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In viaggio da Milano a Nairobi con una rotta a zigzag tra guerre e cannonate

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 25 dicembre 2024

Viaggiare dall’Europa all’Africa è diventato difficile e un po’ complicato. Le linee aeree europee evitano la rotta più corta, ma piena di insidie che passa su Algeria, attraversa il Sahel e quindi il Centrafrica o il Sud Sudan e dopo raggiunge il Kenya.

Continue virate

Preferiscono scegliere un itinerario fatto di virate a destra e a manca per evitare che qualche malintenzionato “invasato dalla guerra” si metta a bersagliare aerei civili.

Il 24 dicembre ho viaggiato da Milano a Nairobi con Air France. Il nostro aereo ha volato su una rotta inquietante scelta per non passare su Paesi e/o territori in guerra.  Un vero slalom dettato da considerazioni di sicurezza. I francesi non sono benvoluti in molti Paesi nordafricani. Quindi meglio non provocare reazioni inconsulte su un aereo con insegne francesi, zigzagando tra distruzione, dolore e morte.

Una rotta simile è stata seguita dal volo della compagnia olandese KLM che ho preso per andare e tornare da Nairobi lo scorso novembre.

La rotta Parigi-Nairobi seguita dal volo Air France

Ieri abbiamo lasciato Parigi e, dopo aver sorvolato il mar Mediterraneo, ci siamo diretti verso oriente. Abbiamo evitato di passare sulla Libia, da più di 10 anni sconvolta da una cruenta guerra civile, e siamo entrati nello spazio aereo dell’Egitto, stando ben attenti di sorvolare il centro del Paese per stare lontani dalla striscia di Gaza, per evitare incontri pericolosi con l’aviazione israeliana e le sue bombe quotidiane sui territori palestinesi.

Alla larga dallo Yemen

Poi per non rischiare di entrare nel Sudan in guerra civile furibonda, siamo passati sul Mar Rosso virando a oriente ben oltre il Sinai.

Quindi ci siamo spostati a oriente costeggiando l’Arabia Saudita fino a poco prima dello Yemen in guerra, poi abbiamo virato a occidente per passare sull’Eritrea ed Etiopia e siamo finalmente discesi verso il Kenya. Insomma, è stato uno slalom tra missili e bombe! Un itinerario dettato da considerazioni di geopolitica per viaggiare in sicurezza su un aereo francese.

Nessun idiota

Per fortuna sulla nostra rotta non abbiamo incontrato nessun idiota che aveva in mente di tirarci addosso un missile Sam 7, né un drone impazzito con cui litigare. In guerra purtroppo occorre fare i conti anche non chi ha il grilletto facile.

Itinerario diverso invece quello seguito con a bordo i miei figli che sono partiti da Parigi alla stessa mia ora ma hanno viaggiato con un vettore africano, la Kenya Airways.

La rotta Parigi-Nairobi seguita dal volo della Kenya Airways

Loro dalla Francia hanno puntato direttamente verso l‘Algeria, e hanno sorvolato tre Paesi pericolosi per i francesi: il Niger, il sud del Ciad, e perfino la Repubblica Centrafricana, dove infuria una drammatica guerra civile, quindi sono entrati in Sud Sudan e in Uganda e poi sono scesi in Kenya.

Sulle Piramidi

Solo fino a qualche anno fa la rotta seguita da tutte le compagnie puntava dall’Europa sul Cairo, per poi dirigersi verso il Kenya seguendo il corso del Nilo. Passando sull’Egitto dai finestrini si potevano vedere dall’alto persino le Piramidi.

Non credo che i passeggeri dei due voli si siano resi conto del perché il loro aereo abbia seguito la rotta assegnatagli. Ma forse, giacché i costi dei biglietti sono sensibilmente lievitati, è legittimo pensare che ciò sia dovuto agli aumenti dei premi delle assicurazioni causati dai pericoli delle guerre in corso. Insomma, le rotte africane non sono più così sicurissime come una volta.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il drammatico Natale tra le macerie dei cristiani di Gaza

Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
Gaza City, 24 dicembre 2024

“Temo che l’ultimo capitolo del cristianesimo a Gaza stia per essere scritto”. Sono le amare parole del pastore della Chiesa evangelica luterana palestinese Mitri Raheb.

Già all’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, senza alcuna plausibile ragione, i carri armati israeliani hanno circondato la chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, a Gaza City – la terza più antica del mondo – e i tiratori scelti hanno preso posizione intorno ad essa, sparando senza alcuna pietà alla più antica comunità cristiana del mondo.

Nella basilica di San Porfirio i cristiani palestinesi cercavano disperatamente sicurezza.

Chiesa di San Porfirio a Gaza City prima della guerra [photo credit Federica Iezzi]
La popolazione cristiana a Gaza era di appena un migliaio di persone prima della guerra, il 3 per cento dei quali oggi è stato eliminato dalla ferocia israeliana.

Si tratta di una delle più antiche comunità cristiane del mondo, risalente al primo secolo, con preponderanza greco-ortodossa e percentuali più esigue di cattolici romani, battisti e altre denominazioni protestanti.

Anche tra i cristiani palestinesi il messaggio israeliano è passato forte e chiaro. Non c’è un posto sicuro a Gaza. Chi saranno i prossimi ad essere sterminati dal Grande Israele? Il popolo libanese, quello siriano? La comunità armena?

