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La macchina della propaganda di Israele sempre più aggressiva e totalitaria

Speciale per Africa ExPress
Federica D’Alessio*
3 gennaio 2025

Per il 2025, Israele ha stanziato una cifra ulteriore di 150 milioni di euro per la hasbara, la sua industria propagandistica. Soldi che si aggiungeranno a quelli già a budget.

Propaganda di Israele

Attraverso la hasbara, Israele riesce non solo a far passare le sue veline come se fossero notizie, ma anche a oscure e minimizzare la copertura dei quotidiani atti di barbarie che commette sui palestinesi, o far sì che vengano sempre contestualizzati come autodifesa necessaria e legittima o guerra di risposta al terrorismo.

Discorso legittimante

Laddove l’opinione pubblica che si forma dal basso è ormai ovunque nel mondo occidentale largamente favorevole a un cessate il fuoco in Palestina e critica verso l’operato israeliano, per i sostenitori del genocidio e del complessivo impianto suprematista e colonialista di Israele contro i palestinesi e i popoli arabi di tutta l’area, la reitezione di un discorso legittimante e giustificazionista si fa ogni giorno più importante, quasi obbligata.

Quel che è peggio tuttavia, della hasbara, è la grande energia che i propagandisti filosionisti dedicano ad attaccare chi prova a informare ma anche a esprimere le proprie posizioni secondo i criteri della verità dei fatti, dell’indipendenza di pensiero e dell’umanità di sguardo.

Infangare le reputazioni

Israele conta sull’alleanza di professionisti dei media, personaggi politici e figure note, delle associazioni come l’AIPAC americana o delle comunità fedeli allo Stato ebraico, come la Comunità ebraica italiana, che si dedica costantemente a infangare la reputazione di giornalisti o personalità sgradite e ad invocare censure e reprimende nei loro confronti.

Uccisioni di persone a Gaza

Di tutte, le voci palestinesi sono in assoluto le più censurate e le più infangate. Il modo in cui i giornalisti palestinesi o arabi sono trattati dai media occidentali è un’estensione dell’uccisione sistematica che subiscono a Gaza e in Cisgiordania, dove persino l’ANP si è messa ora a fare il lavoro sporco di attacco all’informazione per conto di Israele.

Tensione alla BBC

Un’inchiesta del giornalista Owen Jones nel Regno Unito ha svelato il clima di tensione e difficoltà all’interno della BBC britannica, il broadcast televisivo e informativo più visto al mondo.

Tredici giornalisti hanno parlato con Jones raccontando il filtro esercitato da uno dei redattori della testata, Raffi Berg, in forze alla divisione Medio Oriente delle news online, il cui lavoro, hanno dichiarato i colleghi a Jones, consiste nell’ ”annacquare tutto ciò che contenga critiche nei confronti di Israele”.

Nel giugno scorso oltre 100 giornalisti della rete hanno manifestato disappunto con una lettera aperta per la copertura, irrispettosa degli standard minimi del giornalismo, che la BBC stava offrendo delle vicende palestinesi. La loro protesta non ha sortito il minimo effetto.

Attacco a Guardian e New York Times

La BBC non è certo un caso isolato. I giornali tradizionalmente progressisti della anglosfera, dal Guardian al New York Times, a tante televisioni e canali statunitensi, hanno visto in questi mesi centellinare, quando non sparire del tutto, la presenza di giornalisti e ospiti di origine palestinese e sono stati spesso contestati per aver offerto una “visione faziosa” delle vicende in corso.

Le lamentele nel mondo laburista britannico per il modo in cui riportando le notizie coprono responsabilità e nefandezze israeliane vanno avanti, d’altro canto, da anni.

Basta leggere le tante notizie scritte nel tempo da “Jewish Voice for Labour”, una comunità di ebrei laburisti “iscritti, ex iscritti o mai stati iscritti al partito laburista”, dove per anni ha tenuto banco la guerra contro Jeremy Corbin accusato di antisemitismo e ostracizzato nel partito all’interno del quale godeva di una forte leadership.

Fedele esecutore

Keir Starmer, suo successore alla guida dei laburisti e oggi Primo ministro, di contro rappresenta un fedele esecutore di tutti gli interessi israeliani.

Anche i social network sono parte della stessa rete. Da oltre un anno numerose associazioni hanno svelato come Meta, l’azienda proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, applichi un oscuramento sistematico dei contenuti di provenienza palestinese.

Su Instagram sono stati bannati giornalisti palestinesi con milioni di follower. Meta nel corso del tempo ha promosso numerosi ufficiali israeliani a ruoli apicali, e nei mesi scorsi ha assunto Jordana Cutler, ex consigliera di Netanyahu e del Likud, nel ruolo di responsabile della moderazione dei contenuti sulle piattaforme social relativi al Medio Oriente.

Oscurare contenuti

Cutler non si è fatta attendere, e ha immediatamente oscurato i contenuti pubblicati da realtà solidali con il popolo palestinese, fra cui la rete “Students for Justice in Palestine”.

Clima cerchiobottista

E in Italia? In Italia siamo immersi nel solito clima provinciale, parolaio e inconsistente, cerchiobottista quando va bene, palesemente arruolato nella maggior parte dei casi.

Nessuna novità di rilievo, se non che anche le pochissime voci palestinesi di cui la nostra televisione godeva, come quella della giornalista Rula Jebreal, sono state di fatto censurate e scomparse dai palinsesti, oltre che costantemente attaccate e infangate da esponenti dell’hasbara nelle grandi chat in cui l’intellighenzia progressista si rifugia, per illudersi di avere ancora una qualche incidenza.

Attacco anche a Report

Una delle poche trasmissioni che ha davvero detto qualcosa di interessante su Israele e sulla guerra genocidaria di Israele contro i palestinesi è Report, che ha svelato innanzitutto le commistioni e complicità della comunità mondiale degli Stati con Israele sul piano degli affari militari.

Israele è un grandissimo esportatore di tecnologia digitale militare, laddove invece riceve aiuti indispensabili, prima di tutto dagli Stati Uniti, per quanto riguarda l’industria militare pesante.

Report è stata prontamente attaccata dall’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), e ora si trova attaccata anche dal governo.

I partiti di maggioranza hanno di recente chiesto alla RAI, infatti, di privare la trasmissione della manleva, la tutela legale che solleva i giornalisti da rischi penali ed economici.

Temi delicati

La richiesta sembra sia arrivata dopo aver coperto le vicende che hanno interessato l’ex ministro Sangiuliano, ma certamente, se mai dovesse divenire realtà questa richiesta, colpirebbe la trasmissione su tutti i temi più delicati, in primis la copertura del genocidio israeliano e della politica israeliana.

Quel che infatti della hasbara è in assoluto più grave è che la propaganda da loro copiosamente finanziata e sostenuta non si limita a sovrapporsi al giornalismo per confondere le acque o macchiare la verità con la post-verità, come da copione della rete internazionale trumpiana-bannoniana, di cui Netanyahu e Israele tutto, radicalizzato ormai saldamente come un Paese suprematista e razzista fino alla ferocia assassina, rappresentano una branca fondamentale.

La hasbara si insinua nei governi e nelle leggi allo scopo di perseguitare i giornalisti.

