Il passaggio del ciclone Chido, che si è abbattuto ieri su Mayotte, ha lasciato dietro di sé distruzione e morte.
Mayotte, situata nel canale di Mozambico, è un dipartimento francese oltremare, ed è la più povera delle regioni d’oltralpe. Comprende due isole principali, Grande-Terre et Petite-Terre.
Ciclone Chido a Mayotte
Morti sepolti
Secondo il prefetto del dipartimento francese, François-Xavier Bieuville , sarebbero morte centinaia di persone, forse anche migliaia, anche se finora le vittime ufficiali sono solamente 11. Anche il ministro degli Interni francese dimissionario, Bruno Retailleau, teme che le perdite di vite umane possa essere davvero pesante.
Ma, sempre quanto riferito da Bieuville, “sarà difficile aver un bilancio definitivo, visto che secondo la tradizione musulmana, i morti devono essere seppelliti entro 24 ore dal decesso. E l’islam è molto diffuso nelle baraccopoli, quasi completamente divelte dal ciclone.
Soccorsi difficili
Il giorno dopo, 15 dicembre, la scena che si presenta nell’arcipelago è a dir poco apocalittica. Anche le scuole e gli ospedali sono stati colpiti, per non parlare delle povere case. “Il fenomeno non ha risparmiato nulla sul suo cammino”, ha spiegato il sindaco di Mamoudzou, Ambdilwahedou Soumaila. “La situazione degli abitanti delle baraccopoli è complicata, perché i servizi di emergenza non hanno potuto raggiungere la zona del disastro a causa dell’allerta viola” (cioè, evento meteorologico estremo, con conseguente pericolo di vita e notevoli danni a cose), ha aggiunto il sindaco.
Niente elettricità
Nel 101esimo Dipartimento francese manca la corrente elettrica quasi ovunque, anche le linee telefoniche funzionano a singhiozzo. “Mayotte è praticamente tagliata fuori dal mondo” ha riferito il gestore di un albergo all’emittente Mayotte 1ère.
Non solo Baraccopoli
Ma non sono state distrutti solo i quartieri poveri. Chido si è portato via anche i tetti di strutture solide, come quello del Consiglio di Dipartimento, il Consiglio di Contea, il municipio, l’aeroporto. Si possono contare gli edifici che sono rimasti indenni.
Sul molo che collega Petite-Terre a Mamoudzou, il cartello tricolore con la scritta “Mayotte è francese e lo rimarrà per sempre” non c’è più. Ma la Francia ha promesso il suo sostegno. Il nuovo primo ministro di Parigi, François Bayrou, ha affermato di “mobilitare tutte le risorse” dello Stato per affrontare la situazione.
Anche Emmanuel Macron, che oggi era in Corsica in occasione della visita del Papa, ha assicurato che il governo interverrà quanto prima.
Aero dell’aviazione militare francese porta i primi aiuti a Mayotte
Aiuti attivati
Parigi ha già attivato un ponte aereo e marittimo per portare personale e attrezzature di soccorso e acqua e cibo dall’isola francese di La Riunione a Mayotte.
Gran parte degli abitanti vive da sempre in condizioni precarie, non hanno ottenuto dalla Francia i benefici e il tanto sperato progresso.
Bisognosi da sempre
La povertà è endemica, le disuguaglianze sociali sono abissali. Le infrastrutture sono assolutamente insufficienti. La popolazione residente è passata da 40 mila nel 1978 a quasi 290.000 mila. Cifra sicuramente sottostimata. Il 50 per cento della popolazione è straniera, tra loro il 95 per cento proviene dalle vicine Comore, un terzo degli abitanti sono migranti “irregolari”.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 14 dicembre 2024
L’esercito francese ha iniziato il ritiro dal Ciad con due Mirage 2000. Gli aerei da combattimento hanno lasciato la base di Adji Kossei a N’Djamena già martedì scorso e sono volati in direzione Francia, accompagnati da un aero da rifornimento MRTT.
Due mirage2000 francesi lasciano la base in Ciad
Partenza immediata
Parigi non ha perso tempo a preparare i bagagli dopo l’annuncio a sorpresa del 28 novembre 2024 del governo ciadiano di voler interrompere quanto prima gli accordi di cooperazione di difesa e sicurezza con la Francia.
Inizialmente il ministro degli Esteri di N’Djamena, Abderaman Koulamallah, aveva fissato un termine di 6 mesi per il ritiro delle truppe di Parigi. Ma due giorni più tardi il primo ministro, Allamaye Halina, ha chiesto di accelerare la partenza. E così la Francia “sta obbedendo” agli ordini imposti dal governo ciadiano.
Commissione speciale
Mercoledì 4 dicembre, il Ciad ha istituito una commissione speciale per supervisionare la cessazione dell’accordo militare tra Parigi e N’Djamena, per un “ritiro ordinato degli impegni bilaterali”.
La commissione, presieduta dal ministro degli Esteri, ha il compito di “notificare ufficialmente alle autorità francesi la fine dell’accordo di cooperazione militare attraverso i canali diplomatici”, secondo un decreto firmato dal Primo Ministro.
Richiesta inaspettata
La decisione di voler mandare a casa i francesi, era stata annunciata poche ore dopo una visita del capo della diplomazia di Parigi, Jean-Noël Barrot. Tale comunicato ha sbalordito il governo francese, in quanto fino a pochi giorni prima non ci sono state contestazioni o critiche contro il contingente d’oltralpe.