Non sono rimaste che macerie della chiesa bizantina di Jabalia, nel nord di Gaza, risalente al V secolo, del Santuario Verde di Dayr al-Balah, al centro dell’enclave, primo monastero cristiano costruito in Palestina durante l’era bizantina, del monastero di Sant’Ilarione (Tell Umm Amer), nel sud di Gaza non lontano dal campo profughi di Nuseirat, fondato nel III secolo e recente sito UNESCO, della chiesa della Sacra Famiglia a Gaza City, unica parrocchia cattolica latino-romana.

Devastato anche l’ospedale Al-Ahli a Gaza City, unico nosocomio nella Striscia di Gaza, gestito dalla chiesa anglicana.

Chiesa di San Porfirio a Gaza City distrutta dai bombardamenti israeliani nell’ottobre 2023 [photo credit Forensic Architecture]
L’impatto degli attacchi diretti di Israele sulla piccola minoranza, sostiene una graduale cancellazione della presenza cristiana a Gaza e alimenta la propaganda persecutoria israeliana.

Non si tratta di un conflitto religioso ma di occupazione e apartheid. Si tratta di cancellare la storia e la cultura palestinese a Gaza.

La voce della comunità cristiana di Gaza è quanto di più pericoloso per Israele, perché ascoltata e creduta al di fuori della Palestina, visti i suoi rapporti consolidati con le istituzioni ecclesiastiche globali e con l’Occidente.

Vivendo sotto assedio, i cristiani di Gaza testimoniano uno spirito di solidarietà con i palestinesi che ha unito le fedi nella lotta per la sopravvivenza e per la libertà.

Esattamente come per i palestinesi, non sono valsi a nulla gli appelli alle procedure speciali delle Nazioni Unite per rispondere alle imminenti minacce per la comunità cristiana nei Territori Palestinesi Occupati.

Il Natale sulla Striscia di Gaza ha la stessa misera immagine di Betlemme. Per il secondo anno consecutivo la Chiesa della Natività, tradizionalmente ritenuta il luogo di nascita di Gesù Cristo, a Betlemme, sarà vuota.

Pesa riflettere sul fatto che i cristiani palestinesi stanno abbandonando in massa il luogo di nascita del cristianesimo.

Per Israele, questo esodo è una manna dal cielo, poiché una Palestina senza cristiani gli consentirà, in un mondo pieno di islamofobia, di descrivere il suo conflitto con la Palestina come una guerra di religione e non come genocidio.

La strategia di Israele si basa sull’idea che difficoltà economiche, assedio permanente e apartheid, rottura dei legami socio-culturali e spirituali tra i cristiani palestinesi, alla fine allontanerà tutti dalla propria patria palestinese.

E così si arriva alla fase finale: presentare il conflitto in Palestina come religioso in modo da poter, a sua volta, marchiarsi come il povero stato ebraico assediato in mezzo a una massiccia popolazione musulmana in Medio Oriente.

E’ evidente che la continua esistenza dei cristiani palestinesi non rientra bene nel programma di Netanyahu.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Distribuzione del cibo in Nigeria: nella calca morte schiacciate oltre 30 persone

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Dicembre 2024

Sabato sono morte oltre 30 persone in Nigeria in due incidenti distinti, mentre la folla era in attesa della distribuzione di cibo e vestiti.

Holy Trinity, chiesa cattolica a Abuja, capitale della Nigeria

Affamati

Disperati e affamati più che mai, centinaia di nigeriani, soprattutto donne e bambini, si sono accalcati per ricevere pacchi alimentari, distribuiti nella chiesa cattolica Holy Trinity, nel distretto di Maitama della capitale Abuja.

In occasione delle feste natalizie, parrocchie e enti di beneficienza consegnano viveri, destinati ai più bisognosi. E di poveri ce ne sono davvero molti in Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa.

Tantissimi si sono presentati davanti ai cancelli della chiesa già ore prima dell’inizio della distribuzione. Non potevano resistere al solo pensiero di avere la pancia piena, almeno per un giorno. E poi molte famiglie fanno fatica a racimolare i soldi per la retta scolastica, divise e libri.

Schiacciati

“Ma, nella calca, per la fretta di entrare, alcune persone, soprattutto anziani e bambini, spinte da altre, sono cadute e qualcuno è stato schiacciato dalla folla”, hanno riferito testimoni oculari.

A Abuja sono morte 10 persone e almeno altre 8 sono state ferite. La polizia ha confermato la tragedia, aggiungendo che oltre mille altre sono state evacuate dalla chiesa.

Anambra: 22 vittime

Mentre a Okija, nell’Anambra State (nel centro-sud del Paese), le vittime sono state ben 22. Tutti morti mentre attendevano di ricevere la loro razione di cibo. L’evento era stato organizzato da un filantropo, che aveva messo a disposizione della popolazione sacchi di riso.

22 morti a Okija, Anambra State, Nigeria

La polizia ha fatto sapere che per capire cosa sia successo veramente durante i terribili momenti a Abuja e Okija, sono stati aperti fascicoli d’indagine

Studenti morti

Mercoledì scorso c’è stata un’altra strage di giovani e giovanissimi a Ibadan, capoluogo dell’Oyo State. Durante un festival religioso, tenutosi in una scuola superiore islamica, sono morti 32 giovani. Alla manifestazione hanno partecipato oltre 5.000 persone. Secondo i media locali, l’evento sarebbe stato organizzato Women In Need Of Guidance and Support Foundation. I promotori avevano promesso che i partecipanti avrebbero potuto vincere “premi entusiasmanti, come borse di studio e altro”.

