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Il presidente golpista “di transizione” in Mali si inchioda alla poltrona: resterà al potere 5 anni e più

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
11 agosto 2025

Poco più di un mese fa la giunta militare “di transizione” al governo in Mali ha promulgato una legge che permette all’attuale presidente de facto, Assimi Goïta, di restare al potere per altri cinque anni, vale a dire fino al 2030. Ma non finisce qui. Teoricamente Goita potrebbe restare incollato alla poltrona  per tutta la vita, perché la norma precisa che i “cinque anni” sono rinnovabile tutte le volte che è necessario e tutto ciò senza consultare la gente.

La decisione, che trasforma il Paese in una dittatura, ha provocato reazioni. Non tutti i militari sono d’accordo. Infatti le autorità stanno proseguendo con un’ondata di arresti nei ranghi dell’esercito: negli ultimi giorni sarebbero stati fermati già una cinquantina di uomini in divisa, tra loro anche due generali.

Nessun commento

Finora nessun commento ufficiale da parte delle autorità, ma nei ranghi dell’esercito si mormora: ” Alcuni militari volevano destabilizzare la transizione”.

Nei giorni scorsi il regime di Bamako ha arrestato anche l’ex primo ministro Moussa Mara, una delle ultime voci politiche forti. Aveva osato criticare la dittatura militare, che lo scorso mese di maggio aveva sciolto tutti partiti.

Mel frattempo hanno ripreso forza gli attacchi degli islamisti del JNIM (Gruppo di Sostegno dell’Islam e dei Musulmani), legati ad al Qaeda, che pochi giorni fa hanno attaccato due zuccherifici e la filiale di Bewani della Banque de Développement du Mali nei pressi di Ségou, nella parte sud-occidentale del Paese.

Attacco alla filiale BDM
Zuccherificio in fiamme in Mali

Il bilancio materiale degli assalti agli zuccherifici è stato pesante: più di 40 camion dati alle fiamme, oltre a gru, trattori e veicoli. Sono stati bruciati anche uffici e attrezzature informatiche. Più di tre tonnellate di scorte di zucchero sono andate in fumo.

Gli estremisti islamici sembrano aver cambiato strategia: prendono di mira siti importanti per colpire l’economia del Mali.

Uccisi mercenari russi

In questo periodo i miliziani di JNIM si sono scatenati anche in altri zone. Il 1° agosto hanno teso un’imboscata nei pressi della città di Ténenkou, nella regione di Mopti ai mercenari del Cremlino, Africa Corps, che ha sostituito Wagner. Durante l’aggressione gli estremisti islamici hanno ucciso diversi soldati di ventura. Video dell’attacco sono stati diffusi prima sui canali WhatsApp dei jihadisti, poi sono stati  ripresi su X (ex Twitter).

Paramilitari russi del gruppo Wagner, oggi Africa Corps in Mali

Bukina Faso nel mirino dei jihadisti

Nelle ultime settimane anche il Burkina Faso non è stato risparmiato da ripetuti attacchi dei terroristi. Nella regione del Sahel, a fine luglio un convoglio che trasportava generi alimentari e carburante, diretto a Gorom-Gorom, è stato aggredito da miliziani di EIGS (Stato islamico nel Grande Sahara). Diversi militari e autisti sono stati brutalmente ammazzati e alcuni automezzi sono stati incendiati. I camion erano sotto scorta dell’esercito di Bamako e uomini di VDP (Volontari per la Difesa della Patria).

Lo stesso giorno è stato attaccato anche un campo militare a Dargo, nel centro-nord del Paese. Il bilancio è stato piuttosto pesante. Secondo fonti locali sarebbero stati uccisi una cinquantina di soldati burkinabé.

A fine luglio sono state prese di mira anche altre postazioni dell’esercito di Ouagadougou in diversi villaggi delle regioni Boucle du Mouhoun, nel centro-est e est del Paese. Anche durante questi attacchi sono morti diversi ausiliari VDP e civili.