Fine della collaborazione militare Ciad-Francia
Il Ciad, uno tra i Paesi più poveri al mondo, è ancora in fase di transizione politica, dopo la presa del potere di Mahamat Déby Itno nel 2020, alla morte del padre Idriss. Le contestate presidenziali del maggio scorso intendevano legittimarlo come capo dello Stato.
Profughi, sfollati, terroristi
Attualmente il Paese è ancora sotto attacco da parte del gruppo jihadista Boko Haram nel nord-ovest del suo territorio. Inoltre è invaso da un afflusso enorme di rifugiati dal vicino Sudan, in guerra da quasi 18 mesi. Per di più, i danni causati da una stagione delle piogge senza precedenti, ha provocato un’ondata di sfollati, più di 2 milioni.
Attacco dei terroristi Boko Haram in Ciad
Nei giorni scorsi nella capitale ciadiana si è tenuta una manifestazione a sostegno dell’interruzione della cooperazione militare con la Francia.
Come Mali, Burkina Faso e Niger – i tre Paesi del Sahel, governati da una giunta militare di transizione dopo i colpi di Stato – ora anche il Ciad ha messo alla porta i francesi.
Anche il presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, vuole chiudere la basi francesi nel Paese, dove attualmente sono presenti 300 militari d’Oltralpe.
No ai russi
Ma, al contrario dei suoi vicino golpisti (Burkina Faso, Mali e Niger) il ministro degli Esteri ciadiano ha affermato che dopo la partenza dei francesi non arriveranno altri militari stranieri nel Paese, compresi i russi.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
12 dicembre 2024
Ieri ministero delle Finanze e dello Sviluppo del Somaliland ha inaugurato nel porto di Barbara un centro per lo smistamento e il transito delle merci provenienti dall’Etiopia o destinate all’Etiopia.
Somaliland: porto di Berbera
Accesso al mare
Una tappa importante nel partenariato economico tra Somaliland ed Etiopia. Quasi un anno fa l’allora presidente del Paese, Musa Bihi Abdi, e il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, avevano siglato un Memorandum of Understanding (MoU) per l’utilizzo del porto di Berbera.
Da quando l’Eritrea ha ottenuto l’indipendenza, l’Etiopia è senza sbocchi al mare. Ha quindi chiesto e ottenuto da Hargeisa, in concessione per 50 anni, 20 chilometri di costa intorno al porto somalilandese, che si trova sul Golfo di Aden.
Autoproclamata indipendenza
Va ricordato che il Somaliland, ex colonia britannica ha proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 26 giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland), e, dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio dello stesso anno. Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione. Ma il suo governo non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto meno dalla Somalia.
L’autoproclamata Repubblica ha un proprio governo, una propria moneta e le proprie strutture di sicurezza. Tuttavia, non essendo riconosciuta da nessun Paese del mondo, l’accesso ai finanziamenti internazionali multilaterali e le possibilità di viaggiare dei suoi abitanti sono limitati.
Recentemente nel Somaliland si sono tenute le elezioni presidenziali vinte dal leader dell’opposizione, Abdirahman Mohamed Abdullahi. Durante la campagna elettorale il candidato poi eletto si era espresso in modo diplomatico sul MoU siglato tra i due Paesi.
MoU non ratificato
Visto che ora la collaborazione tra Addis Abeba e Harghesia sta facendo i primi passi, anche se l’accordo tra le parti non è stato ancora ratificato, pare evidente che il neopresidente abbia messo da parte le proprie iniziali riserve.
Abdiresheed Ibrahim, direttore generale del ministero del Commercio e del Turismo del Somaliland, ha sottolineato l’importanza di questa prima tappa: “Si tratta di una grande pietra miliare nei rapporti commerciali e di investimento tra i nostri due Paesi. Questo accordo dimostra l’impegno del Somaliland per rafforzare i partenariati regionali ed economici”.
Violazione sovranità
La Somalia sin dall’inizio ha considerato il MoU come una violazione della propria sovranità. La tensione tra Addis Abeba e Mogadiscio era salita alle stelle, tantoché la nostra ex colonia aveva persino minacciato di espellere le truppe etiopiche di stanza nel Paese per combattere i sanguinari miliziani al Shebab.
La Turchia è il principale alleato di Mogadiscio, con cui ha firmato un accordo di difesa marittima, e agisce come mediatore per ridurre le tensioni nel Corno d’Africa. E ieri ad Ankara è stato finalmente trovato un accordo tra Abiy Ahmed, primo ministro etiopico, e il presidente somalo, Hassan Cheikh Mohamoud.
In passato la Turchia ha agito anche in qualità di mediatore tra la Somalia e il Somaliland.
Da destra a sinistra: Abiy Ahmed, premier etiopico, Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia e il suo omologo somalo, Hassan Cheikh Mohamoud.
Accordo
“È la fine di un incubo, spero che sia il primo passo verso un nuovo inizio basato sulla pace e sulla cooperazione”, ha dichiarato Recep Tayyip Erdogan, dopo diverse ore di negoziati tra le parti.
I leader dei due Paesi hanno di fatto dichiarato di voler trovare accordi commerciali per consentire all’Etiopia “un accesso affidabile, sicuro e sostenibile da e verso il mare”.
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E’ terminata pochi giorni fa una nuova campagna di reclutamento per giovani kenioti desiderosi di andare a lavorare all’estero. Un’ iniziativa fortemente voluta dal governo di Nairobi per combattere l’elevata disoccupazione nella ex colonia britannica. William Ruto, presidente del Kenya, ha fatto sapere che è sua intenzione di inviare settimanalmente 5mila lavoratori in altri Paesi.