Il sistema scolastico nigeriano è in mezzo a una crisi davvero allarmante: 10,2 milioni di bambini delle primarie e altri 8,1 milioni delle scuole medie non frequentano la scuola e il 74 per cento di ragazzini tra i 7 e i 14 anni non ha competenze di base in lettura e matematica.

Scuole chiuse

Per problemi di sicurezza, a causa dei continui attacchi dei sanguinari terroristi Boko Haram e ISWAP (acronimo per Islamic State West Africa Province), secondo UNICEF, nel 2022-2023 sono state chiuse 113 scuole nel Borno, Adamawa e Yobe State (nord-est del Paese).

Nigeria: aumento del costo dei generi alimentari

L’inflazione continua la sua folle corsa e a novembre ha raggiunto un nuovo picco: è passata al 34,60 per cento rispetto al 33,88 di ottobre. Per molte famiglie diventa sempre più difficile mettere in tavola anche un solo pasto al giorno.

Carovita

L’impennata dell’inflazione, ripresa a settembre dopo una breve attenuazione a luglio e agosto, è stata attribuita agli effetti persistenti della svalutazione della valuta locale (la naira) e a una serie di aumenti del prezzo della benzina. Tutti fattori che hanno intensificato il più grave incremento del costo della vita degli ultimi decenni.

Il galoppante aumento dei prezzi è iniziato nella seconda metà dell’anno scorso, dopo che il presidente del Paese, Bola Tinubu, ha svalutato la naira e tagliato i sussidi per cercare di risollevare la crescita economica e sostenere le finanze pubbliche. Ma il vero problema della Nigeria è la corruzione dilagante.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Nigeria: altri articoli li trovate cliccando QUI

 

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Un algometro per misurare il dolore del mondo

dal Centro per la Riforma dello Stato
Giuseppe “Ino” Cassini*
22 dicembre 2024

Le due guerre in corso nel vicinato hanno provocato esodi biblici, un milione di morti e un numero incalcolabile di feriti, di orfani, di senzatetto, di traumatizzati a vita: un’ecatombe ancora in corso, nella rassegnazione generale, o nell’indifferenza in cui sfocia l’assuefazione al male.

Joseph Stalin

Si attribuisce a Stalin una cinica osservazione: “Se una persona muore di fame è una tragedia, ma se ne muoiono milioni sono solo statistiche”. Né ci consola sapere che oggi si muore di violenza armata piuttosto che di fame.

Amore per la guerra

Che ci soccorra almeno la psicanalisi di un illustre polemologo, James Hillman: “Non potremo mai parlare di pace se non sondiamo questo amore per la guerra. Non possiamo capire questa attrazione se non ci addentriamo nello stato marziale dell’anima. Noi non partiamo in guerra in nome della pace, come declama una retorica ingannatrice, ma piuttosto per amore della guerra”.

L’umanità sembra aver smarrito quelle due “certezze” che Kant additava a sé stesso: “Il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi”.

La legge morale? Come risvegliare le coscienze atrofizzate dei tanti che non ne percepiscono più la valenza? Gli ingegneri dell’intelligenza artificiale dovrebbero inventare un algometro (in greco algos = dolore, sofferenza) in grado di misurare la concentrazione di sofferenze, presenti e passate, così come un contatore Geiger misura la radioattività accumulata sul terreno e nell’atmosfera.

Strumento prodigioso

Muniti del prodigioso strumento si potrebbe percorrere le vie del mondo, sostando ogni volta che comincia a vibrare: fortissimo su Hiroshima, su Nagasaki e poi sull’Indonesia, dove tra il 1965 e il 1966 furono sterminati milioni di comunisti (o ritenuti tali). Altrettanto forte sull’intero Vietnam, in particolare attraversando villaggi martiri come My Lai; e sulla vicina Cambogia, funestata da una follia genocida che ne dimezzò quasi la popolazione.

Anche in Siberia l’algometro suonerebbe, misurando il grado di sofferenze patite nei gulag da Vladivostok fino al carcere di Charp, sperso nella tundra per eliminarvi Navalny lontano dagli occhi del mondo.

Vibrazioni all’impazzata

Sorvolando il continente africano, l’algometro vibrerebbe all’impazzata: Rwanda, Biafra, Sudafrica, Sudan, Libia, Somalia… Oltre Atlantico, la sensibilità dell’algometro segnalerebbe la piazza di Tlatelolco, teatro della “macelleria messicana” di studenti in quel sanguinoso 2 ottobre del 1968.

Guerra in Sudan

Lungo il confine tra Messico e Stati Uniti lo strumento punterebbe in Arizona sulla contea di Maricopa, dove lo sceriffo italo-americano, Joe Arpaio, costringeva gli immigrati finiti sotto le sue grinfie a spaccar pietre a 35°; vibrerebbe dove Tom Homan, detto “zar della frontiera”, ora ingabbia e separa le famiglie in arrivo – gli adulti dai bambini – per scoraggiare chi tenta di varcare il confine.

Forse emetterebbe un segnale anche all’avvicinarsi di Kristi Noem, la governatrice del Sud Dakota premiata da Trump a capo della Sicurezza Interna per aver punito a fucilate il suo riottoso cane da caccia.

