimentare l’energia della società egiziana, un Paese con 120 milioni di abitanti in enorme espansione di consumi. Al Cairo quindi è stato dichiarato lo stato di emergenza. In una realtà sociale già in grande fermento, senza energia si rischia la rivolta.
Escalation conflitto
Così l’Egitto potrebbe diventare il primo Paese cui si estende il conflitto Israele-Iran. Tanto che proprio a questa emergenza verrebbe ascritto il comportamento intransigente degli egiziani contro la Global March con attivisti provenienti da 54 nazioni. Ma a quanto pare non è bastato, e Israele ha ugualmente chiuso i rubinetti.
Questo vulnus enorme l’Iran lo ha ottenuto facendo quello che sa fare meglio e che può prolungare nel tempo: lanciare missili di precisione sulle infrastrutture offshore e inshore israeliane e a breve, forse, anche su Paesi che ritiene spalleggino lo Stato ebraico, come Giordania e Iraq. E senza aver ancora giocato la sua carta migliore: il blocco della navigazione nel Golfo Persico.
Blocco trasporto greggio
Uno stop in quel tratto di mare, su cui affacciano alcuni dei più grandi produttori di petrolio e mezza OPEC, significherebbe crollo dei trasporti di greggio del 40 per cento. Per molto meno nel 1974 l’Italia era rimasta in braghe di tela e le auto circolavano a targhe alterne, un giorno quelle che cominciavano per un numero pari e quello dopo le dispari . “Il 34 per cento dell’energia mondiale passa da Hormuz. Ci troveremmo con una carenza insostenibile – spiega Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli – e la diminuzione di produzione e di flusso spingerebbe il costo del barile sui i 130-150 anche 200 dollari al barile”.
Golfo persico
Il punto della questione è che non c’è niente, da un punto di vista militare, che USA e Israele possano fare per impedire all’Iran di bloccare tutto. Le coste iraniane rappresentano la metà di quelle di tutto il Golfo e da lì le sue acque possono essere invase da decine di migliaia di mine. Nessuna portaerei potrebbe farci niente. Nessuna azione di sminamento potrebbe essere condotta in modo efficace e i tempi di bonifica sarebbero lunghissimi. Le borse crollerebbero l’una dopo l’altra e con essa gli ETF sulle materie prime e svariati fondi speculativi, con ripercussioni fino alle banche dove si trovano anche i nostri risparmi.
Bombardamenti mirati
Non è un caso che lo scorso 15 giugno l’aviazione israeliana abbia bombardato decine di postazioni missilistiche terra-terra nell’ovest dell’Iran: molte erano piattaforme per missili antinave. Sono disseminate lungo tutta la costa e possono colpire con ordigni avanzati qualunque cosa che navighi nel Golfo, con tempi di gittata brevissimi.
Fabrizio Cassinelli cassinelli.fabrizio@gmail.com
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Dal sito della BBC Tom Bateman State Department Correspondent
La strada per Dover, nel Delaware, è costeggiata da fienili e campi di grano giganti e da tutti gli altri segni dell’abbondanza americana. Ma in questo viaggio, la scena non fa che sottolineare il devastante contrasto tra pace e guerra. Stiamo guidando qui perché in questo cuore rurale si nascondono indizi su ciò che si cela dietro uno sviluppo molto contestato a migliaia di chilometri di distanza, a Gaza.
La nuova entità sostenuta da Stati Uniti e Israele creata per nutrire il territorio, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), è stata registrata qui nel Delaware due settimane dopo l’insediamento del presidente americano Donald Trump.
Gaza Humanitarian Foundation distribuisce generi alimentari a Gaza
Poco si sa del gruppo, che è stato al centro delle cronache mondiali tra scene di caos e incidenti mortali quasi ogni giorno, quando i palestinesi disperati hanno cercato di raggiungere i suoi centri di distribuzione.
Testimoni oculari hanno recentemente riferito che le forze israeliane hanno sparato sulla folla che si dirigeva verso un sito di aiuti. Israele ha dichiarato che sta indagando e ha accusato Hamas di aver cercato di sabotare le operazioni.
Uccisi otto operatori
Il GHF ha dichiarato giovedì che otto dei propri operatori palestinesi locali sono stati uccisi quando Hamas ha attaccato uno dei loro autobus.
E nell’ultimo incidente mortale, almeno 15 palestinesi in cerca di cibo sono stati uccisi sabato dal fuoco israeliano, secondo quanto riferito dagli ospedali locali. L’esercito di Tel Aviv ha dichiarato che le sue truppe hanno sparato colpi di avvertimento contro un gruppo che ritenevano rappresentare una potenziale minaccia e un aereo ha colpito una persona che si era avvicinata troppo.