Dal 18 novembre al 6 dicembre le autorità competenti di Nairobi hanno organizzato in tutte le contee il reclutamento di giovani interessati a un’occupazione fuori dal continente africano. Il portavoce del governo, Isaac Mwaura, ha evidenziato che i richiedenti in possesso delle qualifiche richieste potranno andare a lavorare anche in Russia, Polonia, Giordania e in molti altri Paesi, compresa l’Arabia Saudita.
Accordo con Germania
Recentemente Nairobi ha siglato anche un accordo con Berlino, che ha accettato di far entrare in Germania lavoratori kenioti qualificati e semi-qualificati. Il Kenya ha enormi difficoltà nel fornire in patria lavoro e reddito sufficiente ai suoi giovani professionisti, mentre la Germania sta affrontando una carenza di manodopera qualificata.
Il 6 dicembre scorso le autorità del Kenya hanno espressamente invitato giovani donne a presentarsi per un colloquio di lavoro come bambinaie in Arabia Saudita. Il Paese del Golfo è alla ricerca di almeno 500 tate.
Alfred Mutua, ministro del Lavoro del Kenya, a sinistra e Brahmdev Sharma, addetto al reclutamento internazionale per l’Arabia Saudita
“Venite pulite e ben vestite ed esprimetevi in inglese perfetto”, ha precisato il ministro del Lavoro del Kenya, Alfred Mutua.
Il Kenya ha annunciato che solo tre settimane fa sono stati modificati gli accordi di lavoro con gli Stati del Golfo.
Moderna schiavitù
In parecchi Paesi arabi, molti lavoratori, specie per quanto riguarda i collaboratori domestici, come appunto le bambinaie, viene ancora applicata la Kafala. Tale norma vincola la residenza legale alla relazione contrattuale con chi li ha assunti. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro. Se un dipendente rifiuta, decide di abbandonare l’abitazione senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
Tale regolaequivale a una forma di moderna schiavitù. Per poter lasciare il Paese, tale meccanismo prevede un visto di uscita, per ottenerlo il datore di lavoro deve dare il suo benestare.
Numerosi abusi
Dunque ci sono dubbi sulle condizioni di lavoro degli africani negli Stati del Golfo. Un rapporto della Commissione per la giustizia amministrativa del Kenya, pubblicato nel 2023, segnala numerosi abusi: sfruttamento, confisca dei passaporti, violenze, stupri, e quant’altro. Tra il 2019 e il 2021, 90 cittadini kenioti sono morti in questi Paesi e sono state registrate quasi 2.000 richieste di soccorso.
La Commissione per la giustizia amministrativa chiede quindi un quadro giuridico migliore. Una proposta di legge sul lavoro dei connazionali all’estero è pendente in Parlamento di Nairobi da oltre due anni.
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Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes 9 dicembre 2024
Centinaia di mercenari colombiani sono stati arruolati con l’inganno per combattere in Sudan nei ranghi delle Rapid Support Forces del generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, gli ex janjaweed Il Paese sudamericano da cui arrivano i militari dista oltre 11.500 chilometri dall’ex protettorato anglo-egiziano.
Mercenario colombiano in Sudan
In mezzo al deserto
Alla fine di novembre, i mercenari, una quarantina, sono caduti in un’imboscata, tesa da combattenti alleati dell’esercito sudanese (SAF), in mezzo al deserto tra Libia e Sudan. I colombiani facevano parte di un convoglio che trasportava anche armi.
Alcuni di loro sono stati catturati dalle forze alleate governative, diversi altri sono stati uccisi. I passaporti dei colombiani sono comparsi in un video che è finito in rete.
Documenti di mercenari colombiani in Sudan
E, come riferisce il giornale online colombiano La Silla Vacía, i combattenti delle forze alleate sudanesi non hanno voluto credere ai propri occhi quando hanno scoperto l’identità delle persone che facevano parte del convoglio. “Ma sono colombiani – ha esclamato un sudanese, dopo aver ispezionato i passaporti -. E cosa ci fanno qui questi mercenari? Sono loro che continuano a uccidere la nostra gente?”
Salario 3 mila dollari
Sempre secondo il giornale sudamericano, gli ex soldati colombiani sarebbero stati reclutati a Bogotà dalla International Services Agency A4SI per la messa in sicurezza di infrastrutture petrolifere negli Emirati Arabi Uniti (UAE).
Il contratto con la società prevedeva un salario minimo di 3.000 dollari mensili. Molto per gli ex soldati messi a riposo dal governo. La loro pensione spesso non supera i 300 dollari.
UAE – Libia – Sudan
International Services Agency A4SI non ha mantenuto le clausole d’impiego circa la destinazione. Una volta giunti negli Emirati, i colombiani sono stati trasportati via Dubai o Abu Dhabi in Libia, dove sono stati presi in carica dai paramilitari delle RSF.
Pare che oltre 300 soldati di ventura provenienti da Bogotà stiano combattendo in Sudan accanto ai paramilitari sudanesi. Ma c’è chi sostiene che siano molti di più. Il dispiegamento dei sudamericani coinvolge le autorità di Abu Dhabi, Khalifa Haftar e il suo clan da sempre vicini alle RFS e naturalmente i paramilitari sudanesi.
I malcapitati colombiani, prima di andare sul fronte in Sudan, devono frequentare un corso di addestramento in un campo segreto di Haftar, nell’area di Bengasi, capoluogo della Cirenaica. Tutt’ora altri 120 aspiranti mercenari si trovano in Libia per la loro formazione, sembra però che 40 di essi si rifiutino di andare a combattere in Sudan.