Di nuovo, è in Gran Bretagna che questa tendenza si sta manifestando ai livelli più preoccupanti. Attraverso una “legge antiterrorismo” tanto draconiana e autoritaria quanto può esserlo la legge russa sugli agenti stranieri, già mesi fa sono stati arrestati attivisti e giornalisti schierati con il popolo palestinese.

Fra questi il controverso giornalista Richard Medhurst, arrestato ad agosto sulla base della Section 12 del Terrorist Act inglese, in base al quale rappresenta un crimine anche esprimere opinioni in favore di un’organizzazione considerata terroristica (“proscribed organisation”).

Svelare le fonti

In seguito all’arresto, dopo averlo rilasciato le autorità hanno intimato a Medhurst di svelare le sue fonti consegnando le password dei suoi strumenti di lavoro.

Il giornalista si è opposto, e ora, come ha scritto sul Fatto Quotidiano la giornalista Stefania Maurizi, “Le autorità inglesi potrebbero anche ricorrere alla corte e ottenere una sentenza del giudice che ordini al reporter di consegnarle. Se Richard Medhurst non lo farà, rischierà tra i due e i cinque anni di carcere.”

Verità dei fatti

Il giornalismo investigativo indipendente si basa per intero sulla protezione delle fonti. Obbligare un reporter a rivelarle significa metterle a rischio, compreso mettere a rischio anche la loro stessa vita; e quindi far sì che le fonti non possano mai più fidarsi dei giornalisti.

Un colpo di grazia per la possibilità di condurre inchieste alla ricerca della verità dei fatti. È così che la hasbara vince, così che la democrazia muore.

Federica D’Alessio*
*Ex redattrice di MicroMega, cura il portale
di informazione indipendente Kritica
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Zambia: poliziotto ubriaco libera detenuti per brindare al nuovo anno

Africa ExPress
Lusaka, 3 gennaio 2025

Titus Phiri, ispettore di polizia in servizio al commissariato Leonard Cheelo a Lusaka, la capitale dello Zambia, ha iniziato a festeggiare la fine dell’anno già nella mattinata del 31 dicembre 2024. E, mentre era in servizio in evidente stato di ebbrezza, ha liberato 13 sospetti, rinchiusi nelle celle della stazione di polizia.

Secondo quanto riferito da Rae Hamoonga, portavoce della polizia dello Zambia, Titus Phiri si sarebbe impossessato con la forza delle chiavi delle celle, custodite dalla collega Serah Banda. Poi avrebbe fatto scappare i 13 detenuti, accusati prevalentemente di crimini come aggressioni, rapine, furti con scasso, per permettere loro di brindare al nuovo anno in libertà. Poi è fuggito anche l’ispettore.

Niente brindisi

Mentre i 13 sospetti criminali sono tutt’ora in libertà, l’ispettore è stato riacciuffato poche ore dopo la sua “bravata”. Niente brindisi a mezzanotte per lui, giaceva solitario in una delle celle della stazione di polizia.

Caccia ai prigionieri

Ora è caccia all’uomo. Le forze dell’ordine hanno diramato un bollettino con il nome dei 13 sospetti, chiedendo anche la collaborazione della cittadinanza per poterli arrestare quanto prima.

E, come ricorda la BBC nel suo articolo, un incidente simile si era verificato già nel 1997, facendo riferimento a un post su Facebook di Dickson Jere, avvocato e ex consigliere di Rupiah Bwezani Banda, quarto presidente del Paese.

Scena comica

“Continuo a ridere ogni volta quando immagino la scena, assai comica! Ma poi mi ricordo di un incidente simile avvenuto nel 1997”, scrive Jere e racconta:

“La notte di capodanno del 1997, Kabazo Chanda, controverso giudice dell’Alta Corte, ormai deceduto, aveva ordinato il rilascio di 53 detenuti, alcuni ritenuti criminali pericolosi. Chanda, era molto irritato dal fatto che i sospetti erano stati arrestati già nel 1992, ma non erano ancora comparsi in tribunale”.

“Una giustizia ritardata è giustizia negata”, aveva sottolineato allora il giudice.

Africa ExPress
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Zambia: altri articoli li trovate QUI

 

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Calciatore belga-congolese arrestato e picchiato a Fiumicino per conto di Israele

Abu Dhabi Marathon 2024

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
2 gennaio 2025

“Questo arresto è solo la punta visibile dell’iceberg. Molte persone che mi somigliano non possono trovare lavoro, non hanno accesso alla casa o non possono partecipare agli sport che amano, semplicemente perché sono nere. Dobbiamo essere uniti e alzare la voce per educare coloro che ci circondano i nostri colleghi, vicini e amici, su questo problema che affligge la nostra società e ne ostacola il progresso”.

Stephan Omeonga, calciatore belga-congolese

Calciatore denuncia

Si conclude così l’appello, che è anche una terribile denuncia, di Stephan Omeonga, 28 anni, cittadino belga di genitori congolesi, calciatore del Bnei Sakhnin F.C., squadra israelo-araba della omonima cittadina della Bassa Galilea, dopo quello che gli è successo a Fiumicino il 25 dicembre.

Per Stephan Omeonga sarà un giorno di Natale difficile di dimenticare. Ma anche per l’Italia, succube di quello che sembra un inaccettabile diktat israeliano.

Il giocatore, noto per le sue esperienze italiane nell’Avellino, Genoa e Pescara fino a 3 anni fa e per il suo impegno contro il razzismo, si trovava sull’aereo diretto a Tel Aviv, proveniente dal Belgio.

Poco prima del decollo….

Ma lasciamo a che sia lo stesso Stephan a ricostruire la vicenda come ha fatto su Instagram.

Una vicenda che fa venire in mente uno studio della ricercatrice italiana permanente presso il Centro di Studi Sociali (CES) dell’Università di Coimbra, Gaia Giuliani, intitolato “Mediterraneità e bianchezza. Il razzismo italiano tra fascismo e articolazioni contemporanee”. Fascismo e razzismo, ovvero un binomio difficile da scindere e sradicare in Italia.

La “vittima” riferisce

“Dopo essere salito sull’aereo e aver preso posto, uno steward mi ha avvicinato per un presunto problema con i miei documenti e mi ha chiesto di lasciare l’aereo. Sicuro della validità dei miei documenti, gli ho chiesto con calma che tipo di problema ci fosse”.

“È stata chiamata la polizia, sono stato ammanettato e portato fuori con la forza dall’aereo. Una volta fuori dall’aeromobile, lontano dalla vista dei testimoni, la polizia mi ha gettato violentemente a terra, mi ha picchiato e uno di loro mi ha premuto il ginocchio sulla testa”.

“Sono stato poi portato in un veicolo della polizia, ammanettato come un criminale, all’aeroporto. È arrivata un’ambulanza, ma in stato di shock, non sono stato in grado di rispondere alle domande dei paramedici. Poco dopo, ho sentito dalla radio della volante della polizia: ‘Ha rifiutato le cure mediche; va tutto bene’. Questo era completamente falso, ho chiesto loro di portarmi in ambulanza con loro, spaventato da ciò che la polizia avrebbe potuto farmi”.

Stanza grigia

Poi, sono stato messo in una stanza grigia, senza cibo né acqua, e lasciato in uno stato di totale umiliazione per diverse ore. Dopo il mio rilascio, ho saputo che un agente di polizia aveva sporto denuncia contro di me per le lesioni presumibilmente causate durante l’arresto, nonostante fossi ammanettato. Inoltre, fino a oggi, non ho ricevuto alcuna giustificazione per il mio arresto”.