Non lontano dal Messico, l’algometro punterebbe su Guantánamo, attrezzato a luogo di tortura per musulmani (non importa se colpevoli o innocenti). Carceri come Guantánamo o come Abu Ghraib in Iraq, Bagram in Afghanistan, Huntsville in Texas, Villa Grimaldi in Cile lasciano il dubbio che tra i maggiori produttori di dolore nell’ultimo secolo vi sia proprio quell’America che nella Dichiarazione d’Indipendenza aveva iscritto il perseguimento della felicità tra i diritti inalienabili dell’uomo.

Tra un mese, con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca l’algometro rischia di esplodere. A meno che – sorvolando il Medio Oriente – non esploda già prima, nel misurare la pulizia etnica e il male inflitto dalle forze di Netanyahu ai palestinesi di Gaza, agli abitanti della Cisgiordania, ai libanesi sfiancati dai bombardamenti. A cui si aggiungono le sofferenze patite dai siriani sottoposti al giogo di una dittatura specializzata nel torturare i propri cittadini nelle prigioni di Tadmor e Sednaya.

Striscia di Gaza

Assistendo ai disperati spostamenti avanti e indietro delle migliaia di abitanti di Gaza e della Siria in fuga, solo allora si coglierà, forse, il senso della terribile confessione di Schopenhauer: “Se un Dio ha creato questo mondo, non vorrei essere quel Dio. La miseria del mondo mi spezzerebbe il cuore”.

Giuseppe “Ino” Cassini*

*Giuseppe (Ino) Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino, La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.

 

La pace può attendere: bloccati colloqui tra Congo-K e Ruanda

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 dicembre 2024

Niente pace – almeno per ora – nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Il presidente ruandese, Paul Kagame, non si è recato la vertice di Luanda (capitale dell’Angola) per incontrare il suo omologo congolese,

Il presidente congolese, Felix Tshisekedi e il suo omologo ruandese, Paul Kagame

Incontro annullato

I colloqui di pace tra Ruanda e RDC si sono dunque arenati nuovamente e il presidente angolano, João Lourenço, incaricato dell’Unione Africana della mediazione tra Kinshasa e Kigali, ha dovuto annullare all’ultimo momento l’incontro in agenda per domenica scorsa.

Niente dialoghi con M23

Tutti speravano che con i dialoghi tra le parti – Congo-K e Ruanda – si potesse raggiungere finalmente un accordo per porre fine al sanguinoso conflitto nella parte orientale della ex colonia belga. Nulla di fatto anche questa volta, in quanto la presidenza di Kinshasa ha fatto sapere che la controparte ruandese le aveva chiesto di avviare dialoghi diretti con i miliziani dell’ M23.

Il gruppo ribelle prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009. La formazione ha ripreso le ostilità nel primo trimestre del 2022 ed è sostenuto dal vicino Ruanda.

Truppe ruandesi

Le Nazioni Unite hanno pubblicato in proposito un rapporto stilato da un gruppo di esperti. Anzi, nella loro ultima relazione hanno tra l’altro sottolineato che la presenza di truppe ruandesi in Congo-K è piuttosto consistente.

Attualmente sarebbero dispiegati tra 3.000 e 4.000 uomini, che combattono accanto ai guerriglieri dell’M23. Le Forze di Difesa del Ruanda (FDR) dirigerebbero de facto le operazioni dei ribelli.

Ribelli M23 in Congo-K

Nuovi combattimenti

Il più atteso regalo per Natale non sarà nemmeno quest’anno sotto l’albero dei congolesi che vivono nell’est del Paese. Anzi, già un paio di giorni prima del previsto vertice a Luanda, i combattimenti tra M23 e le forze armate di Kinshasa (FARDC) si sono nuovamente intensificati. E domenica i ribelli hanno preso il controllo di Matembe, nel territorio di Lubero. La località dista 150 chilometri da Goma, capoluogo del Nord-Kivu.

Matembe, situata sulla RN2 (strada nazionale 2, ndr), è sempre stata considerata una posizione strategica. Come un muro per fermare l’avanzata dei ribelli verso Lubero, che dista una cinquantina di chilometri, e la città di Butembo, più a nord. Ma ora i miliziani sono riusciti a abbattere anche questa barriera. I feroci combattimenti hanno messo in fuga centinaia di residenti. I militari governativi e i suoi alleati Wazalendo (patrioti in swahili) sono stati costretti a ritirarsi nel centro abitato di Lubero, capoluogo dell’omonimo territorio nel Nord-Kivu.

Conquista territori

Secondo quanto riferisce Deutsche Welle (DW), i ribelli avrebbero preso anche il controllo di Buleusa, nel territorio di Walikale.

Campo per sfollati nel Congo-K

Popolazione in fuga

Un Natale davvero amaro per gli sfollati congolesi, che, secondo il rapporto dell’ONU del 5 dicembre scorso, erano 6.734.000. Nessuna speranza per loro di poter far ritorno a casa nel prossimo futuro.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X : @cotoelgyes

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Il Congo-K orientale sempre a ferro e fuoco: altri sfollati nell’indifferenza della comunità internazionale

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Il piano espansionista di Netanyahu vaneggia un Grande Israele

Dalla Nostra Inviata Speciale
EDITORIALE
Federica Iezzi
Gaza City, 20 dicembre 2024

In Medio Oriente il fronte di guerra aspetta solo di espandersi. Non è passato inosservato al Cairo il delirante piano di Netanyahu sulla creazione di un Grande Israele. In nome della lettura vaneggiante dei testi biblici, è uno Stato che comprende parti di Libano, Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita ma anche Egitto orientale, oltre al Sinai.