Pratica vietata
La questione dei mercenari in Sudan è stata riportata ampiamente dai giornali locali del Paese sudamericano. Gustavo Petro, presidente della Colombia, ha scritto sul suo account X (ex Twitter) “Tale pratica deve essere vietata”.
Di fatto lo è già, secondo la Convenzione Internazionale dell’ONU del 2001 contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari.
Anche l’Unione Africana ha adottato clausole contro il mercenariato. Eppure soldati di ventura sono presenti in diversi Paesi del continente.
Scuse di Bogotà
Il governo di Bogotà si è scusato ufficialmente con Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, de facto presidente e capo dell’esercito del Sudan, per il coinvolgimento di connazionali nel conflitto.
Spediti a Mosca
Ex soldati colombiani sono stati reclutati come mercenari anche dall’Ucraina. Due di loro sono attualmente in una prigione moscovita.
Mercenari colombiani in Ucraina
Di ritorno dal fronte ucraino, dove avevano combattuto con le truppe di Kiev, i due mercenari avevano fatto uno scalo in Venezuela, perché il biglietto aereo costava meno su quella tratta. Una volta arrivati all’aeroporto di Caracas, sono stati arrestati dalla polizia venezuelana e rispediti a Mosca. Per giorni e giorni le famiglie sono rimaste con il fiato sospeso, perché non avevano più notizie dei loro congiunti.
Galera in Russia
Finalmente, dopo alcune settimane di totale silenzio, è stato scoperto che il Venezuela aveva spedito i poveracci in Russia senza avvertire i familiari. Il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha dimostrato così la sua lealtà verso Mosca, che aveva riconosciuto senza indugiare la sua rielezione.
Mentre Petro aveva preso immediatamente le distanze dal suo omologo venezuelano dopo le tanto contestate presidenziali della scorsa estate. E, alla fine di agosto, Mosca ha fatto sapere che i due colombiani sono rinchiusi in una galera russa e rischiano una condanna di 15 anni per aver combattuto come mercenari in Ucraina.
La Colombia ha vissuto un lungo conflitto armato e i militari hanno grande esperienza in fatto di combattimenti armati. Lo stesso vale per gli ex paramilitari e guerriglieri. Secondo gli esperti, sono circa 4.000 i mercenari colombiani coinvolti negli attuali conflitti. Recentemente Bogotà ha ammesso che in Ucraina sono morti una cinquantina colombiani.
Crisi umanitaria
Dall’aprile 2023 il Sudan è devastato da una terribile guerra civile tra i due generali Hemetti e al-Burhan. Decine di migliaia di persone sono morte in quasi 20 mesi di guerra, ma non solo sotto le bombe: anche per fame, perché gli aiuti umanitari tardano ad arrivare. Oltre 25 milioni di persone necessitano di aiuti alimentari, tra questi 755 mila sono in condizioni di fame acuta. Nel Paese si sta consumando la peggiore crisi umanitaria.
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Sabato scorso si sono svolte le presidenziali in Ghana. Il portavoce del partito NDC (National Democratic Congress), ha dichiarato ai giornalisti che il loro candidato, John Dramani Mahama, avrebbe intascato il 56,3 per cento dei voti. Il suo avversario, Mahamadu Bawumia (attuale vice-presidente e candidato per New Patriotic Party (NPP) invece, si sarebbe fermato al 41,3.
John Dramani Mahama, probabile vincitore delle presidenziali 2024 in Ghana
Ex presidente
Dunque secondo il conteggio di NDC, John Dramani Mahama sarebbe il nuovo presidente del Ghana. Il possibile nuovo leader è già stato alla guida del Paese dal 2012 al 2017.
Bawumia si è congratulato con Mahama per la vittoria. “Il popolo ghanese ha votato, ha scelto il cambiamento e lo accettiamo con tutta umiltà”, ha poi precisato il vice-presidente uscente.
Conteggio in corso
Bossman Asare, commissario aggiunto della Commissione elettorale ha però precisato che i conteggi dei voti sono tutt’ora in corso e i risultati definitivi non saranno disponibili prima di martedì mattina.
Crisi economica
La crisi economica che sta attraversando il Paese è stata protagonista di questa tornata elettorale. Il Ghana è primo produttore di oro in Africa e secondo di cacao al mondo, ma Accra deve far fronte a un’inflazione importante e a debiti piuttosto elevati.
Il governo uscente ha dovuto ricorrere al Fondo Monetario Internazionale per un prestito di ben 3 miliardi di dollari.
Il presidente uscente del Ghana, Nana Addo-Akufo
Bawumia ha tentato di traghettare il suo partito, l’NPP, verso un terzo mandato, ma non ha potuto evitare le critiche al bilancio economico del presidente uscente, Nana Akufo-Addo. Sebbene l’inflazione sia stata portata dal 50 per cento e oltre, al 23 per cento, e si siano stabilizzati altri indicatori macroeconomici, le difficoltà sul piano economiche sono rimaste un tema elettorale importante per molti cittadini.
Le votazioni si sono svolte pacificamente, anche se la polizia ghanese ha riportato che due persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco: una nel nord del Paese e l’altra nella regione centrale.
Con il ritorno del sistema multipartitico nel 1992, i due principali raggruppamenti politici del Paese, NNP e NDC, in questi anni si sono alternati al potere.