“Come essere umano e padre, non posso tollerare alcuna forma di discriminazione. Questo arresto è solo la punta visibile dell’iceberg. Molte persone che mi assomigliano non riescono a trovare lavoro, non hanno accesso a un alloggio o non possono praticare gli sport che amano, semplicemente perché sono neri. Dobbiamo essere uniti e alzare la voce per educare coloro che ci circondano, i nostri colleghi, vicini e amici, su questo problema che affligge la nostra società e ne ostacola il progresso. Pace”.

Video

Nel post su Instagram, c’è anche un video in cui si vedono due poliziotti che lo aggrediscono mentre si trova sul volo: uno dei due lo prende per la gola mentre l’altro lo spinge fuori dall’aereo.

Black list di Israele

Secondo la Polizia, l’arresto sarebbe avvenuto dopo una mediazione di 40 minuti e su mandato di Israele, perché Omeonga sarebbe nella black list di Tel Aviv; quindi, il suo rientro nel Paese di Netanyahu non sarebbe gradito. La Polaria sarebbe intervenuta su richiesta del capo scalo e del comandante della compagnia aerea.

Omeonga gioca in una squadra di Premier League di Israele dove vive dallo scorso anno. Nella rosa del Bnei Sakhnin ci sono 19 calciatori di nazionalità israeliana, due del Camerun, uno del Ghana, uno dell’Ucraina, uno di Cipro, uno della Palestina, uno del Belgio. Stephane, appunto.

Squadra di calcio Bnei Sakhnin, Israele

Comunque la si giri, l’intervento della nostra Polizia di frontiera deputata a sventare soprattutto attacchi terroristici suscita gravi interrogativi. È vero che i tifosi della squadra arabo israeliana sventolano bandiere palestinesi e questo non fa certo piacere a chi a Gaza ha fatto il deserto e (non) l’ha chiamata pace (per ricordare il detto di Tacito).

UE contro razzismo

È anche vero che appena nell’ottobre scorso la Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa aveva denunciato le forze dell’ordine italiane per la profilazione razziale che compiono durante le attività di controllo, sorveglianza e indagine, soprattutto nei confronti della comunità rom e delle persone di origine africana.

Lavoro “sporco” all’Italia

Ma, detto tutto questo, viene da chiedersi: se il calciatore era diventato davvero così pericoloso per Israele, dove peraltro vive e sarebbe atterrato poche ore dopo lo scalo a Fiumicino, perché Israele ha demandato il lavoro “sporco” alla polizia italiana?

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il nostro augurio ai media per il 2025: abbandonare il sistema del doppio standard

Africa ExPress e Senza Bavaglio
1° gennaio 2025

Lo scriveranno tutti che il 2024 è stato caratterizzato dalle guerre e conflitti. Ma a parte gli scontri che stanno devastando l’Africa – e di cui si parla pochissimo – una delle cose di cui noi operatori dei media dovremmo occuparci, e portare alla ribalta, è il doppio standard con cui viene fornita ai lettori, ai radio ascoltatori e ai telespettatori l’informazione.

Ahmed Hussein al-Sharaa, da ex capo jihadista a leader della Siria

La frase di geopolitica forse più azzeccata del 2024 è stata pronunciata da Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, quando ha detto più o meno così: “Quella di terrorista è una qualifica politica che viene data per ragioni politiche e come tale può essere tolta. Un giorno sei terrorista, un altro sei premio Nobel per la Pace, poi magari torni terrorista”.

Capo islamista

Il riferimento era al capo jihadista siriano Ahmed Hussein al-Sharaa, meglio conosciuto con il nome di combattimento Abu Mohammad al-Julani, sulla cui testa gli americani avevano messo una taglia di 10 milioni di dollari.

L’ex capo jihadista siriano, allora conosciuto con il nome di combattimento Abu Mohammad al-Julani

La promessa di una ricompensa è stata cancellata in dicembre dopo che i miliziani islamisti, con l’aiuto delle armi e della logistica USA hanno cacciato da Damasco il tiranno Bashar Al Assad.

Valore assoluto

Caracciolo ha centrato il segno evidenziando come le qualifiche e le definizioni non abbiano un valore assoluto ma relativo a si possono modificare a seconda delle convenienze del momento.

Purtroppo, il giornalismo italiano applica il criterio del doppio standard in continuazione. Ciò è dovuto principalmente al fatto che la maggior parte dei mass media ha abdicato al ruolo di mezzi di informazione e abbracciato invece la funzione di strumento di lotta politica.

Agone della politica

E quando si scende nell’agone della politica è il fine che giustifica i mezzi per raggiungerlo.

In altri termini passa il principio moralmente discutibile secondo cui se si valuta essenziale raggiungere un obiettivo, allora scompaiono tutti i limiti a ciò che si può fare per raggiungerlo.

Anche cambiare le qualifiche degli altri interpreti sul palcoscenico della politica.

Nemico giurato

Un nemico giurato può facilmente diventare un alleato fedele. Ovviamente abiurando a giudizi e politiche tenuti in precedenza.

Come giustificare tutto questo davanti all’opinione pubblica è del tutto irrilevante per i professionisti del voltagabbana.

Il doppio standard prevede che il nostro amico politico può fare tutto quello che al nostro nemico viene rimproverato o rinfacciato.

Altro esempio di questi tempi è stato l’atteggiamento tenuto dai media nei casi del mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu.

Stesso reato

I due leader sono accusati dello stesso reato: crimini di guerra. Ma mentre contro Putin il mainstream ha assunto toni accusatori giudicando favorevolmente la decisione della Corte, nel caso di Netanyahu ha parlato di decisione incomprensibile e razzista.

Occorre ricordare che un reato, indipendentemente da chi lo commette resta un reato.

Se il doppio standard vale per la politica (ma secondo noi anche ciò è discutibile) non può sicuramente valere per il giornalismo.

Il giornalismo non è un crimine

“Il giornalismo non è un crimine”, ripetono oggi (giustamente) i difensori di Cecilia Sala tenuta in carcere a Teheran. Peccato che molti di questi claqueur a comando sul caso di Julian Assange abbiano tenuto un comportamento equivoco o addirittura giustizialista (c’è chi addirittura l’ha definito “losco figuro”).

Julian Assange

Sperando che chi si dichiara giornalista – e quindi debba interpretare questo mestiere con onestà intellettuale – si renda conto che il principio del doppio standard implica la negazione della democrazia e dell’informazione, le redazioni di Africa ExPress e di Senza Bavaglio augurano ai propri lettori e sostenitori un felice e prospero 2025.

Africa ExPress
Senza Bavaglio

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Centrafrica: una statua per onorare l’ex leader dei mercenari Wagner, morto nel 2023

Africa ExPress
31 dicembre 2024

La presenza della Russia e degli uomini di Africa Corps (ex Wagner, ma in Centrafrica continuano a essere chiamati con il vecchio nome) è stata immortalata il 3 dicembre scorso con una statua in bronzo.

Statua a Bangui, Centrafrica: Yevgeny Prigozhin con accanto il suo vice Dmitru Utkin

Nella capitale Bangui è stato eretto un monumento in onore dell’ex leader del gruppo mercenario russo Wagner, Yevgeny Prigozhin, e del suo braccio destro Dmitru Utkin, entrambi morti in un misterioso incidente aereo lo scorso anno.

