Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
4 maggio 2025
Prigionieri di guerra africani detenuti nelle galere ucraine: un déjà vu, tutt’ora attuale. Questa volta sono state le autorità di Lomé a lanciare l’allerta ai giovani togolesi, visto che recentemente sono stati segnalati diversi casi di ragazzi catturati dalle forze di Kiev mentre combattevano nelle fila dell’esercito russo. I giovani erano partiti alla volta di Mosca, convinti di potersi laureare in un ateneo della Federazione.
Guerra in Ucraina
Togo lancia allarme
Il ministero degli Esteri di Lomé ha messo in guardia i giovani concittadini su presunte borse di studio messe a disposizione da organizzazioni con sede in Russia. Le autorità hanno chiesto agli studenti di rivolgersi al ministero dell’Insegnamento superiore per le necessarie verifiche, prima di accettare l’aiuto economico per frequentare le università all’estero, soprattutto se proposte da associazioni russe.
Lo scorso agosto il Movimento Martin Luther King (MMLK) aveva segnalato il caso di uno studente universitario togolese, finito nelle galere di Kiev. Era partito felice, con la speranza di un futuro migliore, grazie a una laurea da conseguire in una prestigiosa università moscovita. Ma una volta arrivato in loco, lo studente è stato costretto ad andare a combattere in Ucraina, per poi ritrovarsi in una putrida cella riservata ai prigionieri di guerra, anziché in un ateneo.
Mercenario senegalese
Anche Malick Diop, un giovane senegalese, è stato catturato dagli ucraini a fine aprile sul fronte di Toretsk, nella regione di Donetsk. In un video, pubblicato sui social network da un battaglione delle forze armate di Kiev, ha definito il 25enne africano come “mercenario”. Finora il ministero degli Esteri di Dakar e nemmeno l’ambasciata di Kiev accreditata in Senegal, hanno confermato la sua identità.
Malick Diop arrestato dalle forze di Kiev
Sta di fatto che Diop, come molti altri che hanno subito la sua sorte, è arrivato in Russia grazie a una sedicente borsa di studio. Ex studente dell’Università Alioune Diop di Bambey, in Senegal, il 25enne è approdato all’ateneo russo di Lobachevsky a Nizhny Novgorod nel 2023.
Secondo quanto riferito dagli ucraini, Diop, durante l’interrogatorio ha precisato che avrebbe voluto trasferirsi in Germania. Per mancanza dei fondi necessari, aveva deciso di arruolarsi con i russi per poter realizzare il suo sogno.
Disertori
Ma in Ucraina non combattono solamente studenti. Anche soldati africani ben addestrati, disertori. E, secondo quanto riportato recentemente da The Institute for Security Studies (ISS Africa, organizzazione africana che mira a migliorare la sicurezza umana nel continente), alcuni Paesi subsahariani lamentano che sin dall’inizio del conflitto Ucraina-Russia parecchi militari hanno abbandonato le proprio truppe in patria.
Il Camerun è tra questi e, in un comunicato di appena due mesi fa, Joseph Beti Assomo, ministro della Difesa di Yaoundé, ha fatto sapere che il suo Paese, coinvolto in svariati conflitti interni e regionali, non può permettersi di perdere soldati qualificati e addestrati. “Si tratta di coinvolgimenti illegittimi delle nostre truppe”. Il ministro ha poi spiegato che una minoranza dei disertori sono “volontari stranieri” che combattono per l’Ucraina, mentre la maggior parte sono “Tirailleurs” (fucilieri) di Vladimir Putin che si sono arruolati per combattere con i russi. In breve: si scende in campo per il miglior offerente.
Soldati di ventura camerunensi
Yaoundé deve affrontare diverse emergenze: la lotta contro i terroristi Boko Haram nel nord; a est i ribelli centrafricani, la pirateria marittima lungo le coste, per non parlare della crisi profonda nelle due province anglofone nell’ovest.
Non si conosce il numero esatto dei militari africani che hanno abbandonato i propri eserciti, in quanto la maggior parte dei Paesi non dispongono di un “registro disertori”.
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Speciale per Africa ExPress Barbara Pavarotti
3 maggio 2025
Si sente il respiro del mare nel film “Breath” di Ilaria Congiu, in uscita al cinema il 5 maggio. Il mare del Senegal, l’Oceano Atlantico, Paese dove Ilaria è nata e vissuta per anni, e il mare italiano. Il respiro del mare maltrattato, derubato, inquinato e il respiro dei pesci, cannibalizzati, vittime di un sistema-pesca industriale in mano a multinazionali, che lascia ai piccoli pescatori poco o nulla.
E’ un film,“Breath”, destinato a scuotere le coscienze perché ci fa capire, attraverso storie e testimonianze, quanto l’uomo distrugga ciò che gli dà vita. “Il 70 per cento del pianeta è formato da acqua e anche il 70 per cento del nostro corpo. Questo è il primo motivo per cui dobbiamo avere il massimo rispetto per il mare”, specifica, nel film, il biologo Silvio Greco.
Ilaria Congiu, regista, sceneggiatrice, giornalista, ha il mare nel cuore, ma sa che si è fatto sempre più spoglio e silenzioso. E teme che anche l’attività di suo padre, che in Senegal dirige un’azienda che esporta pesce congelato, contribuisca a questo depauperamento.
Gabbie volanti tonni
La regista aveva già scoperto, a bordo delle navi di Sea Shepherd, le “gabbie volanti” dei tonni. Migliaia di questi pesci trascinati dalla Calabria a Malta, costretti a percorrere 400 miglia in un mese. Per poi essere rinchiusi in “allevamenti”, in attesa di essere uccisi chiusi in una gabbia: “Vedendo quei tonni girare in tondo nelle gabbie che li trasportavano, mi sono sentita come loro. Parte di un sistema che gira su se stesso senza sapere dove stia andando a sbattere”.
Ilaria torna dunque a Dakar alla ricerca del pesce perduto, e per confrontarsi con il padre, che, invece, le spiega che lui compra il pesce solo dai locali che praticano la pesca artigianale, non dai pescherecci industriali che stanno svuotando l’oceano. Il genitore è amareggiato: “Internet, telefonini, luce, corrente, tutte cose che costano. Cosa distruggi per avere questo? La natura. Distruggi il rapporto fra uomo e natura”.
Pescatori senegalesi
Ma scopre anche che in Senegal, Paese che viveva di pesca, non c’è quasi più pesce. Un muro, a Dakar, delimita la zona industriale: da una parte i pesci destinati all’esportazione, ai bianchi; dall’altra quelli per il consumo locale. Pochi e cari. L’esportazione è cresciuta a dismisura, quindi il Senegal non ha quasi più accesso al pesce locale, non se lo può permettere.