Niamey lancia milizia patriottica

Il governo nigerino ha annunciato di voler creare una milizia patriottica sul modello del Burkina Faso (VDP), volta a combattere i terroristi. Niamey ha lanciato il programma “Garkuwar Kassa” per reclutare e formare i giovani a sostegno delle forze armate.

Va ricordato che in Burkina Faso l’esercito e i VDP sono stati accusati dalla ONG Human Rights Watch di aver commesso massacri a Solenzo nella regione di Boucle du Mouhon lo scorso mese di marzo.

Membri di questa milizia burkinabé, secondo un rapporto pubblicato il 29 luglio da Global Initiative – Gitoc (Iniziativa globale contro il crimine transnazionale organizzato), sarebbero implicati in traffici di bestiame illegali tra il Burkina Faso, Ghana e Costa d’Avorio. Le mandrie vengono generalmente rubate durante gli scontri.

VDP: primi nel commercio illegale di bestiame

Il traffico di bestiame è sia uno “strumento economico” sia un “mezzo di coercizione” non solo per i jihadisti del JNIM, ma soprattutto per i VDP, che sono ormai in cima alla classifica stilata dal Global Initiative.

Giunte di AES nascondono perdite

E mentre i jihadisti non concedono tregua, i familiari di molti soldati del Mali, Burkina Faso e Niger sono preoccupati della sorte dei propri cari. Spesso vengono informati con mesi di ritardo della morte o sparizione di un loro congiunto. Le giunte militari al potere nei Paesi di AES (Alleanza degli Stati del Sahel) tendono a minimizzare o addirittura nascondere le perdite subite negli scontri con i terroristi.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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USA deporteranno 250 profughi in Ruanda secondo un accordo siglato a giugno

 

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
10 agosto 2025

Lo scorso giugno il Ruanda ha siglato un accordo con gli Stati Uniti per accogliere 250 “migranti illegali” , non graditi dal governo di Donald Trump.

La notizia è stata resa pubblica solo pochi giorni fa dalla portavoce del governo ruandese, Yolande Makolo. Reuters ha riportato in esclusiva l’accordo tra Washington e Kigali. Un funzionario del governo di Paul Kagame ha ammesso in un intervista ai reporter dell’Agenzia che un elenco delle prime 10 persone da trasferire nel suo Paese è già stato inviato a Kigali dalla controparte americana.

La portavoce di Kigali ha poi spiegato che in base all’accordo, il Ruanda ha la possibilità di approvare o rifiutare le persone proposto per il reinsediamento. Quelli che arriveranno nel Paese delle Mille Colline riceveranno una formazione professionale, assistenza sanitaria e alloggio per iniziare una nuova vita in Ruanda.

Proteste contro l’accordo tra Washington e Kigali: deportazione di 250 profughi

Non sono state fornite ulteriori informazioni, comprese indicazioni sulla tempistica dei trasferimenti. Makolo ha dichiarato che il suo governo “fornirà ulteriori dettagli una volta che questi saranno stati elaborati”. Finora bocche cucite anche sull’intesa dal punto di vista finanziario, cioè quanto gli USA saranno disposti a sborsare per liberarsi dei profughi non graditi.

Trasferimento di prigionieri

Recentemente l’amministrazione di Donald Trump è riuscita a convincere il Sud Sudan e eSwatini ad accettare il trasferimento di galeotti stranieri, condannati negli Stati Uniti.

Non è chiaro quando l’intesa tra Washington e Kigali è stata siglata, ma il 27 di giugno il ministro degli Esteri ruandese, Olivier Nduhungirehe, si trovava a Washington per la firma di uno “storico trattato di pace” con la Repubblica Democratica del Congo, rappresentata all’occasione da Thérèse Kayikwamba Wagner, a capo del dicastero Esteri di Kinshasa. La cerimonia è stata presenziata da Marco Rubio, segretario di Stato americano.

Forse in quei giorni Nduhungirehe aveva raggiunto l’accordo con Rubio.