Striscia di Gaza [photo credit TRT World]
Il massacro orrendo ed esecrabile del 7 ottobre è l’inesorabile risultato di 76 anni di pulizia etnica che il popolo palestinese ha subito per mano di Israele dal 1948. E’ il risultato di 57 anni di occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza, che si è evoluta nel peggior sistema di apartheid della storia moderna.

Politica assertiva

E’ il risultato di una politica israeliana assertiva che ha portato alla scomparsa del piano di partizione della Palestina in due Stati, in cui i palestinesi avrebbero dovuto costruire uno Stato sul 22 per cento del loro territorio, mentre la risoluzione 181 delle Nazioni Unite concedeva loro il 44 per cento di terra, quando in realtà possedevano l’82% della terra della Palestina storica.

Questa politica è il risultato della legge sullo Stato-Nazione del parlamento israeliano – risalente al 2018 -, che riserva al solo popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione nella Palestina storica – in ebraico Erétz Yisra’él (Terra di Israele).

Affermazioni nauseanti

A questo seguono le nauseanti affermazioni di Bezalel Smotrich, ministro delle finanze israeliano, secondo cui Israele colmerà illegalmente la Cisgiordania di insediamenti israeliani finché i palestinesi non perderanno ogni speranza di avere un proprio Stato e dovranno dunque scegliere tra immigrazione (pulizia etnica), sottomissione agli israeliani (apartheid) o morte (genocidio).

La realtà è che né Nazioni Unite né governi occidentali sono stati in grado di far rispettare a Tel Aviv l’attuazione di oltre 84 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e di circa 800 risoluzioni dell’Assemblea Generale a sostegno dei diritti dei palestinesi.

Oltre 84 risoluzioni

Né i milioni di profughi palestinesi parcheggiati nei campi, né il naufragio di un intero popolo nel 1948 hanno mai spostato un’Europa traumatizzata dalla seconda guerra mondiale. Dopo il 1967, la solidarietà globale inizia ad avere una flebile voce. Ma ci sono voluti l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e la prima Intifada nel 1987 perché la solidarietà con la Palestina giocasse un vero ruolo.

L’assassinio di Stephen Biko, studente e attivista, da parte della polizia del regime sudafricano nel 1977 – un anno dopo le rivolte di Soweto – suscitò più indignazione dell’eliminazione di migliaia di oppositori da parte del dittatore etiopico Mengistu. Ma perché?

Macabra conta

L’opinione pubblica internazionale non misura le proprie reazioni esclusivamente con il metro della macabra conta. Perché in uno specifico momento storico, un conflitto può esprimere la verità di un’epoca, superando il quadro ristretto della sua collocazione geografica, per acquisire una portata universale.

La storia del secolo scorso ha visto come assoluta protagonista l’emancipazione dal giogo coloniale e nonostante le differenze, Vietnam, Sudafrica e Palestina si trovano tutti sulla linea di gestazione di un nuovo mondo basato sul principio di uguaglianza tra i popoli.

Mezzo milione di coloni

Coloni israeliani

E’ vero la copertura del conflitto israelo-palestinese segue regole diverse. Infatti, quale altro esempio si conosce di un’occupazione condannata per più di quarant’anni dalle Nazioni Unite senza risultati né sanzioni? Quale altro caso esiste in cui un Paese possa installare illecitamente più di 500.000 coloni nei territori che occupa senza che la comunità internazionale emetta altro che condanne verbali senza effetto?

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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La guerra in Ucraina non dipende solo dall’invasione russa

Speciale Per Africa ExPress
Raffaello Morelli
Livorno, 12 dicembre 2024
(1 – continua)

Di fronte alla guerra tra Russia ed Ucraina, in Occidente urge una riflessione accurata sull’applicare il principio cardine del proprio esistere: l’uso nei conflitti quotidiani della libertà individuale tra i cittadini, valorizzando la loro strutturale diversità. E’ molto importante nell’ottica liberale.

A sinistra, Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa e Volodymyr Oleksandrovyč Zelensky, suo omologo ucraino

Serve a rivedere la tesi secondo cui lo scontro armato dipenderebbe solo dall’invasione russa cominciata il 24 febbraio 2022.

Dissidi

In Ucraina, indipendente dalla Russia con il referendum del 1991, scoppiarono subito forti dissidi tra filorussi e indipendentisti. Poi, da quando i filorussi vinsero le presidenziali (Viktor Janukovyc, 2010), da una parte fu ripristinato l’affitto del porto di Sebastopoli alla Russia, dall’altra gli indipendentisti intensificarono la protesta e il collegamento con i servizi occidentali (leggi NATO).

All’epoca, il dissenso era provocato dallo stato disastroso dell’economia e dalla corruzione dilagante. Verso fine 2013, il presidente ottenne dalla Russia un prestito di 15 miliardi di dollari, un prezzo ridotto del gas, l’abolizione delle dogane; invece a favore degli indipendentisti, il parlamento votò l’adesione all’UE, poi  bloccata dal capo dello Stato.

Piazza Euromaiden a Kiev, Ucraina

Movimento Euromaiden

Il contrasto sfociò nel movimento Euromaidan (nome della piazza di Kiev più prefisso filo UE), una protesta assai consistente, in gran parte costituita da giovani laureati, agguerrita sui social (con un’ala di esplicita destra estrema), pacifica, che dilagò nel Paese.