Licenze pesca per tutti
“Il Senegal ha rilasciato licenze di pesce a qualsiasi tipo di imbarcazione – spiega nel film Ibrahima Samb, collaboratore del padre di Ilaria- e si sono insediate tante aziende di congelazione e lavorazione. Per avere sempre più pesce e quindi più soldi nessuno si è posto dei limiti. Ma i soldi non si possono mangiare. Abbiamo stretto accordi anche con l’Europa, dove il pesce scarseggia, ma se continua così dovremo accettare la triste realtà che moriremo insieme al nostro Paese, perché siamo noi a sterminarlo col sovrasfruttamento”. (ndr. L’ accordo con la UE è stato revocato nel novembre 2024)
Piroga dei pescatori senegalesi
Colpisce, nel film, la differenza fra le piroghe usate dai pescatori locali e le grandi navi che utilizzano enormi reti a strascico e che prendono di tutto. “Quello che non viene commercializzato diventa cibo per i nostri animali domestici, il loro unico target è riempire le stive”, dice il biologo Silvio Greco.
Le specie vicine all’estinzione? Anche quelle vengono pescate, anzi sono più appetibili: le aziende le stoccano per poterle poi vendere a caro prezzo quando la specie sarà esaurita.
Non c’è più nulla
Colpiscono come echi del passato, invece, i volti solcati da rughe e bruciati dal sole dei pescatori tradizionali. Le loro sono parole di fatica e delusione: “Fare il pescatore oggi? Non lo farei mai più. Non c’è più nulla. La pesca non può dare nessun avvenire. Il mare è stato troppo inquinato, sfruttato. Troppe fogne ci sono in mare”.
“Stiamo portando in mare un’enorme quantità di contaminanti – continua il biologo Silvio Greco – ci sono isole galleggianti di plastica grandi quanto la Francia. Sul fondo del mare c’è un continente grande almeno quanto l’Europa. Il risultato è che noi ci mangiamo la plastica. Cinque grammi a settimana. Bene non fa”.
Poi l’allarme di Rym Benzina Bourguiba, fondatrice dell’associazione “La Saison Bleu”, “L’oceano ci dà il 50 per cento del nostro ossigeno. E’ il nostro polmone blu, le foreste sono quello verde. Noi stiamo distruggendo entrambi, ma sono gli alberi e le onde a farci respirare”.
Eppure il pesce l’uomo l’ha sempre pescato e mangiato e ormai l’industria ittica è una delle più importanti del mondo: “Un miliardo e 600 milioni di persone vivono solo di pesca. E’ facile dire ‘facciamo i sostenibili’, ma dobbiamo ragionare su chi nel pianeta non può fare il sostenibile. Se facciamo scelte sbagliate le pagheranno altri”, precisa il biologo Greco.
Molti interrogativi
Come conciliare dunque il mercato, il lavoro con la tutela degli oceani? Il film, ovviamente, non può offrire una soluzione. Ilaria Congiu racconta una realtà esplosiva. “Breath” pone tanti interrogativi e vederlo è uno choc. E le parole più giuste, forse, se si continua a depredare e a uccidere il mare, sono quelle del padre di Ilaria, Francesco Congiu: “Il mare si ripopolerà, ma si distruggerà prima l’uomo”.
Siamo stati hackerati e il nostro sito è risultato irraggiungibile per qualche giorno. Ci scusiamo con i nostri lettori che non intendiamo assolutamente abbandonare. Siamo una voce libera e tale intendiamo restare. Ringraziamo i nostri tecnici che, nonostante il primo maggio, si siano dati da fare indefessamente perché tornassimo in rete al più presto possibile.
OPINIONE
da Haaretz
Gideon Levy* Tel Aviv 2 maggio 2025
C’era da aspettarselo: in Israele la retorica ha raggiunto toni neonazisti. E’ caduta ogni barriera e è stato legittimato lo spargimento di sangue.
Affamare un’intera nazione
Sul canale televisivo Channel 14, il parlamentare, Moshe Saada, del Likud (il partito di destra del premier Benjamin Netanyahu) si è detto “interessato” ad affamare un’intera nazione. “Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, è nostro dovere”.
Moshe Saada, parlamentare israeliano del Likud
Un cantante piuttosto famoso, Kobi Peretz, è convinto che sia stato “ordinato” di annientare gli Amaleciti, come veniva chiamata nella bibbia ebraica la popolazione nemica degli israeliti. “Non mi fa pena nessun civile a Gaza, giovane o anziano. Non provo nemmeno un briciolo di pietà”, diceva Peretz sulla prima pagina dell’edizione del fine settimana del quotidiano Yedioth Ahronoth.
Saada e Peretz sono solo due pesci piccoli, ma lo stagno è pieno di affermazioni di questo tenore e c’è qualcuno interessato a metterle in evidenza per accontentare le masse.
Neonazisti
Se in Europa un personaggio pubblico pronunciasse frasi di questo tipo sarebbe definito neonazista. La sua carriera finirebbe. In Israele dichiarazioni simili servono a vendere giornali.
Bisognerebbe chiamare questo fenomeno con il suo nome: incitamento al genocidio. Va dato atto a Saada e Peretz di aver gettato la maschera. Quelli che un tempo erano insulti da social media sono diventati discorsi normali sui mezzi d’informazione tradizionali, e questo spinge a chiedersi se c’è ancora qualcuno contrario allo sterminio di massa.
Saada e Peretz sono a favore dello sterminio di massa, mentre altri difendono solo la strategia di “ostacolare gli aiuti umanitari”, che è la stessa cosa, ma con parole più raffinate.
Mostruosità
È la stessa crudeltà, solo espressa in una forma più educata. La stesso mostruosità, ma aderente a una forma più corretta. È vero che è importante sottolineare le tendenze neofasciste che si stanno diffondendo in tutta la società e strappare via la maschera, ma lo svelamento dà a questi discorsi illegittimi una normalità che fino a non molto tempo fa ancora non avevano.
D’ora in avanti si dovrebbe ordinare: uccidi. Secondo Saada e Peretz è addirittura un comandamento. Resta solo da chiedersi chi dovrebbe essere ucciso e chi invece risparmiato.
Danni attacco di Hamas
Lentamente, ma inesorabilmente, i danni provocati dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 stanno venendo alla luce. Al di là delle tragedie personali e nazionali, l’attacco ha sovvertito la società israeliana. Ha distrutto, forse per sempre, qualsiasi traccia di pace e umanità, legittimando la barbarie come un nobile comandamento.
Concetti come “permesso” o “vietato” non hanno più senso quando si parla della crudeltà di Israele verso i palestinesi. È permesso uccidere decine di detenuti e lasciar morire di fame un intero popolo.
Si è perso senso della vergogna
Un tempo ci vergognavamo di azioni simili, adesso la perdita del senso di vergogna sta smantellando qualsiasi barriera residua. Forse la cosa peggiore di tutte è il pensiero che un organo di stampa cinico e populista come Yedioth Ahronoth, definito “il giornale del Paese”, sempre in sintonia con i lettori, abbia un tornaconto nel dare spazio a questi discorsi genocidi.
Gli editori sanno che il genocidio messo in copertina non solo lo legittima, ma fa piacere al pubblico.
Il cantante Eyal Golan dovrebbe essere ostracizzato per la sua condotta sessuale inappropriata, ma chi metterà al bando Kobi Peretz il jihadista? Dopo tutto, ha ragione lui. “Hanno mutilato i nostri fratelli e i nostri figli”, ha detto. Ora tocca a noi israeliani mutilare.