Intesa fallita

Nel 2022 un accordo per il trasferimento di profughi entrati “illegalmente” in Gran Bretagna era stato siglato con il governo di Londra e Kigali. L’allora primo ministro britannico, Boris Johnson, aveva promesso al presidente ruandese, Paul Kagame, oltre 140 milioni di euro, per finanziare accoglienza, integrazione, formazione professionale e istruzione dei deportati.

L’intesa era poi stata bloccata dalla Corte suprema del Regno Unito nel 2023 e con l’arrivo al potere di Keir Starmer, primo ministro dal luglio 2024, era stata addirittura accantonata.

Rifugiati Tamil

Pochi ricordano la triste faccenda dei Tamil, arrivati su un peschereccio proveniente dall’India alla base britannica di Diego Garcia nell’ottobre 2021. Erano scappati da torture e persecuzioni.

Gli 89 rifugiati tamil speravano di poter raggiungere il Canada, ma l’imbarcazione si era trovata in difficoltà in prossimità delle isole Chagos, un piccolo arcipelago, che comprende cinquanta isole nel bel mezzo d’Oceano Indiano, e include anche la base militare britannica di Diego Garcia.

Base Diego Garcia USA – GB sulle isole Chagos

Quattro profughi erano poi stati presi in carico dal Regno Unito nel 2022 e trasferiti in Ruanda per cure mediche urgenti, per autolesionismo o tentato suicidio. La loro evacuazione però non faceva parte dell’accordo tra Londra e Kigali riguardante la deportazione di richiedenti asilo dal Regno Unito in Ruanda, come prospettato all’epoca.

Intervistati dai reporter della BBC, i giovani tamil avevano raccontato, che appena arrivati in Ruanda, erano stati ricoverati in un ospedale militare. Poi avevano vissuto in un appartamento a spese del governo britannico in un sobborgo di Kigali: ricevevano settimanalmente 50 dollari per il loro mantenimento.

Infelici 

Tutti e quattro avevano spiegato di aver subito molestie e avance sessuali indesiderate per strada. Si erano costretti a vivere segregati in casa, perché troppo spaventati per uscire.

E finalmente, dopo anni di battaglie legali, alla fine del 2024, quarantasette dei Tamil (compreso il gruppo evacuato in Ruanda), sbarcati 38 mesi prima a Diego Garcia, erano stati accolti nel Regno Unito.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Deportazione di prigionieri in Sud Sudan e eSwatini

Il dramma dei migranti Tamil naufraghi a Diego Garcia: 20 mesi di attesa e nessuno li vuole

Al-Masri, il ricatto del petrolio e le alleanze perverse nel Sahel

Speciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
9 agosto 2025

La liberazione di Osama Elmasry Njeem, generale libico più conosciuto con il nome di battaglia Al-Masri (che in arabo significa “L’egiziano”) arrestato inizialmente in Italia perché ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, rivela la vera natura delle relazioni internazionali postcoloniali.

Un rapporto fondato sulla protezione anche del crimine quando serve a tutelare gli interessi geopolitici.

La frettolosa liberazione del ricercato, al di là dei suoi aspetti giudiziari, ha palesato l’assoggettamento del governo italiano, indotto dal ricatto economico, e porta alla luce alleanze perverse finalizzate allo sfruttamento delle risorse naturali, in questo caso il petrolio.

L’approvvigionamento degli Stati privi di materie prime è, quindi, garantito da accordi spesso tenuti segreti e quindi sottratti al controllo e al dibattito pubblico.

La Libia possiede alcune delle più grandi riserve petrolifere dell’Africa. Secondo alcuni dati (rapporto Opec del 2021) la sua produzione ha superato addirittura quella della Nigeria, rendendo il Paese il primo produttore di tutta l’Africa.

Questa ricchezza classifica lo Stato nordafricano come  uno dei partner commerciali più importanti del mercato energetico mondiale, nonostante la sua conclamata instabilità politica. Per quanto riguarda l’Italia, l’ENI è il principale operatore straniero.