Janukovich strinse sui diritti fondamentali. Nel febbraio 2014, a Kiev, le forze di sicurezza spararono sui cortei (un centinaio di vittime). Il parlamento reagì subito, ridusse i poteri del Presidente e lo rimosse (una procedura contestata da Janukovich, il quale scappò in Russia) con un sostituto provvisorio (il presidente fu eletto a fine maggio al primo turno).

UE a Kiev

Simili eventi, attrassero in Ucraina molti funzionari occidentali, per sollecitare sia le elezioni anticipate che l’integrazione con l’UE. Presenza contradditoria, visto che tanti  ucraini (specie ad est) erano contro Euromaidan, anche per i rischi che potevano correre i cittadini russofoni se il Paese fosse entrato nell’orbita occidentale.

Putin si riservò la risposta. A metà marzo, i filorussi assunsero il controllo della Crimea, il cui Parlamento convocò un referendum per separarsi dall’Ucraina. Una volta vinto, con proteste ucraine ed occidentali, la Russia annesse la Crimea.

Donbass e Crimea

Subito dopo, nell’est dell’Ucraina (Donbass) nacquero le repubbliche filorusse di Donetsk e Lungansk, che presero le armi contro l’Ucraina. Intanto, in ambito NATO, Stati Uniti e Inghilterra presero ad addestrare le truppe ucraine nel centro di Yavoriv (ovest). Nessuna sorpresa. Fin dal 1999 la NATO ha in Ucraina un Ufficio di consulenza a livello strategico.

Divamparono scontri armati e violenze degli estremisti di Euromaidan, con picco a luglio, seguiti da trattative di tregua a Minsk, promosse dall’OCSE (con Francia e Germania), tra Ucraina, Donetsk, Lungansk, Russia, concluse ad inizio settembre legando l’integrità territoriale ucraina allo status speciale del Donbass.

Scontri armati

Ma il Parlamento di Kiev aggirò questa clausola, e a metà ottobre le elezioni approvarono. Seguirono nuovi scontri armati mentre Donetsk e Lungansk confermarono la separazione il 2 novembre.

Nuovo protocollo

A Minsk ripresero serrate  trattative tra Francia, Germania, Russia, Ucraina e l’11 febbraio 2015  fu redatto un secondo protocollo. Che ribadì ed ampliò il primo, dettagliando che l’Ucraina avrebbe introdotto, riformando la Costituzione entro l’anno, l’autonomia permanente di Donetsk e Lugansk.

Esaminare gli eventi focalizza un Occidente segnato dai rapporti di potere internazionale, incline a mettere il becco ovunque, pronto (la NATO in particolare) a stuzzicare il nemico, ma disattento al far maturare la libertà in Ucraina.

Dove  il presidente eletto, filo occidentale e pro UE, tentò di stabilizzare l’economia ma non introdusse un nuovo sistema per gestire gli appalti pubblici, non isolò gli oligarchi e non rimosse i conflitti con il Donbass.

Così restarono le tensioni tra indipendentisti e separatisti, mentre l’Ucraina violò il Minsk2 sull’autonomia al Donbass nel 2015. Nel 2016 a Varsavia la NATO, continuando nella linea di illudere, avviò l’assistenza all’Ucraina in appoggio alle sue aspirazioni di adesione, ma tra i membri dell’Alleanza atlantica non c’era l’unanimità  per realizzarla.

Raffaello Morelli
(1 – Continua)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Benin, pannelli solari a gogo rendono energicamente indipendente la nuova avveniristica struttura sanitaria

Africa ExPress
Cotonou, 18 dicembre 2024

Dall’inizio di settembre 2024 è attivo il Centro Ostetrico “S. Antonio da Padova” a Kraké, un quartiere nella periferia di Cotonou, città  situata nella parte sud-orientale del Benin.

Inaugurazione del Centro Ostetrico S.Antonio da Padova in presenza di Mario Marini, presidente di MMIA ODV

50 parti

La nuova struttura è stata finanziata dall’associazione MMIA ODV (Medici e Maestri in Adozione onlus), il cui presidente è il medico Mario Mariani. In soli due mesi di attività, cinquanta donne hanno scelto di partorire nella nuova struttura. Una neo mamma ha persino dato alla luce tre gemelli.

Le visite pre e post parto sono state oltre 80. Inoltre sono state effettuate anche una settantina di ecografie da un medico formato grazie un programma di specializzazione sostenuto dall’associazione.

Pannelli fotovoltaici

Tutto ciò è stato possibile anche grazie a pannelli fotovoltaici, installati e donati da EF Solare La società è tra i principali operatori fotovoltaici in Europa. Gode di una partecipazione del 70 per cento di fondi di F2i Sgr (più grande gestore indipendente italiano di fondi infrastrutturali, ndr) e del 30 per cento da Crédit Agricole Assurances.

Pannelli fotovoltaici EF solare

Grazie ai pannelli,  collegati ad un sistema di accumulo, il centro ostetrico è operativo 24 ore su 24. Il sistema è “stand alone” ed è sufficiente per assicurare il 100 per cento del fabbisogno energetico della struttura.

Nuove sale

Il “S. Antonio da Padova” punta in alto. Non si accontenta dei risultati ottenuti in così breve tempo. Vorrebbe  diventare un centro d’eccellenza per la salute femminile a Kraké. Infatti sta progettando, in collaborazione con una ONG locale, ELEP (Enfance Libre et Epanouie), la costruzione di tre nuove sale per la radiologia (con un mammografo già disponibile),  microbiologia e piccola chirurgia, compresi interventi cesarei.