Discorsi di odio si diffondono
E non sono solo Yedioth Ahronoth e Channel 14. I discorsi d’odio si sono diffusi in tutti gli studi televisivi. Ex colonnelli, ex componenti dell’apparato della difesa partecipano a dibattiti e invocano il genocidio senza battere ciglio.
Striscia di Gaza: affamare un intero popolo
Quando un giorno gli storici cercheranno di capire cosa è successo in Israele in questi anni, troveranno quelle voci, le voci del popolo.
Legittimazione e lacrime
Questa legittimazione finirà in un mare di lacrime, le lacrime degli stessi giornali che oggi danno spazio a questi discorsi mostruosi. Provate a chiedere cosa pensa della libertà di stampa chi vuole affamare due milioni di persone, chi pensa che un bambino di quattro anni merita di morire e che una persona disabile in sedia a rotelle può essere ridotta alla fame senza problemi, e scoprirete che chi ha idee simili difende allo stesso tempo la chiusura della maggior parte dei giornali e il bavaglio ai mezzi d’informazione.
Questa tendenza a compiacere l’estrema destra diventerà un boomerang per colpire i mezzi di comunicazione che l’hanno assecondato. Peretz, Saada e persone simili non vogliono solo sangue arabo. Vogliono anche metterci tutti a tacere.
Gideon Levy*
*Gideon Levy è editorialista del quotidiano israelianoHaaretz
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Dalla Nostra Vaticanista Emanuela Provera
Città del Vaticano, 28 Aprile 2025
Alle 7,30 del 21 aprile scorso muore il capo della Chiesa cattolica, Jorge Maria Bergoglio. Subito dopo, appena la notizia fa il giro del mondo, il noto filosofo, ciellino, Rocco Buttiglione scrive ai cardinali la lettera che alleghiamo, per screditarne il pontificato. La lettera è firmata da Buttiglione in qualità di presidente dell’Academia Internacional de Líderes Católicos (https://liderescatolicos.net) ed è scritta in lingua castigliana.
Il testo appare come un J’accuse esplicito, sembra persino irriverente visto che l’autore è presidente di una fondazione (l’Academia) che ha lo scopo di promuovere la diffusione della dottrina sociale della chiesa.
Pontificato infelice
“Il pontificato di Papa Francesco – c’è scritto nella missiva – non è stato un pontificato felice. Se lo confrontiamo con quello di San Giovanni Paolo II, vediamo che il papa polacco parlò e i popoli e le nazioni dell’Europa centrale e orientale risposero mettendo in moto un gigantesco processo di cambiamento verso forme nuove e più umane di vita per l’uomo. Papa Francesco, invece, ha parlato, ma il laicato latino-americano non ha risposto, non è sorto un movimento per il cambiamento delle società latinoamericane, per la liberazione latino-americana.”
La spaccatura che il pontificato di Bergoglio ha creato dentro e fuori la Chiesa era latente e inespressa nelle forme con cui si è manifestata negli ultimi anni. Nella sinossi del libro del giornalista Marco Politi, dal titolo “La rivoluzione incompiuta”, nelle librerie il prossimo 23 maggio, si legge: “Nonostante Papa Francesco abbia ottenuto ampio consenso, le sue riforme, spesso incomplete, hanno alimentato divisioni interne”.
Contenuto critico
Il contenuto critico della lettera di Rocco Buttiglione non è però una sorpresa per chi ha osservato, in questi anni, l’operato di Francesco nei confronti del Movimento di Comunione e Liberazione. Si può supporre, tra le varie ipotesi, che il filosofo non abbia gradito i provvedimenti adottati dal Papa.
L’organizzazione infatti è stata commissariata e Julián Carrón (primo successore di Luigi Giussani) è stato sostituito dal laico Davide Prosperi, che sta traghettando l’istituzione verso un nuovo assetto del Movimento, secondo Statuti che devono essere riscritti e sono in fase di revisione.
Rocco Buttiglione
Francesco, in altre parole, ha voluto impedire che la dottrina della “successione del carisma” [1], contraria agli insegnamenti della Chiesa, si radicasse in seno alla Fraternità di CL [2].
Il carisma del fondatore Giussani, cioè, non deve essere trasmesso ai fedeli tramite una successione personale tra lui e Carrón, che quindi non potrà mai essere considerato l’unico interprete della spiritualità ciellina.
Lettera di Papa Francesco del 1° febbraio
La questione stava talmente a cuore al Papa che l’ultimo scritto importante di Bergoglio, prima del ricovero all’ospedale Gemelli, fu proprio una lettera del 1° febbraio scorso indirizzata al professor Davide Prosperi nella quale facendo riferimento alle “problematiche che si sono manifestate nell’ultimo decennio in seno al Movimento di CL” disponeva la prosecuzione del suo mandato per altri cinque anni, alla guida della Fraternità.
Comunione e Liberazione in questi anni è stata segnata da una profonda lacerazione interna. Giussani nel designare Carrón come suo successore avrebbe agito conferendogli una investitura. Alcuni ciellini l’hanno creduta e tutt’ora la credono profetica e quindi voluta da Dio, altri invece sono più aperti a metterla in discussione in un’ottica di rivisitazione del carisma secondo i cambiamenti della storia.
Bergoglio ha voluto scardinare la credenza dei primi, riportando il Movimento all’interno dell’ortodossia, per impedirne una deriva autoreferenziale, ritenuta pericolosa e contraria agli insegnamenti della chiesa.
Fatto sta che la Lettera di Buttiglione non è piaciuta a molti, tra questi spicca il teologo Andrea Grillo che sui social scrive parole severe nei suoi confronti. Eccole:
23/04/2025 ore 19,20 Cadute di stile
Rocco Buttiglione, come Presidente della Accademia dei Leaders Cattolici, invia lettere a Cardinali per screditare Francesco prima ancora del funerale. Un atto volgare e sporco, dal quale anzitutto i cardinali, con tutto il popolo di Dio, si sentono offesi. Vorrei pregare i cardinali di tenersi bene alla larga da questi “leaders” senza scrupoli.
23/04/2025 ore 19,38 La lettera scandalosa
Il giorno stesso della morte di papa Francesco, Rocco Buttiglione ha spedito questo testo a numerosi cardinali. Il giorno stesso! Se fossi in lui mi chiuderei in casa per diverso tempo, a meditare sulla vita e sulla morte.
23/04/2025 ore 22,53 Leaders turpi
Un leader cattolico, che ha fatto della fede una questione vitale, che il giorno in cui muore il papa si affretta a scrivere una lettera per denigrare il papa appena defunto, non fa una cosa inopportuna. Fa una cosa umanamente turpe e cristianamente blasfema.
Emanuela Provera donnadrusilla@gmail.com X @dentrolod
[1]n ambito cristiano il termine “carisma” è considerato un dono soprannaturale concesso da Dio a una persona, a vantaggio di una intera comunità; secondo la Chiesa cattolica quindi anche don Luigi Giussani, come tanti, è dotato di “carisma”.