Riforme anticorruzione
Durante la sua campagna elettorale, il 66enne Mahama ha promesso di rilanciare l’economia e di introdurre riforme anticorruzione. Il suo vice-presidente sarà l’ex ministro dell’Istruzione, Jane Naana Opoku-Agyemang. Finora mai nessuna donna ha ricoperto tale incarico in Ghana.
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Dal Nostro Corrispondente di Cose Militari
Antonio Mazzeo
Dicembre 2024
Le forze armate del Qatar potenziano le proprie capacità di proiezione bellica aero-navale nell’area mediorientale grazie alle aziende leader del comparto militare-industriale italiano.
Al Fulk, unità anfibia realizzata da Fincantieri
Rinnovo flotta
Il 30 novembre scorso, presso lo stabilimento Fincantieri di Muggiano (La Spezia), è stata consegnata alla Marina Militare qatariota l’unità anfibia (LPD – Landing Platform Dock)“Al Fulk”, commissionata dalle autorità di Doha nell’ambito del programma di ammodernamento della flotta navale.
Alla cerimonia di consegna hanno partecipato il Capo di Stato Maggiore della Marina del Qatar, generale Abdulla Bin Hassan Al Sulaiti; il direttore del personale della Marina Militare italiana, ammiraglio Andrea Gueglio; l’amministratore delegato e direttore generale di Fincantieri, Pierroberto Folgiero.
Fincantieri Muggiano, cerimonia di consegna
La nave anfibia LPD è stata realizzata negli stabilimenti Fincantieri di Palermo e Muggiano ed ha caratteristiche simili alle unità della classe “San Giusto” consegnate alla Marina italiana e alle “Kalaat Béni Abbès” acquistate dalla Marina algerina.
L'”Al Fulk” ha un dislocamento di 8.800 tonnellate, una lunghezza di 143 metri, una larghezza di 21,5 metri e una velocità di 20 nodi edè in grado di ospitare fino a 550 marines.
Massima efficienza
La nuova unità da guerra ha un’autonomia di navigazione di un mese e un raggio operativo sino a 7.000 miglia nautiche: ciò consentirà alla Marina qatariota di proiettare la propria forza bellica a livello globale.
“Altamente flessibile – riporta l’ufficio stampa di Fincantieri – è stata progettata per garantire collegamenti terra-aria-marini estremamente efficienti”.
“Potrà svolgere diversi tipi di compiti: dagli interventi umanitari, a missioni di guerra anti-aerea e contro unità navali di superficie e mezzi subacquei (anti-AAW/ASuW) e supporto delle forze armate e alle operazioni di terra”, continua la nota.
Ponte di volo
L’LPD “Al Fulk” è dotata di un ampio ponte di volo da dove possono operare due elicotteri multiruolo NFH90 che saranno consegnati dal consorzio europeo comprendente la holding italiana LeonardoS.p.A., Eurocptere Stork Fokker Aerospace.
L’unità è dotata pure di un garage con due rampe carrabili e un bacino interno allagabile in grado di accogliere mezzi da sbarco.
Cannoni e missili
L’unità avrà a bordo diversi sistemi d’arma: cannoni da 76mm anch’essi di produzione Leonardo; missili superficie-aria “Aster 30” (prodotti dal gruppo MBDA controllato da Airbus, Bae Systems e Leonardo); mitragliere navali “Marlins” da 30mm (OTO Breda, Leonardo);lanciatori anti-missili “Sylena Mk2” di produzione francese (Lacroix).
Gli elicotteri NFH90 imbarcati saranno invece dotati di missili anti-nave di terza generazione “Marte ER” (MBDA). Il gruppo Leonardo ha fornito pure i sistemi radar “Kronos”, i sensori di bordo e i centri di comando e controllo dei sistemi di combattimento.
La cerimonia di varo della nave da guerra “Al Fulk” era stata celebrata il 24 gennaio 2023 presso lo stabilimento Fincantieri di Palermo, alla presenza del vice primo ministro e ministro della Difesa del Qatar, H.E. Khalid bin Mohamed Al Attiyah, e del ministro della difesa italiano, Guido Crosetto.
Maxi contratto
Nel 2019 la holding italiana aveva ottenuto dal Qatar un maxi-contratto del valore di 4 miliardi di euro per la costruzione di sette navi militari e la fornitura per 15 anni di un ampio pacchetto di servizi di supporto, tra cui la formazione del personale, il supporto operativo e logistico integrato, l’addestramento tecnico per manutentori di base, ecc..
Oltre alla nave anfibia LPD, sono state consegnate alle forze armate qatarine quattro corvette della classe “Al Zubarah” e due pattugliatori d’altura (OPV – Offshore Patrol Vessel)della classe “Musherib”.
Per la gestione delle consegne dei mezzi navali e rafforzare le “strategie di sviluppo del business in Medio Oriente”, Fincantieri ha costituito in Qatar la società, di diritto qatariota, Fincantieri Services Doha, controllata al 100 per cento dal Gruppo italiano.
“Questa società contribuisce in maniera diretta ed attiva a supportare Fincantieri all’interno del tessuto industriale locale e a sviluppare tutti i servizi associati ai settori della navalmeccanica e della Difesa in Qatar”, spiegano i manager.
“Fincantieri Services Doha è impegnata nella gestione ed esecuzione della gamma completa dei servizi di bordo e di terra legati alla gestione del ciclo vita di unità navali, sia per la piattaforma che per il sistema di combattimento, coordinando tutte le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria delle unità navali”.