Monumenti pro Russia

La statua mostra Prigozhin con un giubbotto antiproiettile mentre tiene in mano un walkie-talkie con accanto il suo collega che impugna un fucile AK-47, meglio conosciuto come Kalashnikov.

Non è la prima testimonianza della presenza dei paramilitari russi “espressa in arte”. Nella capitale esiste da tempo un altro monumento con tre mercenari mentre fanno scudo a una donna e ai suo bambini.

Altra statua a Bangui: 3 mercenari russi che fanno da scudo a una donna e i suoi figli

Nel 2017 il presidente centrafrocano, Faustin Archange Touadéra, si era recato in Russia, dove aveva incontrato il ministro degli esteri di Putin, Sergueï Lavrov. E, all’inizio del 2018, dopo aver ottenuto dall’ONU una parziale abolizione  dell’embargo, Mosca ha inviato un primo carico di fucili d’assalto, pistole e lanciarazzi RPG.

Collaborazione Mosca – Bangui

Dopo il viaggio di Touadéra in Russia, i due governi hanno iniziato una stretta collaborazione: Mosca gode di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio mette a disposizione equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura e altro. Insomma, anche il Cremlino, come molti altri Stati, è solamente interessato alle ricchezze del sottosuolo africano.

Wagner e l’oro

I primi mercenari di Wagner sono arrivati nel 2018. Oltre ad addestrare le truppe centrafricane, i paramilitari russi conducono incursioni contro i gruppi ribelli. Ma il motivo fondamentale della loro presenza restano i siti minerari: i membri di Wagner si sono assicurati diritti per l’estrazione dell’oro, mentre altre volte se ne sono appropriati, attaccando giacimenti e mandando via coloro in possesso delle licenze. Così anche il prezioso metallo proveniente dall’Africa ha permesso al Cremlino di aggirare le sanzioni internazionali, imposte a causa dell’invasione dell’Ucraina.

La Repubblica Centrafricana è uno tra i più poveri del mondo, nonostante le immense ricchezze del sottosuolo (oro, diamanti, uranio) ma anche il legno pregiato delle sue foreste).

Insicurezza

Dall’indipendenza dalla Francia nel 1960, il Paese è stato quasi sempre instabile. La guerra civile è iniziata nel 2013, ma la sua intensità è notevolmente diminuita dopo il 2018, e si è trasformata gradualmente in scontri sparsi e sporadici. Da un lato sono sempre attivi movimenti armati ribelli e dall’altro, l’esercito, insieme ai paramilitari di Mosca e alcune milizie di autodifesa che fungono da ausiliari.

Nonostante i molteplici accordi di pace, siglati tra i gruppi armati e il governo (l’ultimo risale al 2019), a tutt’oggi in diverse zone del Paese la situazione resta ancora instabile. L’insicurezza, ormai diventata cronica, ostacolando un miglioramento delle condizioni di vita della gente.

Abusi e violenze

Molto spesso giornali locali, come CNC  (Corbeau News Centrafrique), denunciano assalti e violenze ai civili, e nella primavera scorsa anche MINUSCA (Missione di Pace dell’ONU nel Paese) aveva accusato i paramilitari dell’uccisione di al meno 14 persone in diverse località  del Paese.

Caschi blu di MINUSCA

I caschi blu sono presenti dal 2014 con oltre 14mila militari e 3.020 agenti di polizia. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha rinnovato il loro mandato lo scorso novembre per un altro anno  (risoluzione 2759 (2024)).

In passato anche la ONG Human Rights Watch (HRW) aveva lanciato accuse contro i soldati di ventura. Ma nel Paese, che ha dato i natali a Jean- Bedel  Bokassa, un militare golpista megalomane, un tiranno che si autoproclamò imperatore dell’Impero Centrafricano, i mercenari russi godono di totale impunità.

Violazioni dei diritti umani di ogni genere sono state confermate anche nell’ultimo rapporto di Yao Agbetse, esperto indipendente dell’ONU. I mercenari hanno respinto tutte le accuse e affermato che queste denunce sono solamente propaganda occidentale contro la Russia.

Responsabile sicurezza

Mosca è ormai ben radicata in Centrafrica. Basti pensare che solo qualche mese fa Touadéra ha nominato Dmitri Podolsky, soprannominato “Salem”, responsabile per la sicurezza. Salem proviene dai ranghi di Wagner. Precedentemente era al soldo dell’esercito russo e ha combattuto in Siria. Nel 2017 si è arruolato come mercenario.

Recentemente è venuto alla luce che i membri di Wagner stanno arruolando giovani centrafricani (e anche di altri Paesi del continente) per combattere in Ucraina, a fianco delle truppe russe. Ovviamente il governo di Bangui ha bollato la notizia come falsa.

Prigionieri di guerra in Ucraina: tra loro anche africani

Secondo i servizi di Kiev, i giovani “fucilieri africani di Putin” sarebbero diverse migliaia, tra loro moltissimi centrafricani, “supervisionati dal ministro per il Bestiame e la Salute degli animali di Bangui, Hassan Bouba, prezioso alleato di Wagner, oggi Africa Corps”.

Il mondo ha dimenticato i bambini del Centrafrica

I media internazionali sono concentrati su altre guerre – Ucraina e Gaza – dimenticandosi quasi completamente di quanto succede nelle zone di conflitto in Africa. Nessuno parla dei tre milioni di bambini della Repubblica Centrafricana, tra i più poveri e i più fragili del mondo. Malnutrizione, accesso sanitario inadeguato e instabilità politica stanno mettendo il Paese sulla soglia di una crisi umanitaria.

Malnutrizione

La metà dei ragazzini non ha accesso al servizio sanitario e quasi il 40 per cento soffre di malnutrizione cronica. Solo pochi hanno la possibilità di usufruire di acqua potabile, di servizi igienici e di una sana alimentazione. Appena il 37 per cento frequenta regolarmente la scuola. Il loro Natale è stato ben magro.

Africa ExPress
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©RIPRODUZIONE RISERVATA

La Redazione di Africa ExPress augura a tutti suoi lettori un sereno anno nuovo!

https://www.africa-express.info/2024/10/15/i-tentacoli-della-russia-in-africa-wagner-arruola-giovani-centrafricani-per-combattere-in-ucraina/

https://www.africa-express.info/2024/07/11/i-bambini-dimenticati-della-repubblica-centrafricana/

https://www.africa-express.info/2023/08/10/stravolta-la-costituzione-con-un-referendum-farsa-il-centrafrica-si-trasforma-in-una-dittatura-filorussa/

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Photocredit: CNC

La giornalista Cecilia Sala arrestata a Teheran vittima della “Diplomazia degli ostaggi”

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
30 dicembre 2024

La Farnesina ha confermato l’arresto, in Iran, della giornalista Cecilia Sala. La reporter, 29 anni, è stata fermata nel suo albergo intorno a mezzogiorno del 19 dicembre dalla polizia di Teheran.

La giornalista del Foglio e di Chora Media è stata trasferita nel carcere di Evin, alla periferia della capitale iraniana. Cecilia, dal momento dell’arresto, si trova in cella d’isolamento nell’area dove vengono incarcerati i cittadini stranieri, dissidenti iraniani ma anche iraniani con doppia nazionalità.