[2] La “Fraternità” di CL nasce nel 1954, e raccoglie in sé gruppi di “adulti responsabili” che ricevono, nel Movimento, una formazione spirituale specifica per sviluppare forme di apostolato missionario nel mondo, ovunque i Vescovi cattolici ne richiedano il supporto. Più recentemente i vari gruppi si sono organizzati in una Associazione denominata: “Fraternità di Comunione e Liberazione”.
Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus
29 aprile 2025
Il ministero della Salute ugandese, con il supporto dei partner, ha distribuito 2,278 milioni di dosi di vaccini contro la malaria. I farmaci salvavita sono stati consegnati in 105 distretti ad alta e moderata trasmissione della pericolosa malattia.
Le vaccinazioni sono iniziate nel distretto di Apac, nel centro nord dell’Uganda. Questa è un’area con il più alto numero di punture di zanzara: oltre 1.500 per persona all’anno.
Il video del World Malaria Day 2025 (Courtesy: Ministry of Health, The Republic of Uganda)
Prevenzione efficace
“L’introduzione del vaccino segna una pietra miliare significativa nella nostra lotta contro la malaria – ha affermato la ministra della Salute, Jane Ruth Aceng Ocero -. “Si prevede che quotidianamente preverrà almeno 800 casi di malaria grave tra i bambini”.
La malattia pesa anche sulle finanze delle famiglie. Per la cura in caso di malaria grave spendono circa 15.000 scellini (3,60 euro), un elevato peso economico. Una cifra che corrisponde al circa il 15 per cento del reddito familiare.
Il vaccino R21/Matrix-M
Il farmaco contro la malaria utilizzato nell’ex colonia britannica è il R21/Matrix-M. Viene somministrato in quattro dosi a 6, 7, 8 e 18 mesi, e sarà inizialmente destinato a 1,1 milioni di bambini di età inferiore ai due anni.
L’immunizzazione contro la malaria viene effettuata con il sostegno di Vaccine Alliance (Gavi) e dei partner UNICEF, Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO-OMS) e PATH e R21/Matrix-M è il secondo vaccino approvato dall’OMS dopo RTS-S (Mosquirix) autorizzato nel 2015. Il Mosquirix, dal 2019, è stato utilizzato anche in Kenya, Camerun, Sud Sudan, Ghana e Malawi
“L’arrivo del vaccino contro la malaria segna un importante passo avanti nella ricerca contro la malattia” – ha dichiarato Julia Mwesigwa, responsabile della ricerca presso PATH -. “Il farmaco usato con altri strumenti di prevenzione della malaria esistenti, si prevede che cambierà le carte in tavola. Riduce significativamente la mortalità e la morbilità infantile”.
Come si sviluppa la malaria
Malattia letale
Secondo dati OMS del 2023, la malattia, chiamata anche paludismo, in Uganda è responsabile del 22 per cento ricoveri ospedalieri e del 6 per cento dei decessi. Nello stesso anno, l’ex colonia britannica era tra i primi cinque Paesi africani con il maggior numero di casi di malaria. Gli altri sono Nigeria, Repubblica Democratica del Congo (Congo-K), Etiopia e Mozambico.
La zanzara Anofele mentre succhia il sangue, con la saliva veicola il Plasmodium falciparum. Questo parassita è il più pericoloso dei quattro Plasmodium che negli esseri umani trasmettono la malaria.
Il paludismo è la più diffusa fra tutte le parassitosi. Il suo quadro clinico di malattia febbrile acuta si manifesta con segni di gravità diversa a seconda della specie infettante.
La malaria è la principale causa di malattia e morte dei bambini in Uganda. Si stima che in tutto il Paese ogni anno provochi 12,6 milioni di casi e 16 decessi al giorno.⁶
Areale della zanzara Anofeles
Seicento mila morti all’anno
I casi di malaria nel mondo, nel 2023 secondo dati dell’OMS, sono stati 263 milioni. I decessi quasi 600.000 in 83 Paesi. La maggior parte delle vittime però sono in Africa: il 94 per cento dei casi e il 94 per cento dei morti. Soprattutto bambini sotto i cinque anni.
Il Plasmodium, ha una grande capacità di adattamento. Questa caratteristica, purtroppo, rende inefficaci tutti i farmaci contro la malaria utilizzati fino ad oggi.
Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
27 aprile 2025
Ha deciso di non bere e ha vinto. Tutti i più pericolosi rivali hanno rallentato per rifornirsi d’acqua. Lui no, è scattato e si è involato verso il traguardo. Dove è arrivato solo, soletto in 2h02’27” con 70 secondi di vantaggio sull’immediato inseguitore. Era il 30° km, ne mancavano 12 (e 195 metri) all’arrivo sul vialone (The Mall) che parte da Buckingham Palace.
Il keniano Sabastian Kimaru Sawe, vincitore della London Marathon 2025
È maturato così il trionfo di Sabastian Kimaru Sawe, 30 anni, kenyano di Kapsabet, nella maratona di Londra disputatasi domenica mattina, 27 aprile, in uno dei giorni più caldi (20 gradi) nella storia di questo evento numero 45.
Vittoria grazie a borraccia piena
“La borraccia d’acqua poteva aspettare – ha commentato Sawe quando finalmente si è dissetato all’arrivo – Ho capito di aver un’opportunità di spingere e l’ho fatto”. “Sebastian Sawe è un uomo di poche parole, ma di molti fatti”, scrisse di lui il giornalista Tony Kipkorir.
Re della maratona
Con il successo londinese, gli esperti considerano Sabastian Sawe “il nuovo re incontrastato della maratona (fonte runnersword.com) che contribuisce a mostrare i caratteri e la peculiarità della nuova generazione di maratoneti che sta riscrivendo la storia della corsa”.
Nonostante il suo talento, sono pochissime le persone che conoscono la storia di Sawe e che hanno avuto un ruolo cruciale nella sua carriera.
Nel dicembre 2024 aveva dominato la gara di Valencia, nel 2023 ha vinto la medaglia d’oro per il Kenya ai primi Campionati mondiali di corsa su strada, svoltisi a Riga, in Lettonia. Nel 2022 si era fatto notare in Italia finendo primo alla mezza maratona di Ostia.
Istruzione prima di tutto
Domenica a Londra, alla seconda maratona della carriera, ha segnato il secondo tempo più veloce nella storia dell’evento inglese. Il fatto sorprendente è anche che nella seconda metà della gara ha impiegato mezzo minuto meno della prima.
Eppure, per l’atleta kenyano “Il mio primo obiettivo è sempre stata l’istruzione, poi la corsa. Penso che il segreto sia l’addestramento e la disciplina e la fiducia nei propri mezzi”. A instillargli questi principi – confessò Sabastian in un’intervista a SportPesa News,- è stato suo zio Abraham Chepkirwork.
Zio ex atleta ugandese
“Mio zio era un ex atleta ugandese. Ha fatto molto per aiutarmi a raggiungere il mio obiettivo. Quando ho iniziato a correre, mi regalava i kit per l’allenamento, mi motivava e mi sosteneva sempre, spingendomi a impegnarmi, a essere paziente e disciplinato”.