Durante il nostro viaggio nel Delaware per saperne di più sul GHF, la ricerca ha dato molti indizi ma poche risposte definitive.
Scavalcato l’ONU
La GHF si è costituita dicendo che intendeva sfamare i civili di Gaza, dove le Nazioni Unite hanno dichiarato che più di due milioni di persone rischiano di morire di fame. La fondazione, che si avvale di contractor di sicurezza americani armati, scavalca l’ONU come principale fornitore di aiuti a Gaza.
I critici ritengono che la GHF favorisca un piano del governo israeliano per spostare i palestinesi a sud in aree più piccole di Gaza.
Ma Israele – che da tempo cerca di eliminare le Nazioni Unite come principale fornitore di aiuti umanitari ai palestinesi – sostiene che il sistema alternativo era necessario per impedire ad Hamas di rubare gli aiuti.
Da marzo senza cibo
Hamas lo nega, mentre la posizione della precedente amministrazione statunitense del presidente Joe Biden era che se i rifornimenti venivano deviati, non erano di dimensioni tali da giustificare il blocco degli aiuti a Gaza.
A marzo, Israele ha tagliato tutte le forniture di cibo e di altri aiuti a Gaza, mentre riprendeva la guerra contro Hamas dopo un cessate il fuoco di due mesi. Israele ha dichiarato che il provvedimento, ampiamente condannato, è stato preso per fare pressione su Hamas affinché rilasciasse gli ostaggi rimasti.
Le Nazioni Unite e i gruppi di aiuto hanno chiesto l’accesso, mentre cresceva la condanna internazionale di Israele.
Nel mezzo di questa situazione di stallo è emerso il GHF, promosso da Israele e sostenuto dall’amministrazione Trump. Ma non si sapeva praticamente nulla sulla sua provenienza e tantomeno chi lo finanziasse.
All’inizio di maggio, un documento di 14 pagine è trapelato e circolato tra i gruppi di aiuto e tra i giornalisti. Il documento illustrava il concetto alla base del GHF: fornire aiuti ai palestinesi da diversi super-hub di raccolta a Gaza, protetti da milizie private armate e infine, oltre il loro perimetro, dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF).
L’iniziativa sembra essere stata progettata per aggirare l’ONU come principale fornitore.
Tenente generale
Tra i dirigenti o i consulenti elencati nel documento c’erano Nate Mook, ex capo dell’organizzazione benefica World Central Kitchen; David Beasley, ex capo del Programma Alimentare Mondiale (indicato come “da finalizzare”); e Jake Wood, veterano del Corpo dei Marines degli Stati Uniti ed esperto di risposta ai disastri.
L’associazione elencava anche un tenente generale USA in pensione nel suo comitato consultivo.
Ma telefonando a chi conosceva alcuni retroscena, è emerso che né il signor Mook né il signor Beasley facevano effettivamente parte della fondazione.
Il documento sembrava essere una lista di desideri per cercare di ottenere sostegno e possibilmente donazioni private per il fondo.
Domande senza risposta
Tuttavia, non ci sono indizi sulla paternità del testo trapelato. Chi era davvero a capo del GHF?
Jake Wood è diventato effettivamente il direttore esecutivo, ma nel giro di due settimane si è dimesso affermando che il progetto dell’GHF violava i principi umanitari di “umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”, che invece aveva dichiarato di non voler abbandonare.
Nel tentativo di saperne di più, ci fermiamo nel caratteristico centro di Dover. Una donna in costume sta facendo una visita guidata alla storia. Questo è un posto dove si viene per sentire parlare di guerre passate e non di quelle presenti.
Ci dirigiamo verso l’indirizzo indicato alla ricerca di documenti pubblici per il GHF. È un edificio di mattoni rossi con porte di legno e senza campanello. All’interno, in un corridoio, due donne escono da un ufficio. Cercano di aiutarci, ma dicono di non poterlo fare perché non sanno nulla di specifico sulla GHF.
Indirizzo fantasma
L’indirizzo è in realtà quello di un agente che si occupa della costituzione di aziende, ovvero della loro registrazione legale, nel Delaware, uno Stato noto per un approccio meno invasivo alla trasparenza delle aziende.
Chiedo alle donne perché un’organizzazione dovrebbe avere un indirizzo registrato qui, ma non avere una sede qui: “Così non vengono disturbati”, dice una di loro con un sorriso.
Ci rimettiamo in viaggio e invio alcuni messaggi al portavoce della GHF, un ruolo di recente nomina che viene svolto da un professionista delle pubbliche relazioni con sede negli Stati Uniti.