Sala parto del nuovo centro ostetrico a Kraké, Cotonou, Benin

Basta spostamenti 

Tutta la zona dispone di pochi servizi per mancanza di fondi. Ma, grazie la realizzazione del centro ostetrico, la popolazione femminile può ora godere di cure in loco, senza dover affrontare faticosi spostamenti e relativi costi di viaggio.

MMIA ODV è attiva non solo in Benin. Ha allestito scuole e centri medici nella Repubblica Centrafricana, a Zanzibar e persino in Amazzonia, in Buthan (in Asia) e ora sta terminando la realizzazione di centro odontoiatrico a Haiti.

Africa ExPress
@africexp

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Sul potere dei maratoneti africani non tramonta mai il sole: dall’Arabia alla Europa alla Cina

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
17 dicembre 2024

Un festival panafricano. In Arabia, Europa, Asia, imperversano i maratoneti, non proprio tutti di prima fascia, ma pur sempre di buon livello.

Abu Dhabi – Africa

La sesta edizione della Adnoc Abu Dhabi Marathon, sabato 14 dicembre, si è vestita tutta di…nero. Nella gara maschile dei 42,195 km al vincitore etiope Chala Ketema Regasa, 27 anni, col tempo di 2h06’33”, sono seguiti 4 keniani, un eritreo, un sudafricano e altri due etiopi. L’unico estraneo fra i primi 10 è stato il secondo classificato, Ibrahim Hassan, 27 anni, di Gibuti. Terzo è giunto Wilfred Kirwa Kigen (2h06:47).

Nella competizione femminile, alla spalle della kenyana Catherine Reline Amanang’Ole , 22 anni, si sono piazzate – per limitarci alle prime 8 – l’eritrea Dolshi Tesfu Teklegergish, 25 anni, la keniota Aurelia Jerotich KIPTUI, 28 anni, e ben sei altre etiopi.

Record di presenze

L’evento sportivo della capitale degli Emirati Arabi Uniti (e dell’ omonimo emirato) è “giovane” ma in continua crescita: quest’anno ha attirato 33 mila iscritti, record di presenze in 6 anni.

È pur vero che i top runners l’hanno disertato, ma sul piano tecnico, nell’insieme, non ha deluso: i primi tre sono scesi sotto le 2 ore e 7 minuti e il monte premi è pur sempre stato sostanzioso, 300 mila dollari, di cui 50 mila ai vincitori.

“Sono molto orgoglioso e onorato di essere il primo etiope a vincere questa maratona – ha dichiarato Regasa – Ora tiro un po’ il fiato e poi riprendo gli allenamenti per portare gloria al mio Paese”.

Bronzo mondiale

Fra le donne, c’era un’osservata speciale – ha scritto la Fidal nel suo sito –  la giovanissima keniana Catherine Reline Amanang’ole, bronzo mondiale sulla mezza maratona (1h05:39), quest’anno a Copenhagen.

All’ombra degli iconici grattacieli di Abu Dhabi, Catherine ha fatto il suo esordio vero sui 42 km con successo, fermando il cronometro su un tempo buono ( 2h20’ 34”) e distaccando di 3 e 6 minuti le immediate inseguitrici.

Fino a sabato aveva percorso la distanza altre due volte, a Londra, ma facendo la pacemaker, ovvero da apripista per atlete più titolate. “Sono eccitata e incredula per questo successo – ha commentato Catherine sul traguardo – le condizioni climatiche e il percorso piatto mi hanno favorito, ma non pensavo davvero di vincere!”.

Europa 

Dalla penisola araba corriamo in Europa, alla penisola iberica: altro festival, altre triplette. A Malaga, in Spagna, domenica 15 dicembre, alla 14a edizione della General Malaga Marathon, (16 mila iscritti, col 60 per cento di stranieri!), primo è stato il keniota ventiquattrenne Vincent Kipkorir Kigen (2h08:05), che ha staccato il compatriota Micah Kipkosgei Chemweno (2h09:21) e l’ugandese Andrew Rotich Kwemoi (2h10:20), 24 anni, campione nazionale sui 10 mila metri.

Al femminile, un altro terzetto sul podio, ma tutte delle ragazze etiopi: sul gradino più alto, Aynalem Desta Gebre (2h25:10), con a fianco Adanech Mesfen Mekonen (2h26:01) e la 19enne Gojjam Tsegaye Enyew (2h26:13), all’esordio in maratona e nota per il quinto posto alla Stramilano del marzo scorso. Una stella emergente, viene definita.

Giornata gloriosa

Dalla Spagna alla Turchia, il 15 dicembre è stata un’altra giornata gloriosa per i runners africani. A Mersin (sud della Turchia), la favorita ugandese Juliet Chekwel, 34 anni, ha rispettato il pronostico con un successo in 2h29:18 sulle keniane Deborah Sang (2h30:29) e (altra trentaquattrenne) Truphena Chepchirchir (2h31:06).

E nella corsa maschile, chi riporta il titolo? Un keniano, al suo primo trionfo in carriera. Bethwell Kipkemboi, 31 anni, in 2h08:13 la spunta sul connazionale Boaz Kipkemei (2h08:24).

Terzo il turco ex-keniano Ilham Tanui Özbilen, 34 anni, con il personale portato a 2h08:36, migliorando il 2h08:59 del sesto posto nella maratona di Milano 2024. Ma veramente pare che sul dominio dei runners africani non tramonti mai il sole. Voliamo a Taipei, nell’Asia più lontana.