La schiacciante vittoria di Londra, premiata con 55mila dollari (o 44mila sterline) quindi viene da lontano ed è ancor più rilevante se si guarda l’ordine d’arrivo: secondo si è classificato un giovane fuoriclasse, l’esordiente Jacob Kiplimo, 24 anni, ugandese di Kween (recordman della mezza maratona), 30 mila dollari per lui; al terzo posto (22.500 dollari) si è piazzato l’altro kenyano Alexander “Alex” Mutiso Munyao, 28 anni, campione uscente. Munyao ha chiuso in 2:04:20 e superando in volata Abdi Nageeye, 36 anni, olandese nato a Mogadiscio, medaglia d’argento olimpica di Tokyo e campione della maratona di New York (2024).
Il campione olimpico a Parigi nel 2024, l’etiope Tamirat Tola, (chiamato anche l’asso a cinque cerchi,) si è classificato quinto in 2:04:42. Non ha finito di stupire Eliud Kipchoge, giunto sesto col tempo di 2:05:25, all’età di 40 anni. Eliud è il mito del Kenya: il più grande di sempre, già record del mondo, due volte olimpionico e vittorioso a Londra per 4 volte. E’ sempre molto saggio. “Lascio Londra motivato e felice – ha commentato – Nello sport, come nella vita, non ogni tentativo si trasforma in vittoria, ma ognuno ha un suo valore”.
Un’etiope domina gara femminile
In campo femminile, diversamente dallo scorso anno, quando il Kenya realizzò la doppietta uomo-donna, stavolta a dominare, letteralmente, è stata l’etiope ex primatista del mondo, Tigist Assefa, 28 anni, in 2h15’50”.
L’etiope Tigist Assefa vince la gara femminile della London Marathon 2025
L’etiope si è lasciata alle spalle (quasi tre minuti di distacco) la kenyana Joyciline Jepkosgei, 31 anni (prima nel 2021). Assefa però ha consumato una sua vendetta lungamente covata nei confronti della terza, Sifan Hassan, 32, etiope naturalizzata olandese, dalla quale era stata sconfitta ai Giochi di Parigi. Una soddisfazione malcelata, quella di Assefa, che, infatti, dopo essersi fatta tre volte il segno della croce e aver baciato la terra, ha dichiarato: “Quando ho tagliato il traguardo ho provato una felicità estrema: ero davvero molto felice. Sentivo di poter vincere. L’importante era prepararsi bene, ed è quello che ho fatto”.
Seconda donna più veloce
Una felicità immensa: sui 42 km si è rivelata la seconda donna più veloce di sempre. E il suo crono diventa il nuovo primato del mondo in una gara solo femminile, senza aiuti, cioè, di atleti uomini. A questo proposito, giusto rendere onore anche all’italiana Sofia Yaremchuk, 30 anni, atleta dell’Esercito: è giunta settima e ha firmato il nuovo record italiano: 2h23’14”.
Dal Nostro Esperto di Questioni Militari Antonio Mazzeo
26 aprile 2025
L’Italia rafforza la partnership militare con il Mozambico puntando gli occhi alle imponenti risorse energetiche del Paese africano. Dall’8 al 12 aprile 2025 il porto di Maputo ha ospitato la fregata FREMM “Luigi Rizzo” della Marina Militare, unità specializzata nella guerra anti-sottomarini.
La fregata Luigi Rizzo della Marina militare italiana in Mozambico
La fregata italiana proveniva dalle acque antistanti la città di Mombasa, Kenya, dove aveva partecipato ad esercitazioni con alcune unità della Marina keniota, nell’ambito della missione europea EUNAVFOR Atalanta di “pattugliamento e protezione dei traffici marittimi” nell’area del Corno d’Africa e dell’Oceano Indiano.
“La presenza della fregata Luigi Rizzo a Maputo ha consentito di rafforzare le relazioni militari tra Italia e Mozambico”, annota il sito specializzato sudafricano Defenceweb.
Durante la visita è stato sottoscritto un accordo di cooperazione bilaterale nel settore della difesa, secondo quanto annunciato giovedì 10 aprile dai rappresentanti del corpo diplomatico italiano nella capitale mozambicana.
“L’accordo, coincidente con il 50° anniversario dei legami diplomatici tra i due Paesi, prevede l’addestramento congiunto, lo sviluppo delle capacità e la potenziale espansione ad altri settori delle forze armate”, spiega Defenceweb.
Minacce marittime
“L’accordo – aggiunge il sito sudafricano – punta a rafforzare l’abilità dei militari del Mozambico nel contrastare le minacce marittime come la pirateria e i traffici illegali, con il sostegno della Marina italiana che recentemente ha sventato due attacchi dei pirati nella regione del Corno d’Africa”.
Lo Stato Maggiore della Marina italiana ha reso noto che nel corso della visita in Mozambico, la FREMM “Luigi Rizzo” ha effettuato alcune dimostrazioni nella baia di Maputo congiuntamente ad unità da guerra locali, mostrando tecniche di “interdizione navale” e contrasto della pirateria, a “protezione” delle rotte commerciali marittime.
“Vogliamo rafforzare le capacità operative della Marina del Mozambico per rendere le sue acque più sicure, raddoppiando gli sforzi per proteggere l’Oceano Indiano, vittima di episodi di pirateria, che aumentano l’insicurezza nella regione”, ha dichiarato ad Agenzia Nova il contrammiraglio Davide Da Pozzo, comandante dell’operazione EUNAVFOR Atalanta.
“Stiamo sviluppando programmi di partnership nei Paesi che visitiamo per garantire il successo delle attività; da metà 2009 ad oggi la missione europea ha prodotto risultati efficaci e negli ultimi anni si sono verificati solo tre episodi di pirateria”, ha aggiunto Da Pozzo.
Episodi di pirateria
L’addetto militare italiano in Mozambico, il colonnello Franco Linzalone, ha reso noto a conclusione della missione della fregata che con i nuovi accordi militari sottoscritti, il personale delle forze armate mozambicane “potrà beneficiare di attività di addestramento e di rafforzamento delle capacità in Italia, oltre ad azioni di scambio di esperienze”. Già in passato i militari del Mozambico hanno svolto corsi di formazione specifica in territorio italiano.
L’Italia partecipa alla Missione di assistenza militare dell’Unione europea EUMAM in Mozambico, che ha lo scopo di addestrare, assistere ed equipaggiare le forze armate e di sicurezza del Mozambico impiegate contro le milizie armate islamico-radicali nella regione settentrionale di Cabo Delgado.
I vertici militari di EUMAM hanno effettuato una visita di “cortesia” a bordo della fregata italiana in sosta a Maputo per uno scambio di esperienze con la missione europea anti-pirateria. EUMAM è stata prorogata recentemente fino al 20 giugno 2026.