Da giorni chiedo un’intervista ufficiale con lui o con il nuovo direttore esecutivo. Ho chiesto conferma di chi sta finanziando il GHF e di chi altro fa parte del consiglio di amministrazione, ma non è arrivato nulla.
Divieto di operare
Questa apparente mancanza di trasparenza per un gruppo umanitario è un problema “critico”, afferma Bill Deere, direttore dell’ufficio di Washington DC dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi UNRWA. La sua agenzia è stata al centro dei tentativi del governo israeliano di interrompere i rapporti tra le Nazioni Unite e la popolazione di Gaza e quest’anno le è stato vietato di operare in Israele.
Deere afferma: “Per chi ama o non ama l’ONU e le sue agenzie, è sempre possibile rintracciare il nostro denaro. Siamo molto trasparenti sulla provenienza dei nostri finanziamenti. Al contrario… nessuno sa molto di questo GHF”.
In prima linea
Descrive il nuovo progetto di aiuti come “una rete di distribuzione alla Hunger Games”, un riferimento alla saga di narrativa distopica.
Deere chiede che le Nazioni Unite possano rientrare a pieno titolo a Gaza per distribuire nuovamente gli aiuti alimentari ai palestinesi in modo professionale e su larga scala. “Non so, non riesco a capire. Sia come dipendente delle Nazioni Unite, sia come americano, come faccia il mondo ad accettare questa situazione”, aggiunge.
Altre agenzie delle Nazioni Unite e gruppi di aiuto hanno intensificato le loro critiche al progetto del GHF: ritengono che il gruppo stia violando il principio umanitario fondamentale di indipendenza.
In altre parole, sostengono che se gli operatori umanitari impegnati in un conflitto sono visti come schierati, sia loro sia i beneficiari degli aiuti rischiano di diventare bersagli.
Il GHF ha militarizzato la fornitura di aiuti, mettendo in pericolo i civili che devono attraversare le linee del fronte per raggiungere i luoghi di distribuzione e svantaggiando i deboli e i malati.
Nove licenziati
Da parte sua, Israele sostiene che l’UNWRA non è neutrale. L’anno scorso, in seguito alle accuse mosse da Israele, le Nazioni Unite hanno licenziato nove membri del personale dell’UNRWA, che conta 17.000 dipendenti, affermando che potrebbero essere stati coinvolti negli attacchi del 7 ottobre.
Israele non ha specificato di cosa fossero accusati, mentre l’UNRWA afferma che le affermazioni iniziali non sono ancora state provate. Secondo l’agenzia, nella guerra di Gaza sono stati uccisi almeno 310 operatori dell’UNRWA, la maggior parte dei quali dall’esercito israeliano.
Chiedo a Bill Deere, dell’UNRWA, di rispondere alle critiche di Israele e del GHF, secondo cui Hamas avrebbe dirottato gli aiuti nell’ambito del sistema ONU. Egli afferma che Israele non ha mai fornito prove. “Questa è solo una scusa inventata per creare un sistema che sembra aiutare le persone senza aiutarle davvero”, dice.
Mentre continuiamo la nostra ricerca per saperne di più sulla GHF, mi dirigo verso l’edificio ufficiale dello Stato del Delaware che custodisce i documenti della società.
Il nostro team ha richiesto il certificato di costituzione della GHF e altri documenti collegati. Una donna che lavora nell’ufficio registri ci consegna tre pagine spillate insieme.
Rivelano solo l’indirizzo degli agenti che abbiamo appena visitato e che il GHF ha cambiato nome da Global Humanitarian Fund a Gaza Humanitarian Foundation il 28 aprile. È firmato “Loik Henderson, presidente”.
Secondo il documento trapelato a maggio, Henderson è un avvocato “con decenni di esperienza [anche] in aziende Fortune 500”. Cerchiamo di contattarlo telefonicamente, ma non otteniamo risposta.
Il giorno successivo, arriva una dichiarazione da un indirizzo e-mail della GHF, che non è attribuita ad alcun addetto stampa e non contiene numeri per contattare i media.
Ridotta distribuzione cibo
Si legge che quel giorno la fondazione ha distribuito 19 camion di cibo.
Il sistema delle Nazioni Unite ne riceveva 600 al giorno durante il cessate il fuoco. Per una popolazione di oltre due milioni di persone, l’attuale quantità giornaliera è chiaramente insufficiente; lo testimoniano le immagini di una scena apocalittica quando, questa settimana, folle disperate sono scese da dune sterili e sabbiose scavalcando le recinzioni di un sito di aiuti.
L’e-mail contiene una sezione intitolata “notizie inaccurate”, avendo all’inizio della settimana criticato pesantemente le organizzazioni dei media per le “narrazioni inventate ed esagerate”.