Tutto il territorio del Sahel, che comprende l’intera area geografica tra il Sahara a nord e la savana a sud, è ormai diventato un terreno di scontro per conquistare il controllo delle risorse a discapito delle popolazioni.

Organizzazioni criminali, con manovalanza africana ma con guida e direzione finanziaria in Europa, America e Asia, sostenute in molti casi dall’Occidente, ma anche dalla Russia, si inseriscono nell’amministrazione politica dei governi locali. E quando non ci riescono non fanno molta fatica a sostenere guerriglie di connotazione ideologica religiosa che nasconde interessi assai materiali.

E a causa della corruzione dilagante, ogni tentativo di resistenza da parte dei cittadini africani viene sistematicamente represso.

In questo contesto, i criminali come Al Masri, vengono protetti per non destabilizzare il delicato equilibrio di interdipendenza reciproca, e sono perfettamente consapevoli della loro impunità internazionale.

Valentina Vergani Gavoni
valentinaverganigavoni@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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A Taboo is Broken: “B’Tselem and Physicians for Human Right-Israel” Say There is a Genocide in Gaza

Two prominent Israeli NGOs denounce genocide in Gaza:
for B’Tselem and Physicians for Human Rights Israel,
what is happening between Israel and Gaza can no longer be ignored.

Special for Africa ExPress
Federica Iezzi
Returning from Gaza, August 5, 2025

“For Israelis of my generation, the word genocide should have remained a nightmare from another planet. A word linked to photographs of our grandparents and the ghosts of European ghettos, not our neighborhoods. We were the ones wondering, from afar, about others: how could ordinary people go on with their lives while something like this was happening? How could they allow it?”

It is with these words that Yuli Novak, executive director of B’Tselem—Israel’s most representative human rights organization—talks about the new report Our Genocide, the result of months of work by Israeli and Palestinian activists.

Recent publications

The report parallels the recent publication by Physicians for Human Rights-Israel (PHRI), Genocide in Gaza.

Dayr al-Balah, Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
The two reports mark a huge rift within Israeli civil society. Based on nearly two years of documentation, both groups argued that Israel’s actions in Gaza fall under the definition of genocide outlined in the 1948 Genocide Convention, to which Israel is a signatory [entered into force January 12, 1951].

Systematic demolition

The B’Tselem report focuses on the systematic demolition of Palestinian society in Gaza. The PHRI report provides a legal analysis based on Israel’s deliberate destruction of Gaza’s healthcare system.

Mass killings, violent population transfers, systematic destruction, and dismantling of Palestinian society at every level: this is the basis of Israel’s genocidal campaign, fully evident in Gaza, still hidden in the West Bank. The scale is different, the logic is the same.

Genocide is not simply a legal category, but a distinct form of political and social violence. The goal is not only to kill, but to ensure that a group can no longer exist in the future.

And where does it strike? The dimension in which it ruthlessly operates is the devastation of the family unit.

Healthcare system

A fundamental pillar of civil life is the healthcare system. Israel has completely destroyed Gaza’s ability to care for its population through indiscriminate attacks on hospitals, obstruction of medical evacuations and humanitarian aid, and elimination of essential services such as surgery, dialysis, and maternal and child health.

According to the PHRI, the Israeli campaign has decimated Gaza’s healthcare infrastructure “in a calculated and systematic manner.” These actions are not incidental to war, but deliberate and targeted.

The attack by Hamas’ armed wing on Israel triggered a change in the country’s policy towards the Palestinians in Gaza, shifting from repression and control to destruction and annihilation. Jewish-Israeli public opinion rejects accusations of genocide as anti-Semitic towards Israel.

Margins of politics

It is true that human rights groups are considered marginal in Israeli politics and their views are not representative of the majority of Israelis, but the fact that the accusation of genocide comes from Israeli voices breaks a taboo in a society that has been reluctant to criticize Israel’s conduct in Gaza.