Pure a Taiwan

Qui ha tagliato solitario il traguardo, il keniano Brimin Kipkorir Misoi in 2h11:41, che ha superato  l’etiope Gadisa Birhanu, 32 anni, e il trentottenne eritreo Okubay Tsegay.

Maratoneta contadino

Brimin Kipkorir Misoi, vincitore della maratona di Tapei (Taiwan)

Brimin, 35 anni, non è un maratoneta qualunque. Originario di Kapkitony, si considera un contadino, perché quando non gareggia aiuta la famiglia a coltivare i campi per far crescere piselli e mais e curare il bestiame.

Tra le difficoltà a  trovare un manager che lo assistesse e tanti guai fisici, aveva pensato di ritirarsi dalle corse. Poi ha resistito e negli m ultimi anni ha trionfato per due volte di seguito a Francoforte, poi a Sydney e a Nairobi. E ora in Cina, nella capitale di Taiwan.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Maschi impotenti e aborti spontanei: in Namibia popolazione avvelenata da discarica delle multinazionali

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
16 dicembre 2024

Due multinazionali sono responsabili della disfunzione erettile degli uomini namibiani e degli aborti delle donne. Le aziende sono la svizzera IXMetals (IXM) e la canadese Dundee Precious Metals (DPM) che da 14 anni in Namibia gestisce l’impianto per conto IXM.

arsenico e tavola periodica
Roccia di arsenico e simbolo nella tavola periodica degli elementi

Trecentomila tonnellate di veleno

Il giornale svizzero Ticino on line riporta che si tratta una megadiscarica nella quale sono state sversate 300 mila tonnellate del micidiale veleno, residuo dell’estrazione del rame e dei lavori in fonderia. Succede nell’area di Tsumeb, capitale della regione di Oshikoto, Namibia settentrionale, un centinaio di km a sud-est del Parco nazionale Etosha.

Sia i dipendenti che i residenti di Tsumeb, (11.000 abitanti) hanno alti tassi di avvelenamento da arsenico dovuto alle infiltrazioni nelle falde acquifere. La denuncia viene dalla Svizzera, portata avanti dalla “Coalizione per multinazionali responsabili”, unione composta da 96 organizzazioni della società civile.

Impedita la pubblicazione dei dati

Eppure i dati dell’avvelenamento da arsenico erano conosciuti già dal 2011. Il governo della Namibia aveva cofinanziato uno studio che mostrava una situazione allarmante: tra la popolazione della regione quasi una persona su sei aveva livelli di arsenico superiori al limite fissato dall’OMS.

Uno dei ricercatori, che vuole rimanere anonimo, ha confessato alla Coalizione che gli è stata impedita la pubblicazione dei dati.

arsenico Dundee precious metals
Sito della Dundee precious metals (Courtesy GoogleMaps)

Non solo impotenza e aborti

Oltre alla disfunzione erettile gli abitanti di Tsumeb, avvelenati dal metalloide, soffrono di altri sintomi. Tra questi anche “cecità temporanea o permanente e il loro corpo è colpito da eruzioni cutanee con pustole che esplodono e sanguinano”, scrive il quotidiano svizzero.

L’attivista namibiana Lisken Claasen: “Qui siamo tutti avvelenati. Siamo seriamente preoccupati per la nostra salute, i nostri uomini stanno diventando impotenti – ha raccontato il giornale ticinese -. Molte persone soffrono di diabete o pressione alta, ci sono tanti aborti spontanei e neonati con disabilità. Devono almeno garantirci cure gratuite”.

Discarica venduta ai cinesi

Dopo 14 anni di inquinamento e gravissimi danni alla salute della popolazione le due multinazionali volevano liberarsi del “problema” e hanno venduto ai cinesi.

Ci sono voluti mesi di trattative e, nel settembre scorso, la cinese Sinomine Resource Group ha acquisito la fonderia e la discarica. I canadesi di DPM avevano fatto un investimento vicino ai 500 milioni di dollari e il tutto è stato svenduto a Sinodine per 15,9 milioni. Come dire: “Sbarazziamoci prima possibile del problema”. Anche perché nuovi gestori si assumeranno la responsabilità legale della discarica.

arsenico - posizione geografica di Tsumeb
Posizione geografica di Tsumeb (Courtesy EJAtlas – Global Atlas of Environmental Justice)

Il business di Sinomine

Molti si chiederanno perché Sinomine Resource Group si è voluta impelagare nella grana creata da IXP e DPM. Sicuramente il prezzo di acquisto è stato molto conveniente. Secondo l’agenzia Reuters la discarica contiene 746 tonnellate di germanio. Questo è un metalloide utilizzato nei semiconduttori e nella produzione di chip, nella tecnologia a infrarossi, nei cavi a fibre ottiche e nelle celle solari.

Il germanio è solo uno dei metalloidi presenti nella discarica. Secondo una relazione tecnica le code di fusione contengono anche circa 410 tonnellate di gallio metallico e oltre 209 mila tonnellate di zinco metallico. Ma anche 14.300 tonnellate di rame, 5.300 di molibdeno, 743 di antimonio e 61.700 di piombo.

Un tesoro che speriamo non vada solo nelle tasche degli azionisti ma che sia anche utilizzato per bonificare l’area inquinata e risarcire equamente e curare la popolazione avvelenata di Tsumeb.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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