Il capo d’accusa

Oggi, dopo undici giorni in galera arriva il capo d’accusa contro Cecilia Sala: violazione delle leggi della Repubblica Islamica dell’Iran. L’incriminazione è stata redatta dalla Direzione generale dei Media esteri del ministero della Cultura iraniano e della Guida Islamica. La nota ministeriale è stata ripresa dall’Agenzia iraniana IRNA.

“Il suo arresto è stato condotto in conformità con le normative vigenti – si legge -. Il ministero iraniano ha sempre accolto con favore i viaggi e le attività legittime dei giornalisti di vari organi di informazione internazionali, con l’obiettivo di aumentare la presenza dei media stranieri nel Paese e di tutelare i loro diritti legali. Una politica che è attivamente perseguita dall’attuale governo”.

Uno dei podcast di Cecilia Sala

La reporter era partita per Teheran il 12 dicembre con un regolare visto giornalistico di otto giorni. Stava lavorando su vari servizi sull’Iran e sulle donne iraniane per Chora Media, testata della quale è co-fondatore e direttore Mario Calabresi.

“Erano già stati pubblicati tre podcast – racconta Calabresi – e aveva materiale per pubblicare altre puntate”. In redazione aspettavano quella di giovedì 19, ultimo giorno in Iran ma, visto che nonostante la sua puntualità non era arrivata, hanno cercato di contattarla. Senza successo. E non risultava nemmeno al check-in di Teheran né tra i passeggeri del suo volo arrivato in Italia.

Situazione seguita dalla Farnesina

È stata quindi avvisata l’Unità di crisi della Farnesina . “L’Ambasciata e il Consolato d’Italia a Teheran stanno seguendo il caso con la massima attenzione sin dal suo inizio – si legge in una nota della Farnesina -.  Oggi (27 dicembre, ndr) l’ambasciatrice d’Italia, Paola Amadei, ha effettuato una visita consolare per verificare le condizioni e lo stato di detenzione della dottoressa Sala”.

Cecilia Sala ha avuto la possibilità di sentire al telefono la mamma in Italia ma non ha potuto parlare liberamente. La famiglia è stata informata sulla visita consolare.

Cecilia Sala Carcere di Evin, Teheran
Carcere di Evin, Teheran

A Malpensa, 16 dicembre

È interessante sapere cosa è successo il 16 dicembre. La Digos di Milano ha arrestato Mohammad Abedini Najafabadi, 38enne iraniano, all’aeroporto di Malpensa.

L’arresto è avvenuto su richiesta degli Stati Uniti che lo accusano di associazione a delinquere, cospirazione ed esportazione di componenti elettronici in Iran. Secondo gli USA, Najafabadi ha violato le leggi americane sul controllo delle esportazioni e sulle sanzioni. L’indagato ovviamente nega tutte le accuse. E qui inizia la partita a scacchi tra Washington e Teheran a spese di Roma.

Cecilia vittima di “diplomazia degli ostaggi”?

Sembra che la nostra Cecilia Sala sia capitata nel luogo sbagliato al momento sbagliato in una situazione che l’Iran sa utilizzare molto bene. Viene chiamata “diplomazia degli ostaggi”, sistema che usa fin dal 1979 e che fa considerare la Repubblica islamica come “diplomaticamente inaffidabile”.

Il suo ultimo podcast lo ha annunciato con un post su X il 17 dicembre: “Una conversazione sul patriarcato a Teheran”. Ma aveva pubblicato anche “Lei fa così ridere che le hanno tolto Instagram. Teheran comedy”. Argomenti scottanti e sicuramente non graditi alla Repubblica degli Ayatollah.

Ecco quindi l’arresto arbitrario di cittadini stranieri come Sala che si è mossa in luoghi e situazioni sicuramente poco graditi ai vertici iraniani.

I prigionieri vengono poi utilizzati come leva per ottenere favori da parte degli Stati di nazionalità dei fermati, in questo caso l’Italia. Ma anche per arrivare alla liberazione di detenuti iraniani all’estero.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri, preferisce non collegare l’arresto di Sala con quello di Najafabadi. Noi speriamo che Cecilia Sala ne esca indenne dalla partita a scacchi tra USA e Iran.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Muore il presidente Raisi e in un teatro iraniano va in scena un opera buffa di Dario Fo

Cade l’elicottero: a bordo il presidente iraniano Ebrahim Raisi

Iran: il regime aumenta la repressione dopo l’attacco israeliano

Non dimenticare Masha Amini: in un libro l’omicidio che un anno fa innescò le proteste in Iran

Il padre del programma nucleare di Teheran assassinato in un’imboscata in Iran

 

L’Ucraina e la volontà perniciosa di entrare nella NATO

Speciale Per Africa ExPress
Raffaello Morelli
Livorno, dicembre 2024
(2 – fine)
Il primo dei due articoli lo potete trovare qui:

Nel frattempo in Ucraina un trentasettenne russofono, laureato in legge e scrittore, Volodymyr Zelensky, fonda una casa di produzione Tv e a fine 2015 lancia la serie “Servo del popolo”, di cui è autore e attore protagonista.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky

Una satira imperniata su un professore che, partito da un’invettiva populista anticasta, arriva a candidarsi alla presidenza Ucraina riuscendo ad essere eletto.

Il grande successo si traduce in un film (2016) e in una seconda serie.  Ad inizio 2018, Zelensky crea un suo gruppo con il nome della serie.

Indirizzi occidentali

Il clima politico nel Paese resta dominato dagli indirizzi occidentali. Tanto che a febbraio 2019, nell’anniversario dei fatti di Maidan, viene modificata la Costituzione e, ancora senza rispettare gli accordi internazionali (Minsk 2), introdotto l’obiettivo dell’integrazione nella NATO e nell’Unione Europea.

Qualche settimana dopo, alle elezioni per il rinnovo del presidente, a sorpresa l’uscente Poroshenko venne sconfitto al secondo turno da Zelensky.

Da attore a presidente

L’attore diventato presidente, forte del messaggio della sua serie Tv, finanziatosi raccogliendo fondi online, aveva svolto una campagna alternativa alla vecchia classe dirigente impastata da forte corruzione risultata credibile. Aveva replicato la storia narrata dalla serie tv.

Petro Poroshenko, ex presidente dell’Ucraina

Tuttavia c’è un particolare. Nella campagna contro il filo occidentale Poroshenko, Zelensky aveva sostenuto la necessità di riprendere il dialogo con la Russia e il conciliare le aree russofone con le altre; entrato in carica, invece, ha adottato una linea schiacciata sull’indipendentismo filoccidentale ancor più oltranzista di Poroshenko. L’autocrazia Russa ha finito così per reagire all’insediarsi della NATO alle proprie frontiere.

Linea dell’espansione

L’Occidente non si è pentito della linea dell’espansione NATO tenuta nel decennio (una sfida continua) e ha accentuato i miti della guerra fredda, lanciando una grande campagna di sanzioni contro la Russia (seppure più titubanti del dichiarato, vedi Banca di Gazprom sanzionata solo oggi) e di propaganda scandalizzata contro Putin, il tutto tacciando i critici di essere filoputin con tarlo pacifista.

Poi, nei mesi successivi e fino ad oggi, l’occidente è passato al concreto fornendo all’Ucraina (sotto la direzione dei barricadieri Blinken, Segretario di Stato USA, e Stoltenberg, Segretario Nato), una quantità molto rilevante di soldi, di materiale bellico anche avanzato, di istruttori (vietandone l’uso diretto contro il territorio russo, per fortuna c’era Biden).