Accordo tecnico
L’accordo tecnico di Cooperazione Navale tra Italia e Mozambico è stato firmato il 30 gennaio 2014 dall’allora Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio Giuseppe De Giorgi ed il Capo di Stato Maggiore della Marinha mozambicana, Lazaro Menete. In quell’occasione fu dislocato per circa due mesi nelle acque di Maputo, il pattugliatore d’altura “Comandante Borsini”. Un anno e mezzo fa (prima metà di ottobre 2023) un’altra unità da guerra della Marina italiana, il cacciatorpediniere “Durand de La Penne” si era recato in visita nella capitale mozambicana. In quell’occasione fu ospitata a bordo la Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni.
Il cacciatorpediniere Durand de La Penne della Marina militare italiana
“La tappa a Maputo della nave Durand de La Penneè stata l’occasione per ribadire l’impegno nazionale nella collaborazione con le Forze Armate della Repubblica del Mozambico”, riportò in nota il Comando della Marina italiana. “L’unità ormeggiata ha fatto da cornice agli incontri bilaterali previsti dal Piano di Cooperazione in atto tra le Marine militari di Italia e Mozambico, condotti dalla delegazione del 3° Reparto dello Stato Maggiore”.
In particolare è stato avviato un programma di collaborazione che riguarda il settore dell’Idrografia e delle capacità per le Operazioni di interdizione marittima. La Marina dello Strato africano ha pure aderito al VRMTC (Virtual Regional Maritime Traffic Center), il centro realizzato presso il Comando in Capo della Squadra Navale (CINCNAV) di Santa Rosa, Roma, per il controllo e la gestione della sicurezza nell’area del Mediterraneo, del Mar Nero, del Golfo di Guinea e dell’Oceano Indiano.
Programma addestrativo
“Durante la sosta, sono continuate a bordo le attività addestrative e capacity enhancement a favore del team di Fuzileiros de Marinha, imbarcato dal 5 al 19 ottobre 2023: si tratta di una unità di fanteria specializzata mozambicana, già obiettivo del programma addestrativo condotto dalla missione militare europea in Mozambico, che ha condotto un intenso periodo di cooperazione con il personale della Brigata Marina San Marco”, ha specificato lo Stato Maggiore.
Sempre a bordo del cacciatorpediniere si sono tenute sessioni addestrative a favore di un team di sommozzatori mozambicani e anche un corso di formazione specialistico sulla “medicina da campo in teatri operativi” a favore degli studenti dell’organizzazione non governativa CUAMM (Collegio Universitario Aspiranti Medici Missionari) per l’Africa.
Come ha sottolineato il sito specializzato Defenceweb, la recente visita della fregata “Luigi Rizzo” ha “posto i riflettori sul maggiore investimento italiano in Mozambico”: il progetto Coral Norte di ENI per la produzione offshore di Gas Naturale Liquefatto (GNL), valore 7,56 miliardi di dollari, nel bacino di Rovuma, nella provincia di Cabo Delgado. Questo progetto è “gemello” di Coral Sul, anch’esso nelle acque ultra- profonde del bacino Rovuma. L’8 aprile 2025, il giorno stesso dell’arrivo a Maputo dell’unità della Marina italiana, il Gruppo ENI ha “celebrato” la spedizione del 100° carico di GNL prodotto dagli impianti della Coral Sul.
Joint venture
Questi ultimi hanno una capacità di liquefazione di gas di 3,4 milioni di tonnellate all’anno. L’area di estrazione è gestita per il 70 per cento da Mozambique Rovuma Venture S.p.A., una joint venture di proprietà di ENI, ExxonMobil e China National Petroleum Corporation (CNPC); il restante 30 per cento è gestito dalle società Enh, Galp e Kogas.
ENI ed ExxonMobil hanno formato un consorzio per lo sfruttamento del gas a Cabo Delgado
Gli impatti socio-ambientali e sul clima dell’impianto Coral Sul al largo delle coste mozambicane è stato stigmatizzato dal report “Fiamme Nascoste” presentato a Roma il 26 marzo scorso dall’associazione ReCommon.
Dall’analisi dei dati pubblici e delle immagini satellitari esaminati dall’associazione e dai suoi consulenti, si evince che l’impianto per l’estrazione e liquefazione di gas sarebbe stato “protagonista di numerosi fenomeni di flaring dall’inizio della sua attività nel 2022, non adeguatamente riportati dall’azienda petrolifera”.
Proteste ambientaliste
Il flaring consiste nella pratica di bruciare in torcia il gas in eccesso estratto insieme ad altri idrocarburi, che ha impatti rilevanti sul clima, l’ambiente e – in prossimità di centri abitati – sulle persone.
“Solo fra giugno e dicembre 2022, le operazioni di flaring avrebbero comportato lo spreco di 435.000 metri cubi di gas, equivalente a circa il 40% del fabbisogno annuo del Mozambico”, scrive ReCommon.
“Gli episodi si sono ripetuti anche in numerose altre giornate negli anni successivi”, lamenta l’associazione ambientalista. “Per esempio nella giornata del 13 gennaio 2024, secondo le stime basate su dati NASA, per ogni ora di flaring l’ENI avrebbe mandato in fumo tanto gas quanto una famiglia media italiana consuma in 8 anni e mezzo”.
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
25 aprile 2025
Da dieci giorni il Sudan è entrato nel terzo anno di guerra. Ora i riflettori dei maggiori media si sono nuovamente spenti sull’ex protettorato anglo-egiziano, eppure in questo travagliato Paese si continua a morire. E non solo sotto le bombe, anche di stenti, fame e sete.
Sudan: Sfollati in fuga senza cibo
I contrasti tra le due fazioni, le Rapid Support Forces (RFS), capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, da un lato e le Forze armate sudanesi (SAF) capitanate da Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, non tendono a placarsi. Dall’inizio del conflitto oltre 12,4 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case, tra questi 3,4 sono fuggiti nei Paesi limitrofi.
Khartoum sotto tiro
Alla fine di marzo i governativi si sono nuovamente impossessati di Khartoum, tuttavia da ieri la capitale è nuovamente sotto tiro delle RFS. Fonti militari hanno confermato che i paramilitari hanno bombardato il quartier generale delle forze sudanesi con artiglieria pesante. Gli ordigni sono stati sparati da Salha, periferia a sud-ovest di Omdurman, città gemella della capitale, sull’altra sponda del Nilo. Lì i ribelli sono riusciti a mantenere una postazione di armi pesanti.
Zamzam distrutto
Ma la guerra continua anche altrove, specie in Darfur. Vicino Al-Fashir, al capoluogo del Darfur settentrionale, centinaia di civili, tra loro anche 12 operatori umanitari, sono stati ammazzati durante spietati bombardamenti sul campo per sfollati di Zamzam.
Senza pietà, senza rispetto per la vita umana, è stato colpito persino l’ospedale del sito. I racconti dei sopravvissuti sono drammatici: “Siamo fuggiti solo con quello che avevamo addosso e i nostri bambini, il bene più prezioso”.
Zamzam, che prima degli ultimi attacchi ospitava quasi 400.000 sfollati, ora è praticamente vuoto. Secondo le Nazioni Unite, oltre 330.000 persone sono scappate dopo la distruzione di gran parte delle infrastrutture e del blocco dei camion cisterna dell’acqua.