Calls for the extermination of Palestinians did not arise from the violence of October 7, 2023. They date back to the 1930s and gained strength—and greater public acceptance—with the fading prospects for peace in the 1990s, the rise of existential anxiety among Israelis, and the increase in the political power of religious Zionists in the 21st century.

Source of inspiration

Most of the precursors of modern Zionism consider themselves secular. Nevertheless, they adopt the main Jewish symbols and treat Jewish tradition and religious texts as a source of inspiration, while not attributing legal authority to them.

This creates an opportunity for Israeli leaders to use biblical texts to promote political goals. The Bible contains some explicit narratives of annihilation. The best known is the story of Amalek. “In a war between Israel and Amalek, killing and annihilating infants and children is a commandment. And who is Amalek? Anyone who wages war against the Jews” – words spoken in 1980 by Israel Hess, who at the time held the official position of rabbi at Bar-Ilan University in Israel.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ ALL RIGHTS RESERVED

Translated from Italian with DeepL.com. English version edited by Ellie Spring.
La versione italiana di questo articolo si trova qui

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Gaza: appello a Natanyahu dei familiari degli ostaggi

dal quotidiano israeliano Israel Hayom
Noam (Dabul) Dvir
Tel Aviv, 8 agosto 2025

Le famiglie dei rapiti, i sopravvissuti alla prigionia e i civili hanno manifestato ieri sera in luoghi centrali di Gerusalemme, davanti all’ufficio del Primo Ministro dove si è tenuta la riunione del gabinetto politico e di sicurezza e davanti alla Fortezza di Ze’ev, per protestare contro la prevista decisione di occupare completamente la Striscia di Gaza.

Inoltre, si è tenuta una manifestazione davanti al Kirya a Tel Aviv.

Ieri mattina, una flottiglia navale di protesta composta da 11 imbarcazioni ha lasciato il porto turistico di Ashkelon in direzione del confine marittimo con Gaza. Davanti all’ufficio del Primo Ministro, le famiglie dei rapiti si sono legati con catene.

Contemporaneamente, si è tenuta un’altra manifestazione davanti alla Fortezza di Ze’ev, che ospita il quartier generale del Likud, con l’obiettivo di trasmettere un messaggio diretto al Primo Ministro e al suo partito.

“Ci opponiamo fermamente a qualsiasi azione militare a Gaza che possa portare alla completa occupazione della Striscia di Gaza. Un’azione del genere porterà alla morte degli ostaggi e a costi aggiuntivi ingenti, anche per i nostri soldati”, ha dichiarato ieri sera Edith Ahl, la madre dell’ostaggio Alon Ahl, trattenuto a Gaza da Hamas per 672 giorni.

Si è rivolta al Primo Ministro Netanyahu e ha detto: “Guardate i video brutali che Hamas ha diffuso, solo la scorsa settimana. Alon è un ostaggio. È stato portato via da casa sua, dal territorio dello Stato di Israele. Non è un soldato catturato in battaglia, non fa parte di una missione militare. È un civile. La strada per il rilascio di Alon è una sola: negoziare. Non abbandonatelo. Non rinunciate a lui e non chiamatelo una ‘mossa strategica’. La vita umana, ogni essere umano, viene prima di qualsiasi strategia”.

Domanda al Capo di Stato Maggiore

Le famiglie si sono rivolte anche al Capo di Stato Maggiore, il Tenente Generale Eyl-Zamir, e gli hanno chiesto: “Non date una mano agli ostaggi. Tu sei il comandante dell’esercito. Il popolo: La volontà del popolo è porre fine alla guerra e restituire i rapiti. Ricorda i valori delle IDF: “Non lasciamo indietro nessuno”. Secondo loro, c’è una sola decisione che il governo può e deve prendere: soddisfare la volontà del popolo e firmare immediatamente un accordo che riporti tutti a casa.