Piglio teatrale

In tutto il periodo, Zelensky ha tenuto un piglio teatrale e fatto montare l’indipendenza ucraina a cavallo della grancassa occidentale. Ha affermato che l’Ucraina non avrebbe rinunciato a Crimea e Donbass, e ha parlato di vittoria imminente celebrandola in ambito internazionale in presenza o sui media.

Senza mai occuparsi di rimuovere il morbo della corruzione e degli oligarchi, con l’obiettivo di sviluppare la libertà dei cittadini (obiettivo connaturato all’Occidente). Come era plausibile – e tanti avevano previsto per iscritto varie volte – nello scontro Russia e Ucraina avrebbe prevalso la Russia (che si era tutelata prendendo subito la centrale nucleare di Zaporizzja) e acquisito territori, cosa che al momento si sta realizzando (in specie ora con Trump apparentemente ostile a impegni bellici).

Immutato giudizio

Sulla vicenda ucraina l’Occidente deve urgentemente raddrizzare il modo di intendere la libertà. Lasciando immutato il giudizio sulla Russia e su Putin (istituzioni chiuse e personalità formata nei servizi segreti), cioè su un’autocrazia illiberale. Però tornando ad un utilizzo della libertà coerente alla concezione liberale che va maturando nel tempo ed è la più efficace sperimentata.

La libertà si impernia sul cittadino individuo che si relaziona in modo aperto con gli altri conviventi, così da massimizzare gli apporti della miriade di diversità esistenti nel conoscere e nell’intraprendere. Non limitandosi agli aspetti intellettuali di relazione e di attività ma  svolgendo il ruolo economico di produrre beni fondamentali per fornire risorse agli umani e far arretrare la povertà.

Nella vita quotidiana, la libertà deve operare quale libertà di scambio, nei rapporti tra persone e nelle cose. Va evitata la tentazione di tornare alla antica pratica della libertà imperiale quale manifestazione di superiorità del proprio stato istituzionale.

Contano i risultati

Non conta l’esibirsi, contano i risultati. E la libertà imperiale, oltre a rifiutare  in partenza la diversità, produce come risultati l’esiziale conformismo del politicamente corretto, irreggimenta i cittadini e accresce la miseria .

Adottare atti di “libertà imperiale” – quali le sanzioni economiche contro i nemici – è controproducente. A parte gli effetti collaterali nei vari territori sulle effettive condizioni di libertà dei cittadini, le sanzioni anti Russia sono state adottate solo dai Paesi più legati all’Occidente, e disapplicate da gran parte delle nazioni (circa due terzi), togliendo all’Occidente la centralità politico-culturale.

L’Ucraina non è il solo caso ove l’Occidente deraglia. Succede anche in Medio Oriente. Non sul tema Israele – che l’Occidente difende con fermezza – bensì sul rapporto con i Palestinesi. Che è soggetto a svariati distinguo di tipo umanitario, per mascherare indulgenza verso Paesi che fanno votare mentre l’articolo 1 della rispettiva Carta Istituzionale dà l’obiettivo di cancellare lo Stato d’Israele.

Diversità individuali

E’ un concetto contrapposto alla libertà di scambio tra diversità individuali. Non basta dire (Trump) la pace a Gaza dopo la sconfitta definitiva di Hamas. Il nodo palestinese da sciogliere sta nella pretesa di eliminare Israele.

Il mondo è di diversi. Urge che l’Occidente torni a praticare solo il messaggio della libertà di scambio.

Raffaello Morelli
(2 – fine)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il primo dei due articoli lo potete trovare qui:

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Anche a Natale nell’inferno del Sudan si muore: sotto le bombe o di fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
29 dicembre 2024

Se la vita sotto il dittatore Omar al-Bashir, – al potere per ben 30 anni e deposto nel 2019 – non era certo facile, dall’aprile 2023 la popolazione sudanese è precipitata nell’inferno. Oggi in Sudan si sta consumando la peggiore crisi umanitaria del pianeta.

Sudan: famiglie disperate alla ricerca di cibo e acqua

La guerra tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, de facto presidente e capo dell’esercito, non risparmia nessuno. Oltre 25 milioni di persone, cioè la metà della popolazione sudanese, soffrono la fame e più di 15 milioni hanno lasciato le proprie case  – tra questi 3,1 milioni hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi – per fuggire ai continui combattimenti.

Carestia confermata

Secondo il rapporto dell’ Osservatorio globale sulla fame, pubblicato il 23 dicembre, la carestia è già presente in 5 aree del Paese e potrebbe estendersi in altre 5 entro maggio 2025.

IPC (Classificazione dell’insicurezza alimentare acuta) ha confermato condizioni di carestia a Abu Shouk e al-Salam, due campi per sfollati a al-Fashir, capoluogo del Darfur settentrionale. Persiste anche nell’insediamento di Zamzam – sempre nella stessa regione – , dove una grave mancanza di cibo è già stata rilevata lo scorso agosto. L’organizzazione ha riaffermato la penuria di alimenti anche nei Monti Nuba, sia nei campi, sia negli agglomerati residenziali.

IPC inaffidabile

Immediatamente dopo la diffusione della pubblicazione dell’ Osservatorio globale sulla fame, il ministro dell’Agricoltura sudanese, Abu Bakr Omar Al-Bushra, ha dichiarato che il governo interrompe con effetto immediato la sua partecipazione al sistema di classificazione dell’insicurezza alimentare acuta. Il capo del dicastero ha accusato l’IPC di “pubblicare rapporti inaffidabili, volti a indebolire la sovranità e la dignità del Sudan”.

Il fatto che il Sudan sia uscito dal sistema IPC potrebbe compromettere seriamente gli sforzi delle organizzazioni umanitarie che tentano di aiutare e portare sollievo a milioni di sudanesi che soffrono la fame, ha poi fatto sapere il capo di una ONG che opera nel Paese.

Convoglio con aiuti umanitari nello Stato di Khartoum

Convoglio a Khartoum

E, dopo lunghi e estenuanti negoziati, sono arrivati i primi aiuti umanitari nel sud dello Stato di Khartoum. Un convoglio composto da 28 camion è giunto a Jebel Aulia, che dista una quarantina di chilometri dalla capitale. Un sospiro di sollievo per gli abitanti.

Ventidue mezzi hanno portato cibo e altri generi di prima necessità del PAM (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite), un altro camion è stato inviato da Medici senza Frontiere e CARE International (ONG statunitense che combatte la povertà nel mondo), e altri cinque sono dell’UNICEF, contenenti medicinali. Il materiale servirà per soddisfare urgenti necessità sanitarie e alimentari per 200mila bambini e famiglie.

La notizia è stata data il 27 dicembre da “Cellule di risposta alle emergenze”, gestite da volontari che organizzano anche cucine comunitarie, distribuiscono pacchi di cibo, coordinano evacuazioni e forniscono assistenza medica.

Straripamento diga

Nelle vicinanze di Jebel Aulia si trova anche l’omonima diga sul Nilo Bianco. Solo pochi giorni fa è stato lanciato l’allarme di straripamento dello sbarramento, lungo tre chilometri e alto 20 metri. Alcuni attivisti hanno fatto sapere che migliaia di residenti hanno già lasciato l’area per inondazioni e epidemia di colera, scoppiata per mancanza di acqua potabile.