Morti per fame e sete
Noah Taylor, responsabile delle operazioni in Sudan del Consiglio Norvegese per i Rifugiati, ha raccontato ai reporter della BBC che molti sfollati sono rimasti senza cibo durante la fuga. C’è chi ha masticato foglie per ingannare il senso di fame. Ma una volta arrivati a Tawila (città nel Darfur settentrionale che dista una sessantina di chilometri dal campo di Zamzam) parecchi sono morti di stenti. Altri, invece, sono crollati strada facendo, completamente disidratati a causa delle alte temperature e la mancanza di acqua.
Taylor ha poi aggiunto: “Ci hanno riferito che lungo la strada tra Al-Fashir e Tawila ci sono ancora parecchi cadaveri”.
Violenze sessuali e reclutamenti forzati
Secondo alcune agenzie umanitarie, violenze sessuali e reclutamenti forzati sono in forte aumento, in particolare da parte dei paramilitari guidati da Hemetti.
Alla fine di novembre, come già riportato da Africa-ExPress, in mezzo al deserto tra Libia e Sudan, una quarantina di mercenari colombiani sono caduti in un’imboscata, tesa da combattenti alleati dell’esercito sudanese (SAF). I colombiani facevano parte di un convoglio che trasportava anche armi. Il dispiegamento dei sudamericani è stato possibile grazie all’aiuto delle autorità di Abu Dhabi e del generale libico ribelle Khalifa Haftar e del suo clan da sempre vicini alle RFS, i paramilitari sudanesi.
Ordigni made in Bulgaria
Il coinvolgimento delle autorità di Abu Dhabi, che l’hanno sempre negato, è stato scoperto per puro caso dai giornalisti dell’emittente France 24 che sono riusciti a identificare gli ordigni bellici trasportati sui camion provenienti dalla Libia.
Ordigni bulgari ritrovati nel deserto tra Libia e Darfur, Sudan (Photocredit France24)
I reporter hanno rivelato che si tratta di proiettili da mortaio, destinati ai paramilitari di Hemetti, prodotti dall’azienda bulgara Dunarit, poi venduti agli Emirati Arabi Uniti. La vendita del materiale bellico è stata autorizzata dalla Commissione interministeriale per il controllo delle esportazioni di armi di Sofia, visto che il destinatario, cioè gli EAU, non è sotto sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Coinvolgimento EAU e Libia
La società emiratina, un’azienda pubblica, International Golden Group, ben nota per le sue implicazioni in dirottamento di armi verso Paesi sottoposti a embargo, è stata menzionata nei documenti della Dunarit come “importatrice” verso l’EAU. Nel 2016, 2022 e 2023, il suo nome è stato associato alle violazioni dell’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia.
Proiettili da mortaio made in Bulgaria, Stato membro dell’Unione Europea, sono stati utilizzati per colpire edifici pubblici, mercati, ospedali, uccidendo migliaia di civili sudanesi. E poiché i ribelli sudanesi dell’RSF sembrano alleati delle milizie paramilitari russe dell’Africa Corps, c’è da supporre, senza necessariamente avere una grande fantasia che il materiale bellico prodotto da un Paese NATO potrebbe essere finito anche in mano anche agli arcinemici russi. Più la gente muore, più i fabbricanti d’armi guadagnano.
Africa ExPress pubblica opinioni
provenienti da una vasta gamma
di prospettive al fine di promuovere un dibattito
costruttivo su questioni importanti.
OPINIONE Angelo d’Orsi 25 Aprile 2025
Sono almeno dieci-quindici anni che la russofobia – che è paura del mondo russo, ma anche la sua espunzione dalla “civiltà” – ci sta ammorbando, sta ottenebrando le nostre menti, sta condizionando i nostri pensieri, indirizzandoci anno dopo anno, giorno dopo giorno, verso la possibilità di un conflitto armato contro Mosca.
Dal 2022 quella possibilità è diventata, nelle parole irresponsabili di gran parte della classe politica euro-occidentale, una necessità alla quale, presto o tardi, dovremmo sottostare.
Vladimir Putin, presidente Russo
E in un crescendo spaventoso, dopo l’arrivo di Donald Trump alla White House, con le sue promesse di porre termine al conflitto in Ucraina (NATO vs. Federazione russa combattuto sul suolo ucraino ma anche sempre di più in territorio russo), ormai la guerra, una guerra totale tra Europa/Occidente e Russia/Oriente ci viene presentata non soltanto come necessità, ma come necessità inderogabile e urgente.
Tre Stati in difficoltà
Un asse a tre, franco-anglo-tedesco, ossia di tre Stati in gravi difficoltà politiche ed economiche interne, si è costituito per aggredire l’Orso russo, preannunciando un destino di morte per l’intera Europa, atto finale del suicidio dell’Occidente.
La novità legata a Trump, non è soltanto una inaspettata e grottesca accelerazione della crociata antirussa, da parte degli europei – quasi tutti i leader della UE – proprio nel momento in cui si cerca una via di tregua, e di pace, per la prima volta dopo i tentativi di arrivare ad un accordo fermati dall’Amministrazione Biden due anni or sono.
La novità ulteriore è che nell’orgia bellicistica noi occidentali, noi bianchi, noi dominatori che sentiamo minacciato il nostro dominio, avendo smarrito l’egemonia planetaria, allarghiamo la platea dei nemici, e alla Russia aggiungiamo la Cina.
Asse euroatllantico
Ed ecco ricompattarsi in qualche modo l’asse euroatlantico (USA-UE), contro il “pericolo giallo”. È curioso, anzi, che quando Trump tenta di riaprire il canale di dialogo con Putin, gli europei si scandalizzino e urlino “Traditore!”. Quando invece il medesimo Trump sbraita contro la Cina ecco i nostri politici pronti a seguirlo e incoraggiarlo, del tutto ignari di una realtà: il sogno di una parte cospicua della leadership “bianca”, al di qua e al di là dell’Atlantico, rischia, a maggior ragione, di trasformarsi in incubo.
Questo non soltanto perché la Repubblica Popolare Cinese è a un passo dall’essere la prima superpotenza economica del Pianeta (ultimo tasso di sviluppo registrato in queste settimane è del 5,4%), ed è già in testa alla produzione e alla ricerca sul piano della ricerca scientifica e tecnologica (in una classifica appena resa nota sulle città scientifiche del mondo, troviamo ai primi posti Shangai e Pechino); ma soprattutto perché grazie a scelte demenziali dei nostri governanti europei, abbiamo spinto la Russia verso l’abbraccio con la Cina.
Xi Jinping, presidente della Cina
Come si può essere più stolti? E come si può immaginare un conflitto con queste due superpotenze, tanto più in una fase storica di annunciato pur parziale disimpegno statunitense dal ruolo di “protettore” degli europei?