Milipol 2024
In occasione della 14ª edizione di MILIPOL Qatar, l’esposizione globale delle aziende di intelligence e anti-terrorismo, tenutasi a Doha dal 20 al 26 ottobre 2024, Fincantieri ha infine sottoscritto un accordo con il colosso della cantieristica qatariota BQ Solutions, per avviare programmi di istruzione e addestramento, creati sotto la guida italiana, per le Forze Navali del Qatar.
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6 dicembre 2024
Ci risiamo. Lo scenario è lo stesso di qualche mese fa nella zona di Tinzaouatène (Mali), poco distante dal confine con l’Algeria. Stavolta però le vittime non sono i militari di Bamako (FAMa) e i loro partner, i mercenari Wagner (ora Africa Corps), bensì i ribelli dell’Azawad, per lo più tuareg.
Droni turchi
Il 1° dicembre, durante alcuni attacchi sincronizzati con droni Baykar Bayraktar TB2 (prodotti dalla Baykar Technologies di Esenyurt, Turchia, ndr) sono state uccise 8 persone, tra questi 5 responsabili di Frontde Libération de l’Azawad (FLA). Solo il giorno precedente, cinque gruppi ribelli indipendentisti si erano uniti in una nuova formazione, il Fronte di Liberazione per l’Azawad.
Droni di fabbricazione turca in dotazione alle forze armate del Mali
Il capo di Stato maggiore delle Forze armate maliane ha confermato l’uccisione di diversi leader del gruppo ribelle, definendoli “terroristi”.
Alla fine di luglio i separatisti avevano inflitto gravi perdite sia ai soldati di FAMa, sia ai mercenari. E, durante la ritirata le truppe maliane-Wagner erano state attaccate anche dai jihadisti di JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), affiliato a Al-Qaeda.
Subito dopo lo smacco subito, a fine settembre Bamako aveva preparato una controffensiva annullata all’ultimo momento per problemi operativi e logistici.
Lotta per Indipendenza
FLA, che ha ora la sua roccaforte in un’area al confine con l’Algeria, vorrebbe prendere il controllo dell’Azawad, una zona nel Mali settentrionale. Per raggiungere tale obiettivo, il gruppo armato, oltre alle azioni sul terreno, intende muoversi anche per vie diplomatiche. I combattenti indipendentisti vorrebbero ottenere il riconoscimento dei Paesi vicini e dei partner internazionali.
Il nuovo raggruppamento lotta per la “liberazione totale dell’Azawad” e per l’istituzione di una “autorità dell’Azawad”, in poche parole, vogliono staccarsi dal governo di Bamako.
Con la firma del trattato di pace del 2015, i ribelli separatisti avevano rinunciato all’indipendenza in cambio di un decentramento dei poteri dello Stato. Ma visto che l’anno scorso il governo militare di transizione di Bamako aveva dichiarato nullo il trattato, i tuareg dell’Azawad hanno ripreso la lotta armata. Anzi, il governo di transizione li considera terroristi, alla stessa stregua dei jihadisti e “come tali vanno combattuti”.
Rapporti Russia – Sahel
Pochi giorni prima dell’attacco con i droni turchi nell’area di Tinzaouatène, il vice-primo ministro russo, Alexandre Novak, è venuto nel Sahel con un’imponente delegazione per rafforzare i rapporti con Mali, Burkina Faso e Niger.
Novak, che ha anche la delega per l’Energia, è stato nel Sahel dal 28 al 29 novembre. Durante la sua visita è stato accompagnato anche da esponenti del mondo degli affari, tra questi anche dirigenti di Rosatom, azienda pubblica russa, specializzata nell’energia nucleare.
Delegazione russa a colloquio con il presidente maliano, Assimi Goïta
Per rafforzare i rapporti militari tra Mosca e i tre Paesi dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES – Mali, Burkina Faso e Niger), Novak è stato accompagnato dal vice-ministro della Difesa, Yunus Bek-Evkurov, e da Andrei Averianov, dei servizi segreti militari. I due alti funzionari hanno avuto colloqui con i ministri della Difesa di Bamako, Ouagadougou e Niamey.
Africa Corps
I negoziati con le autorità della Difesa si sono concentrati sul possibile dispiegamento di nuovi paramilitari dell’Africa Corps (ex Wagner), addestramento degli eserciti saheliani e firma di nuovi accordi bilaterali volti alla lotta contro i terroristi.
Armi russe
Per ora la luna di miele tra Mosca e i tre Paesi del Sahel non è ancora tramontata. E per dimostrare la loro solida cooperazione, pochi giorni prima dell’arrivo della delegazione russa, Putin ha inviato un aereo cargo pieno di armi al governo militare di transizione di Niamey. Mentre Bamako ha ricevuto un carico identico già il 10 novembre 2024.
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Dalla Nostra Inviata Speciale Federica Iezzi
Amman, 5 dicembre 2024
Riaccese le vecchie linee rosse del conflitto siriano. Ad essere colpite duramente, ancora una volta, sono state Aleppo e Idlib. Da un lato il gruppo militante salafita Hay’at Tahrir al-Sham, sostenuto da Ankara, dall’altro le forze fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad, appoggiate da Mosca e Teheran.
Ribelli a Aleppo, Siria
Al centro i curdi e con essi le milizie YPG (Unità di Protezione Popolare).
Le YPG e la loro ala politica, il PYD (Partito dell’Unione Democratica), sono una propaggine ideologica del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), un gruppo armato che combatte da decenni contro la Turchia, a sostegno dell’autonomia curda.