Il governo ha accusato le RFS di aver chiuso la diga sotto il loro controllo dall’inizio del conflitto. Ma secondo i ribelli, a causare il disastro sarebbero stati i governativi che hanno bombardato lo sbarramento.  Insomma, la colpa è sempre dell’altro, ma a pagare le conseguenza è la popolazione.

Morti e feriti

Intanto la guerra continua. Altri morti, feriti e miseria. Il giorno di Santo Stefano i paramilitari, capitanati da Hemetti, hanno bombardato il campo per sfollati Abu Shuck a al-Fashir, nel Nord Darfur, uccidendo tre persone e ferendo altre tre. L’insediamento ospita attualmente oltre 600mila sfollati.

Forse Port Sudan, nello Stato del Mar Rosso, nell’est del Sudan, è rimasta una delle poche “isole tranquille” in questo Paese devastato dalla guerra civile. Da tempo i ministeri e molte ambasciate si sono trasferiti sulla costa. Anche il di fatto capo dello Stato, al-Burhan, ha trasferito la sua residenza nella città portuale per motivi di sicurezza.

Visita a sorpresa

E proprio il giorno Natale, il presidente ha fatto una visita a sorpresa alla chiesa cattolica di Port Sudan e alla Comboni Boy’s school, inaugurata nel lontano 1948. Mentre l’istituto femminile esiste dal 1957.

Il presidente sudanese Al-Burhan in visita alla Comboni Boy’s school, Port Sudan

Al-Burhan ha elogiato il contributo della storica chiesa cattolica in Sudan, riconoscendo il suo ruolo nel sostenere l’indipendenza del Paese e ha ringraziato i padri comboniani per il loro lavoro nella formazione dei giovani.

Esami negati

Intanto ieri sono iniziati gli esami di maturità del 2023, rimandati a causa del conflitto in atto. Ma le prove si svolgeranno solamente nelle zone sotto il controllo delle forze armate sudanesi. Anche il Ciad non ha dato il consenso ai profughi sudanesi di sostenere questo test.

A migliaia e migliaia di giovani viene preclusa la possibilità di continuare gli studi a causa della guerra. Ed ora, moltissimi non possono nemmeno aderire agli esami finali. Per l’ennesima volta devono rimandare o addirittura rinunciare al loro sogno di un futuro migliore.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Esercito evacua suore straniere dall’inferno di Khartoum

In Sudan la violenza sessuale come arma di guerra: “Si diffonde come un’epidemia”

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Nuovi affari delle industrie militari italiane con le forze armate del Qatar

Dal Nostro Esperto in Cose Militari
Antonio Mazzeo
27 dicembre 2024

Il 18 dicembre 2024 i manager di Elt Group (fino al 2022 Elettronica S.p.A.) hanno firmato a Doha un contratto con il ministero della Difesa qatariota per la fornitura di un Centro per la Guerra Elettronica (EW) Unificato, dotato di tecnologie di ultima generazione.

Elt group – Qatar: Centro per la Guerra Elettronica (EW) Unificato

Il nuovo Centro potenzierà le capacità operative EW delle forze armate del Qatar, favorendone la modernizzazione e l’efficacia nell’ottica di scenari operativi sempre più complessi e multidominio. 

“Risultato importante”

“Questo contratto rappresenta un risultato molto importante, sia in termini economici che per quanto riguarda il nostro posizionamento nell’area”, ha dichiarato l’amministratrice delegata di Elt Group, Domitilla Benigni.

“È anche una conferma di una solida amicizia e di una cooperazione a lungo termine con le Forze Armate del Qatar” ha continuato.

“Per la prima volta – ha concluso – in questo Paese la nostra azienda assume il ruolo di prime contractor e questo ci rende particolarmente orgogliosi della fiducia da parte di un cliente internazionale così avanzato”.

Elt Group è presente nell’Emirato dal 2017 con l’apertura del suo ufficio commerciale a Doha.

L’azienda collabora attivamente con le forze armate nazionali impiegando i propri sistemi di guerra elettronica sulle unità della Marina militare che sono state acquistate dalla holding della cantieristica Fincantieri S.p.A., nonché sui cacciabombardieri Eurofighter Typhoon e sugli NH-90 in dotazione alle forze aeree.

Eurofighter Typhoon, Qatar

In occasione della recente kermesse delle aziende del comparto bellico navale DIMDEX 2024 (Doha Maritime Defence Exhibition and Conference) tenutasi nella capitale, Elt Group e il Comando generale della Qatar Emiri Air Force hanno siglato una lettera d’intenti in vista di una mutua collaborazione nel settore EMSO (operazioni nello spettro elettromagnetico).

Maggiori protagoniste

Da oltre 70 anni Elt Group è una delle maggiori protagoniste in ambito internazionale nel campo della progettazione e produzione di sistemi di “difesa” elettronica, aerospaziali e della cyber security. 

Il gruppo italiano ha quartier generale nella via Tiburtina a Roma ed opera in una trentina di paesi attraverso uffici commerciali e società di importanza strategica e di diritto locale con sede in Germania e Arabia Saudita.

Elt Group partecipa ai principali programmi di difesa europei come quelli per la produzione dei caccia Eurofighter Typhoon, delle fregate lanciamissili Fremm e dei nuovi pattugliatori polivalenti d’altura PPA.

Piattaforma avionica

La società è stata chiamata anche al progetto di realizzazione della piattaforma avionica di sesta generazione GCAP (Global Combat Air Programme), più nota come “Tempest”, promosso dal consorzio italo-britannico-giapponese (presente il gruppo Leonardo S.p.A.).

Fanno parte di Elt Group anche CY4Gate, specializzata in cyber ​​security e cyber i​Intelligence; E4Life, la prima azienda di biodifesa italiana; Solynx Corporation, una società di scouting tecnologico con sede negli Stati Uniti d’America.

In Medio Oriente, il gruppo italiano ha firmato di recente accordi di cooperazione istituzionale e industriali in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.

Hub di supporto

Nel novembre 2023 Elt ha varato un piano per istituire un hub di supporto logistico integrato per i sistemi di guerra elettronica del ministero della Difesa emiratino. Partner del programma è Etimad Holding, di proprietà del gruppo finanziario militare-industriale EDGE di Abu Dhabi.

Un Memorandum of Understanding per accrescere la conoscenza della gestione dello spettro elettromagnetico negli Emirati Arabi Uniti è stato firmato da Elt il 15 febbraio 2024 con l’Università emiratina di scienza e tecnologia “Khalifa”.

A maggio 2023, il capitale sociale di Elt Group era di 9.000.000 di euro: l’azienda risultava controllata per il 35,4 per cento da Benigni S.r.l., dall’immancabile Leonardo S.p.A. per il 31,3 e per il restante 33, dal colosso aerospaziale e dell’elettronica Thales (francese).

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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QATAR: altri articoli li trovate QUI

Brogli documentati in Mozambico ma non importa: il Frelimo ha vinto le elezioni e Maputo insorge

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
26 dicembre 2024

Il candidato vincitore delle elezioni presidenziali 2024 del 9 ottobre è Daniel Chapo con il 65,17 per cento dei voti. Il suo partito, FRELIMO (Fronte di liberazione del Mozambico), al potere dal 1975, ha vinto anche in tutte le province.