Aumento spese belliche
Un disimpegno che peraltro non rinuncia a chiederci, con i modi bruschi e semplicemente cafoneschi di Donald, a imporci un aumento della spesa militare, e di conserva una pari riduzione delle spese sociali: in sintesi, un’accelerazione del passaggio in corso da anni dell’Europa dal welfare al warfare.
Ed è a dir poco sconfortante la piaggeria con cui la nostra “capa” del governo dopo essersi genuflessa a Donald, abbia accolto in posizione altrettanto piegata, il suo vice Vance, praticamente offrendo persino più di quello che Uncle Sam chiedeva.
Soldi per armi, acquisto gas (GNL, che costa 4 volte il gas naturale russo), acquisto armi, investimenti negli USA, e non so cos’altro. Un magnifico esempio di “sovranismo”…
Paravento politico
In tale scenario, noi cittadini dobbiamo subire tacendo? Per nostra fortuna cento fuochi si accendono in tutto il Continente, e oltre, dentro e fuori dei confini della UE che altro non è, ormai, che il paravento politico della NATO.
Per fortuna del Pianeta sono nati i BRICS, un’alleanza commerciale stabile tra alcuni dei maggiori Stati della Terra, un’alleanza che è a un passo dal diventare anche politica e probabilmente militare. Mettersi contro la Russia, e la Cina, oggi implica il rischio di un incendio planetario.
È questo che l’umanità e la Terra tutta, intesa come organismo vivente che ha urgente necessità di cure, desidera? È questo di cui alcuni miliardi di poveri hanno bisogno?
Gli intellettuali e le masse
Spetta agli intellettuali aiutare le masse, proprio a cominciare da quelle deprivilegiate, a prendere coscienza del pericolo in cui versiamo e a farle ritornare protagoniste della storia, attrici della contemporaneità,
Dunque, siamo in un tornante storico pericolosissimo, ma, proprio perciò, in fondo, questo tornante è aperto a innumerevoli possibilità. Inevitabile citare il presidente Mao Zedong: “Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente”.
Angelo d’Orsi* angelo.dorsi@unito.it
*Allievo di Norberto Bobbio con cui si è laureato in Filosofia del Diritto. Ancora prima aveva già pubblicato due libri, La macchina militare (1971) e La polizia (1972) che hanno contribuito alla democratizzazione delle forze armate e delle forze di polizia e aperto la via a leggi sull’obiezione di coscienza e sulla smilitarizzazione della Polizia. Sul tema dell’antimilitarismo e del pacifismo si è impagnato con Aldo Capitini, scrivendo sulle sue riviste. Ha collaborato con vari atenei italiani e svolto corsi in Brasile (varie università), Parigi (Sorbona, Sciences Po, EHESS, Paris XII…), tenuto seminari e conferenze in diverse nazioni europee (Francia, Svizzera, Germania, Belgio, Spagna), e in America Latina (Messico, Brasile, Venezuela). Si è impegnato in diverse azioni di contrasto alla guerra con saggi, articoli, pubbliche conferenze, convegni, manifestazioni di piazza, anche fuori d’Italia. E’ studioso di Gramsci cui ha dedicato gran parte della sua ricerca e del suo insegnamento.
Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
23 aprile 2025
John Korir sedeva ancora sui banchi di scuola, quando suo fratello Wesley nel 2012 si affermava nella più antica maratona del mondo, quella di Boston (Massachusetts).
Sharon Lokedi, all’epoca di poco più grande, aveva appena cominciato a studiare infermieristica ed economia.
Sharon Lokedi e John Korir, vincitori della Maratona di Boston (USA)
Scarpe con “le ali”
Entrambi kenyani, John e Sharon, hanno volato (con scarpe avveniristiche) sulle strade di Boston e hanno conquistato la 129° edizione della maratona americana, cui hanno preso parte oltre 30 mila runners (fra cui 350 italiani).
Ormai sembra diventata un affare di Stato (kenyano) e un affare familiare (sempre kenyano) la prestigiosa gara dei 42,195 km disputatasi il 21 aprile scorso (funesto giorno del lunedì dell’Angelo per la Chiesa, Patriot’s Day per gli americani).
John Korir, 28 anni, arrivato quarto due anni fa, ha avuto la soddisfazione di esultare sul podio più alto dove 13 anni fa era salito il suo (più) grande fratello, Wesley, oggi quarantaduenne.
Bonus 50mila dollari
Sharon Lokedi, 31 anni, ha stabilito il nuovo record della corsa con il tempo di 2h17’22” (con bonus di 50 mila dollari) ha allungato la serie dei successi femminili kenyani, ininterrotta dal 2001, e ha bruciato le speranze della connazionale Hellen Obiri, 35 anni, di vincere per la terza volta consecutiva la competizione.
Due successi sonanti per John e Sharon (150 mila dollari a testa per il primo posto), che alle spalle hanno altrettanti trionfi nelle più importanti maratone mondiali. Korir, infatti, ha conquistato la gara di Chicago nell’ottobre scorso, la Lokedi quella di New York nel novembre di due anni fa.
“Troppe volte sono arrivata alle sue spalle – ha commentato la vittoriosa Lokedi alludendo alla Obiri – stavolta però mi ero ripromessa che non doveva succedere. Devo lottare fino alla fine e vedere come va”.
Ispirato dal fratello campione
“Mio fratello Wesley mi aveva avvertito che il percorso da Hopkinton a Boston’s Copley Square sarebbe stato veloce, ma duro e mi aveva invitato a credere in me stesso – ha dichiarato John all’arrivo dove è giunto in 2h4’45” (il secondo tempo più veloce nella storia di questa maratona, ndr) –. Ho seguito il suo consiglio e ora siamo entrati nella storia”. All’arrivo è stato proprio Wesley a correre incontro al ‘fratellino’ e abbracciarlo, dopo aver fatto salti di gioia non appena si è reso conto che John sarebbe arrivato primo al traguardo storico di Boylston Street.
E pensare che la gara era cominciata male per il kenyano: alla partenza è inciampato e sembrava aver perso il pettorale. Lo ha tirato fuori dai pantaloncini mentre sprintava sul traguardo. “Qualcuno mi ha fatto cadere da dietro”, ha raccontato.
I fratelli John e Wesley Korir
I due fratelli, originari di Kitale, sono molto uniti e non solo nell’Atletica: Wesley Korir ha utilizzato parte del premio vinto a Boston nel 2012, per costruire un ospedale in Kenya. E John ha promesso di devolvere parte della sua vincita alla Transcend Talent Academy, una scuola senza scopo di lucro sponsorizzata dalla Kenyan Kids Foundation. L’istituto, che sorge a Cherangany, nella contea nordoccidentale di Trans-Nzoia, offre borse di studio ai bambini dotati, ma bisognosi.
Ex parlamentare
Wesley ha… corso anche per il Parlamento: è stato deputato dal 2013 al 2017. Laureatosi in Biologia negli Stati Uniti, si è impegnato sia nella scuola Transcend (nel 2014 è stato girato un omonimo documentario) sia per la sanificazione dell’acqua nel suo Paese, perché, è solito dire: “L’acqua è una medicina e se usiamo l’acqua pulita evitiamo l’80 per cento delle malattie”.
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