Amministrazione rojava
Gran parte della Siria nord-orientale è controllata dall’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (AANES) o Rojava, un’amministrazione politica creata dal PYD sulla base dichiarata di una rete decentralizzata multietnica e multireligiosa in tutta la regione, non ufficialmente riconosciuta dal governo siriano.
Gli islamisti siriani quindi sono aiutati dalla Turchia, Paese della NATO, che gli ha fornito armi NATO. Non è stupido pensare che dietro le quinte ci siano gli americani che hanno autorizzato la cessione del materiale bellico ai jihadisti in funzione anti Assad e quindi anti Russia e anti Iran.
Scenario afghano
Uno scenario che non è nuovo. Negli anni ‘80 Washington in Afghanistan aveva fornito armi e supporto logistico ai mujaheddin di Osama Bin Laden per combattere i sovietici. Sappiamo tutti com’è finita.
Inoltre fonti confidenziali hanno confermato ad Africa ExPress la presenza di istruttori militari ucraini a fianco degli insorti siriani, quelli che una volta erano bollati che tagliagole terroristi e invece ora sono stati promossi e ribelli.
I quartieri di Aleppo a maggioranza curda di Sheikh Maqsoud e Ashrafieh, sono stati punti nevralgici dell’ultimo attacco, essendo aree rimaste nelle mani delle forze a guida curda per gran parte della guerra civile siriana. Così come i villaggi di Tel Rifaat, Tel Aran e Tel Hassel.
Discriminazione diffusa
Prima del 2011, la minoranza curda ha dovuto affrontare una diffusa discriminazione sotto un governo che promuoveva un’agenda politica nazionalista araba.
Durante la guerra civile, scoppiata in Siria nel 2011, il sostegno della Turchia a una serie di gruppi di opposizione – in particolare all’Esercito Siriano Libero (formazione ribelle storica contro Assad) – è stato una delle principali fonti di tensione. Ankara ha considerato la repressione dei gruppi affiliati al PKK la sua principale priorità.
Dopo anni di assedio, oggi i due quartieri di Aleppo, sono di nuovo sotto il mirino turco. Almeno 120.000 curdi sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni.
Orchestrato da Ankara
E’ evidente che le forze governative di Damasco hanno perso potere ad Aleppoe non c’è dubbio che questo attacco sia stato orchestrato da Ankara, con l’obiettivo finale di occupare l’intero territorio nord-est siriano, e nella fattispecie il Rojava.
I pesanti scontri ad Aleppo e nelle aree circostanti sottolineano le fragili dinamiche della regione, che coinvolgono movimenti jihadisti, governo siriano e forze internazionali. Parallelamente, Hay’at Tahrir al-Sham continua ad espandere il suo controllo a Idlib e Hama.
Rispetto della sovranità
Il dipartimento di Stato americano ha condannato la resistenza del regime di Assad ai negoziati politici come causa principale della crisi.
La Lega Araba ha chiesto la fine della violenza regionale e ha sollecitato il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria, in linea con il diritto internazionale.
L’obiettivo dei jihadisti comunque sembra che sia – oltre a Damasco, naturalmente – la città portuale di Tartus unica base russa sul Mediterraneo nel 2017 ceduta dalla Siria a Mosca in affitto per 49 anni. Una spina nel fianco della NATO.
Assad al Bashar, presidente della Siria
La fine di Assad (se ci sarà) rischia di trasformarsi in una seria debacle per gli occidentali se, come è possibile, al posto del laico despota aluwita salirà al potere a Damasco un imam islamista. Quarant’anni dopo in Siria si ripropone lo scenario afghano.
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Netumbo Nandi-Ndaitwah del partito al potere SWAPO
è stata eletta presidente della Namibia
con il 57 per cento dei voti validi.
Nandi-Ndaitwah, 72 anni, è stata
finora la vicepresidente del Paese.
Lo Swapo è al potere dall’indipendenza, 34 anni fa.
Speciale Per Senza Bavaglio Marcello Ricoveri*
Windhoek, 4 dicembre 2024
È molto difficile fornire un quadro preciso della situazione che si è creata a seguito della consultazione elettorale del 27 novembre qui in Namibia per molteplici ragioni: innanzitutto per la mancanza di gruppi di monitoraggio internazionali imparziali che sono stati cortesemente rifiutati.
Il nuovo presidente della Namibia è la signora Netumbo Nandi-Ndaitwah
L’unica possibilità di partecipazione è stata data alla commissione speciale dell’Unione Africana, AUEOM, presieduta dalla ex vice presidentessa dello Zimbabwe, Speciosa Kazibwe Wandira che oggi molti giornali locali sospettano di simpatizzare per il partito al potere, la SWAPO.
Mancanze gravi
E poi c’è stata una serie di mancanze gravi che vanno dalla insufficienza di schede elettorali, dall’assenza di contenitori sigillati per le stesse schede, ammonticchiate alla rinfusa nei seggi senza controllo.
Poi c’è stato il fallimento dei sistemi elettronici di controllo degli elettori: batterie scariche dei palmari, surriscaldamento degli stessi, mancato funzionamento delle apparecchiature di verifica dell’inchiostro simpatico per evitare doppi voti.
Uso delle matite
Sotto accusa perfino l’uso di semplici matite con gommino…per marcare il proprio voto sulla scheda. Insomma tutto un apparato tecnologico modernissimo, accoppiato a strumenti primordiali, che semplicemente era da un lato troppo sofisticato per le limitate capacità degli addetti ai lavori e dall’altro consentiva brogli senza troppa difficoltà.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso gettando un’ombra notevole sulla regolarità dell’esercizio elettorale è stata la esasperante lentezza con la quale le operazioni di voto erano condotte (sei votanti per ora) che ha causato ritardi colossali, file di ore sotto il sole senz’acqua né servizi igienici.