La fondazione ha preso le distanze dalla serie di incidenti mortali, affermando che nessuno ha sparato ai suoi siti.
Il direttore esecutivo della GHF, John Acree, ha dichiarato nella mail che la fondazione ha distribuito finora 8,5 milioni di pasti “senza incidenti”. La BBC non è in grado di verificare l’accuratezza della misura del numero di pasti contenuti in ogni scatola di cibo.
Sabato scorso, la controversia sulla GHF si è aggravata quando una delle più importanti società di consulenza del mondo, il Boston Consulting Group, ha dichiarato di aver licenziato due partner per il ruolo svolto nella creazione della fondazione. L’amministratore delegato si è scusato con il personale affermando che il gruppo era “scioccato e indignato” per il fatto che i due dipendenti senior avessero svolto un lavoro non autorizzato sul progetto.
Contro-insurrezione
Alex de Waal, esperto di carestie e fornitura di aiuti in guerra presso la Tufts University del Massachusetts, paragona il concetto attualmente in corso a Gaza ai tentativi di contro-insurrezione dell’epoca coloniale.
“Il pensiero dei militari, quando organizzano operazioni come questa, è quello di poter negare tutte le risorse a un gruppo di insorti, costringendo i suoi membri ad arrendersi per fame e costringendo la popolazione civile a rivoltarsi contro di loro”.
Israele respinge decisamente qualsiasi suggerimento di usare la fame come arma di guerra. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha precedentemente affermato che Israele “deve evitare la carestia [a Gaza], sia per ragioni pratiche che diplomatiche”.
Israele ha anche respinto le crescenti critiche internazionali al progetto GHF.
Disperati per il cibo
E ha negato le accuse dei media israeliani, sollevate dal leader dell’opposizione Yair Lapid, secondo cui il governo israeliano avrebbe finanziato segretamente il GHF.
L’ufficio di Netanyahu ha dichiarato che Israele e gli Stati Uniti stanno lavorando in coordinamento “per impedire che gli aiuti arrivino ad Hamas”, mentre aumenta l’offensiva israeliana a Gaza, sostenendo che la “pressione militare” contribuirà a costringere Hamas a rilasciare gli ostaggi che detiene.
Niente finanziamenti da Washinton e Tel Aviv
Aggiunge che “Israele non finanzia l’assistenza umanitaria alla Striscia di Gaza”. Anche il governo statunitense ha dichiarato di non finanziare la fondazione.
Di nuovo in viaggio, cerchiamo di contattare il direttore esecutivo della GHF John Acree, ex funzionario umanitario del governo statunitense.
Il mese scorso, contattato tramite LinkedIn, mi ha detto che non avrebbe rilasciato interviste, ma in seguito mi ha messo in contatto con il nuovo portavoce della fondazione, che finora ha rifiutato di rilasciare commenti ufficiali.
Mercoledì scorso, una donna a casa di Acree mi ha detto che al momento si trovava a Tel Aviv.
La fondazione ha anche inviato un comunicato stampa, dicendo di aver nominato un presidente esecutivo, il reverendo Johnnie Moore, un predicatore cristiano evangelico e dirigente delle pubbliche relazioni.
Moore è un forte sostenitore di Israele e faceva parte del “comitato consultivo” evangelico del Presidente Trump, composto da leader religiosi che hanno imposto le mani sul Presidente e pregato per lui nello Studio Ovale.
In un articolo del sito web Fox News, Moore ha lanciato un duro attacco al sistema delle Nazioni Unite.
“Gli attivisti travestiti da umanitari stringono le loro perle e si affrettano a rilasciare comunicati stampa a sostegno di questi sistemi falliti – ha dichiarato Moore – .Continuano a diffondere senza alcun controllo le profane menzogne di Hamas”.
Torniamo a Washington DC dopo le nostre ricerche nel Delaware. Il mio telefono vibra per un messaggio di un collega che dice che migliaia di palestinesi affamati hanno saccheggiato un camion di aiuti nel centro di Gaza, mentre la disperazione per la scarsità di cibo sale.
Palestinesi ringraziano Trump
Nel frattempo, la Gaza Humanitarian Foundation ha pubblicato dei video di palestinesi che ringraziano il presidente Trump dietro le recinzioni metalliche dei suoi siti di distribuzione. La politica è diventata l’ingrediente principale degli aiuti di Gaza, ma ci sono poche risposte reali su chi ci sia veramente dietro.
Tom Bateman
Servizio aggiuntivo di Alex Lederman
L’articolo originale in inglese lo trovate qui: https://www.bbc.com/news/articles/c74ne108e4vo
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