Africa ExPress e Senza Bavaglio
Da “Il Fatto Quotidiano”
Gianfranco Viesti*
27 giugno 2025
Nell’analizzare il presente si corre sempre il rischio di ingigantire l’importanza degli avvenimenti correnti, di sovrastimarne l’impatto nel tempo. Eppure, non si sfugge all’impressione che il consenso dei governi europei (con l’eccezione di quello spagnolo) al gigantesco aumento di spesa militare richiesto dagli Stati Uniti configuri il più forte attacco al nostro stato sociale da molti decenni a questa parte.
Trascuriamo qui le notevolissime conseguenze di questo consenso sul piano delle relazioni internazionali, la supina accettazione del diktat di un Paese che, per dirne solo alcune, stravolge sistematicamente il diritto internazionale, bombarda altri Paesi, minaccia l’economia europea con i dazi, ha già pronti i piani per l’invasione della Groenlandia. Restiamo sul piano dell’economia e della società.
Il punto di fondo è che questo gigantesco aumento di spesa militare è incompatibile con il mantenimento del welfare e dei sistemi di istruzione e di salute pubblica costruiti dopo la Seconda guerra mondiale. Il caso italiano è clamoroso. Arrivare al 5 per cento significa destinare alle spese militari 75 miliardi in più all’anno, tutti gli anni. Una cifra pari a più di metà dell’intero fondo sanitario nazionale, già sottofinanziato e che dovrebbe crescere per l’invecchiamento della popolazione e il maggior costo delle cure.
Chi ha subito fotografato con poche parole quel che sta avvenendo è stato Leone XIV, stigmatizzando “i soldi che vanno nelle tasche dei mercanti di morte, con i quali si potrebbero costruire ospedali e scuole; e invece si distruggono quelli già costruiti”. Più armi e meno ospedali pubblici, come nel fallimentare, sotto ogni profilo, modello di sanità americana.
Meloni promette che questi 75 miliardi si materializzeranno per magia, senza doverli prendere da qualche parte. Impossibile che lei stessa ci creda. Forse, in cuor suo, confida nel passar del tempo, nello scavallare le prossime elezioni (italiane e americane); non proprio da grande statista: poi si vedrà.
Certo, c’è da augurarsi che col tempo le cose possano cambiare, e molto. Ma potrebbe anche essere una pericolosa illusione: il nostro Paese si è accorto nel 1993, con le vicende Finmeccanica-Alfa Romeo, di che cosa implicasse l’Atto Unico del 1985; e nel corso di tutti gli anni Dieci dell’impatto del Fiscal Compact nel 2011.
Vedremo che cosa ci riserveranno i prossimi anni. Ma resta l’importanza di una scelta politica così netta. Le priorità per la grande maggioranza delle attuali classi dirigenti europee sono il controllo del debito pubblico (riaffermato con forza nel Patto di Stabilità tornato in vigore) e il riarmo nazionale. Quest’ultimo, con le armi americane; con buona pace del coordinamento europeo. Lo stato sociale si deve conseguentemente ridimensionare. Non solo perché ci servono i soldi per i cannoni, ma anche – questo è il punto – perché è giusto che sia così.
Meno stato sociale significa una società più libera di essere diseguale, individui più soli ed esposti ai rischi della vita. Ma significa anche tante buone occasioni per le imprese. Si pensi al prepotente ingresso (anche, molto, in Italia) degli interessi assicurativi nel sistema della sanità. Al business delle cure private, per le patologie dei “ricchi” e per chi se le può permettere.
Si pensi ancora, sempre per restare a casa nostra, al mondo dell’istruzione: all’ingresso di capitali privati internazionali orientati al profitto nell’insegnamento universitario telematico, favoriti senza opposizione. Si smetta con l’assistenzialismo per i poveri pigri: che vadano a lavorare, senza costare troppo a chi li impiega.
Nei governi europei non hanno un ruolo decisivo le destre estreme, che tanto, giustamente, si temono. Sono le élite “liberali”, quelle “moderate”, “responsabili”, “frugali”, a promuovere questo profondo cambiamento. È il liberal-conservatore Mark Rutte, per 14 anni ministro-presidente dell’Olanda, l’eroe negativo – anche sul piano macchiettistico – di queste giornate.
Da noi, sono i “riformisti” a volere un’Italia e un’Europa con meno governo e più mercato, meno servizi pubblici e più compravendita di istruzione e salute, meno sindacato e più flessibilità di impiego e di salario. Sono (con l’eccellente eccezione spagnola) i residui dei partiti laburisti e socialdemocratici a fare da protagonisti, o più mestamente da stampelle, a questi indirizzi.
Queste classi dirigenti sembrano davvero voler riscrivere la storia al contrario. Non solo un’Europa di stati nazionali militarmente potenti, con la Germania nuova forza armata del continente, come più di un secolo fa. Ma anche una società che dimentichi finalmente la sbornia statalista del secondo dopoguerra. In cui “noi” che ce la siamo meritata torniamo finalmente liberi, potenti e tassati giusto il minimo. Come negli Stati Uniti.
Gianfranco Viesti*
X @profgviesti
*professore di economia all’università di Bari
Le iconografia pubblicate sul sito di Africa Express e di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni
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