È stata questa la decisione dei giudici mozambicani, letta dalla presidente del Consiglio Costituzionale (CC), Lúcia Ribeiro. L’analisi dei dati elettorali del CC ha trovato una differenza di sei punti percentuali sui risultati divulgati il 24 ottobre quando il FRELIMO aveva il 71 per cento delle preferenze.

Al Popolo Ottimista per lo Sviluppo del Mozambico (PODEMOS) il 24,19; alla Resistenza Nazionale Mozambicana (RENAMO) il 6,62 mentre il Movimento Democratico Mozambicano (MDM) ha il 4,02 per cento.

“Questo Paese appartiene a tutti i mozambicani, indipendentemente dalle loro origini etniche, razziali o religiose”, ha dichiarato il neo presidente.

elezioni mozambico 2024 - Lúcia Ribeiro
Elezioni Mozambico 2024, Lúcia Ribeiro, presidente del Consiglio Costituzionale

Cambia il numero dei seggi

All’Assemblea nazionale, il numero di seggi del FRELIMO è stato ridotto da 195 a 169, ma il partito ha mantenuto la maggioranza assoluta. PODEMOS rimane la seconda formazione con 43 seggi (il 24 ottobre erano 31); RENAMO ha 28 seggi (erano 20) e  MDM passa da 4 a 8. A conti fatti l’opposizione, con 79 seggi sui 248, rimane marginale.

Come da copione

Continua dunque il copione ormai vecchio almeno dal 1999. Non c’è da stupirsi visto che la società civile ha smascherato i brogli con un dossier. E le elezioni del 2024, secondo il Centro per l’Integrità Pubblica (CIP), sono state quelle con le peggiori irregolarità documentate.

Il Consiglio Costituzionale e la Commissione Elettorale Nazionale (CNE), sono stati accusati di essere collusi con il partito al potere. Da diversi anni, nonostante le ripetute richieste, non hanno mai mostrato le prove delle vittorie elettorali del FRELIMO. E le dichiarazioni di Ribeiro sulla vittoria del FRELIMO, anche questa volta, sono state senza prove.

Venancio Mondlane, per PODEMOS, maggiore sfidante di Chapo, in una diretta Facebook poche ore prima della sentenza immaginava il finale. Sperava però che le lotte per riconoscere la “verità elettorale”, che vanno avanti da oltre un mese, avessero influito sulle decisioni del Consiglio Costituzionale.

“È il momento di agire”

“È un’opportunità unica. È il momento di agire in accordo con la difesa dei nostri diritti e delle nostre libertà”, aveva dichiarato Mondlane.

“Se dalla bocca della professoressa Lúcia usciranno gas lacrimogeni, bazooka e missili – ha continuato – capiremo se il Paese continuerà sulla strada della dittatura, dei furti, delle frodi, dei sequestri, della corruzione e degli omicidi, o se sceglierà di lottare per la democrazia e per la verità”.

Maputo a fuoco

Dopo l’annuncio della vittoria del FRELIMO e di Daniel Chapo, nuovo presidente della Repubblica, sono scoppiati i disordini a Maputo. Nonostante Mondlane, da due mesi abbia chiesto di manifestare pacificamente, la rabbia della popolazione è sempre più forte e l’annuncio della vittoria del partito al potere ha fatto da detonatore portando la capitale nel caos. I manifestanti hanno attaccato e dato alle fiamme le sedi del FRELIMO e i posti di polizia, ma anche i tribunali locali e le dogane.

Il materiale video è stato inviato alla redazione di Africa ExPress dal Mozambico

Oltre duemila feriti

Dal 19 ottobre scorso si contano oltre 131 morti uccisi dalla polizia e dalle Unità di intervento rapido durante le manifestazioni post-elettorali. Secondo dati del Centro per lo sviluppo della democrazia (CDD) oltre duemila persone sono rimaste ferite e 3.636 arrestate. Inoltre, 385 persone sono state colpite da colpi di arma da fuoco e cinque sono ancora disperse.

Morte in diretta

Un giovane blogger, Albino José Sibia, alias Mano Shotas, era in diretta su Facebook il 12 dicembre a Ressano Garcia, al confine con il Sudafrica, quando, durante una manifestazione, è stato ucciso dalla polizia. Le sue ultime parole nella trasmissione dal vivo sono state “Non posso più filmare…mi hanno sparato ragazzi. Aiuto, aiuto…sto morendo ragazzi”.

Il video shock è stato inviato alla redazione di Africa ExPress dal Mozambico

Povo no poder

Le proteste, iniziate il 21 ottobre, sono state indette da Venancio Mondlane per conoscere la “verità elettorale”. Con la parola d’ordine “Povo no poder” (Potere al popolo) le iniziative di protesta hanno avuto grande successo tra gente sempre più impoverita dalla classe politica al potere. Mondlane ha proclamato un ulteriore sciopero generale per paralizzare il Paese fino a venerdì 27 dicembre.

Il politico dell’opposizione vive nascosto, presumibilmente in Sudafrica. Mondlane ha denunciato che alcuni killer hanno tentato di assassinarlo e si è salvato scappando dalla casa nella quale si era nascosto con la famiglia, in Sudafrica.

Ora è braccato dagli squadroni della morte
mozambicani che hanno massacrato Elvino Dias, avvocato di Podemos, e Paulo Guabe esponente del partito. Anche la famiglia di Dias è dovuta scappare in una residenza sconosciuta perché minacciata di morte. Intanto Maputo brucia e la polizia continua a sparare sui manifestanti.

Ultim’ora

A Natale evasi 1.500 detenuti

Rivolta in carcere a Maputo e 1.500 detenuti sono riusciti ad evadere impossessandosi dei Kalashnikov dei secondini. È successo nel pomeriggio di Natale e probabilmente hanno approfittato della minore sorveglianza del giorno festivo che in Mozambico è la Festa della Famiglia.

Secondo le autorità, la rivolta ha provocato almeno 33 morti, tra i quali due poliziotti, e 15 feriti. Ora i morti sono saliti a 152.

Bernardino Rafael, comandante della polizia, ha dichiarato che 150 dei prigionieri evasi sono già stati catturati. E incolpa i giovani delle manifestazioni contro la truffa elettorale di aver incoraggiato la rivolta dei detenuti.

Differente la posizione del ministro della Giustizia, Helena Kida: “I disordini sono iniziati all’interno del carcere. Non hanno nulla a che fare con le proteste all’esterno” – ha dichiarato -.

UA: “soluzione pacifica”

Si muove anche l’Unione Africana (UA). L’annuncio della vittoria elettorale del FRELIMO ha portato un aggravamento della tensione e le manifestazioni popolari di protesta hanno messo la capitale, Maputo, nel caos. Il partito al potere non ha nemmeno tentato un compromesso. L’UA ha chiesto una “soluzione pacifica”, sperando di essere ascoltata.

Sandro Pintus
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Elezioni in Mozambico: i quattro candidati alla presidenza della Repubblica e il gas di Cabo Delgado

Elezioni in Mozambico: Frelimo e Podemos “abbiamo vinto” ma osservatori UE protestano per irregolarità

Elezioni in Mozambico, assassinati due esponenti del partito di opposizione Podemos

 

Mozambico elezioni 2024: tra brogli e omicidi Daniel Chapo è il nuovo presidente. Forse

Mondlane, candidato di Podemos alla presidenza del Mozambico: “Hanno tentato di assassinarmi”