Votazioni interrotte
Votazioni interrotte alle 22 e poi riprese nella notte fino alle quattro del mattino. Ripresa della votazione nei due giorni successivi, venerdì e sabato, 29 e 30 novembre.
Risultato immediato: la suddetta Commissione dell’UA, in una frettolosa quanto ipocrita patente di relativa regolarità della consultazione elettorale, riconosce comunque che, dal 66 per cento delle verifiche effettuate risulta che l’11 per cento presenta serie anomalie.
Caos durante le operazioni di voto in Namibia
Ciò equivale a dire che il 34 per cento dei seggi non è stato verificato, percentuale che si somma a quell’11 per cento anomalo. Il che significa che nel 45 per cento dei seggi la votazione potrebbe non essere regolare.
Riunione conclusiva
Non tutti partiti di opposizione hanno partecipato alla riunione conclusiva della Commissione Elettorale della Namibia, ECN, hanno invece denunciato le varie irregolarità riscontrate e chiesto la ripetizione delle elezioni. Inoltre, numerose petizioni lanciate nel Paese chiedono le dimissioni in blocco della stessa ECN.
Inoltre la Southern Africa Human Rights Lawyers Election Observer Mission, ha anch’essa rilevato varie irregolarità, giustificando di fatto il ricorso di tutti i partiti di opposizione alla Corte Costituzionale affinché le elezioni vengano ripetute.
Questa impietosa fotografia della realtà di uno dei Paesi più stabili politicamente dell’Africa Australe era forse prevedibile in considerazione di quanto è successo o sta succedendo nel vicinato: Sud Africa, Botswana, Mozambico hanno visto le decennali leadership al potere vacillare ed in alcuni casi cedere il passo all’opposizione.
Voto di scambio
Il problema, qui in Namibia, è che il voto di scambio tribale e clientelare, assai diffuso, lascia poco spazio alle etnie minoritarie: Colorati, Herero, Nama e Damara che pure sono presenti nel principale partito di opposizione, l’IPC (Indipendent Patriots for Change) di Panduleni Filemon Bango Itula.
Lui stesso comunque è un Owambo, per cui difficilmente le opposizioni avrebbero potuto prevalere nell’elezione presidenziale, a meno che non si fosse arrivati al ballottaggio, nel caso in cui l’attuale candidata della SWAPO Nandi-Ndaitwah non avesse superato il 50 per cento dei voti espressi.
Fino all’altro giorno lo spoglio era appena agli inizi ed i primi dati su un quantitativo ridottissimo dei voti, 135.021 (25 circoscrizioni elettorali su 121) su un totale di potenziali votanti di un milione e mezzo, davano SWAPO al 50 per cento e l’IPC al 30.
Dati sulla percentuale
Purtroppo non sono stati diffusi dati sulla percentuale di votanti che in teoria avrebbe dovuto superare quella delle precedenti consultazioni elettorali ma che a causa di tutte le problematiche e manchevolezze registrate non penso supererà di molto il 50 per cento degli iscritti.
Alcuni commentatori locali ben addentro alle tematiche politiche ed alle dinamiche di potere della SWAPO in questo Paese, lamentano che il partito del Padre Fondatore, Sam Nujoma, la SWAPO appunto, avendo compreso di rischiare la perdita del potere assoluto abbia in pratica compromesso l’immagine del Paese associandolo a quelli africani (ormai la maggioranza) per i quali i brogli elettorali sono la normalità.
Se quindi la Corte Costituzionale non riuscirà a ristabilire un minimo di legalità e se non si troverà una soluzione politica seria e condivisa alla situazione che si è creata, sarà difficile per la Namibia riacquistare quella fiducia internazionale che finora le era stata concessa.
Prospettive economiche
Le attuali prospettive economiche nel settore energetico che aprivano importanti scenari di investimento sono ora compromesse, anzi molti dicono che proprio a causa di queste prospettive e delle loro ampie ricadute in termini di ricchezza per la Namibia, si sia scatenata una lotta per il potere senza esclusione di colpi.
La mia personale previsione è che per l’ennesima volta la SWAPO che ha prevalso nella corsa presidenziale, seppur di poco, verrà assai ridimensionato in Parlamento, ciò che darebbe al Paese una buona scossa politica.
Corruzione alimentata
Auspicabilmente molta corruzione, alimentata dal tribalismo e clientelismo politico monodirezionale, verrebbe se non altro diluita, e la voce dell’opposizione si farebbe sentire con maggiore frequenza ed incisività.
Peraltro ho qualche dubbio che il sistema giudiziario namibiano, non immune da interferenze politiche, riesca nel miracolo di invalidare le elezioni. Vedremo.
*Marcello Ricoveri ha rappresentato l’Italia come ambasciatore in Uganda (accreditato anche in Ruanda, anche durante il genocidio, e Burundi), Etiopia, Nigeria (con competenze sul Benin) e prima ancora come primo consigliere della nostra legazione a Pretoria con competenze anche sulla Namibia. Vive a Windhoek. A Roma, per 7 anni circa, si è occupato di Cooperazione allo sviluppo, di Unione Africana, di ECOWAS e di G8 per l’Africa. Grazie alla sua esperienza conosce molto bene l’intero continente e continua ad essere un attento e un acuto osservatore delle dinamiche socio-politiche del sud del mondo.
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