La protesta in piazza contro il governo israeliano

“Qualsiasi altra decisione è un attentato alla volontà del popolo e ai principi di reciproca responsabilità e garanzia. Qualsiasi altra decisione sarebbe disumana e porterebbe al disastro i rapiti e l’intero Stato di Israele.” Hanno invitato i comandanti delle IDF a tutti i livelli a non agire in modo da mettere in pericolo la vita dei rapiti e impedire la possibilità di riunire le famiglie dei caduti.

La flottiglia è salpata ieri mattina

Le famiglie dei rapiti si sono imbarcate su una flottiglia di protesta chiamata “Shaytaet”, che comprendeva 11 imbarcazioni avvolte in giallo, simbolo della lotta. Le famiglie volevano avvicinarsi il più possibile alla costa dove gli ostaggi sono tenuti prigionieri dall’organizzazione terroristica di Hamas.

Flottiglia con a bordo familiari dei rapiti

Le famiglie hanno annunciato la loro presenza ai propri cari, hanno trasmesso richieste di soccorso sui sistemi di comunicazione marittima e hanno illuminato i salvagenti gialli per chiedere il salvataggio dei rapiti. “Siamo qui per cercare di avvicinarci a Rom, per dargli forza. Spero che lo raggiunga e non pensi al momento in cui lo abbiamo abbandonato”, ha spiegato Ron Overlander, cugino di Rom Bresl, il cui video dalla prigionia ha scioccato molti a causa della fame estrema che sta attraversando.

“Abbiamo visto il video e non è in buone condizioni, quello che stanno subendo lì è un abuso. Dobbiamo ancora salvarlo: non possiamo più vivere così”.

“Viviamo nella paura”

Kobiah El, il padre di Alon El, che ha partecipato alla flottiglia, ha detto: “Dal giorno in cui Alon è stato rapito viviamo nella paura. Voglio sperare e credere che anche oggi, dopo la riunione del governo, la decisione sarà quella di salvare la vita di Alon e quella dei rapiti.

Ha poi aggiunto: “Capisco che sappiamo già tutti che l’unico modo per salvare la vita di Alon e quella di tutti i rapiti è attraverso un accordo. Potrebbe essere necessario ricorrere a una qualche forma di forza militare, ma alla fine, da quello che sappiamo e da quello che abbiamo visto negli ultimi cinque mesi da quando è stato stipulato l’accordo, la vita di Alon può essere salvata solo attraverso un accordo.” .

Israel Hayom

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Our fault: we didn’t understand where Israel was going with this

from Centro Riforma dello Stato
Giuseppe (Ino) Cassini*
August 2025

Italian version of this story is here

When Theodore Herzl founded the Zionist movement in 1897, he dreamed of a Jewish state as “Europe’s bulwark against Asia, civilization’s outpost against barbarism.” The “founding fathers” followed that line.

Ben Gurion: “We must fight against the spirit of the Levant that corrupts individuals and society, and preserve the authentic Jewish values established in the diaspora.” Abba Eban: “The goal is to instill a Western spirit, instead of allowing ourselves to be drawn toward an unnatural Orientalism.”

Golda Meir, ex Israeli prime minister

Finally, Golda Meir’s denialism (interview with the Sunday Times on June 15, 1969): “There are no Palestinians. It is not as if there is a Palestinian people here who consider themselves as such and we have come to throw them out. The Palestinians do not exist” (sic). In truth, until the early 1900s, there were half a million Palestinians, compared to about 50,000 Jews. Then came the survivors of the pogroms and concentration camps, but even in 1945 there were only 600,000 Jews (equal to the number residing today—irony of numbers—in the Occupied Territories).

Balfour Declaration

In 2017, Israel celebrated the centenary of the “Balfour Declaration,” a letter in which the British Foreign Minister promised Lord Rothschild a Jewish state in Palestine. This was the comment by Gideon Levy, columnist for Haaretz: “Nothing like this had ever happened before: an empire [Great Britain] promising a land that was not its own [Palestine] to a people who did not live there [the Jews] without asking permission from those who did live there [the Palestinians].”

Gideon Levy’s irony did justice to the false mantra: “A land without a people for a people without a land.” The tragedy of the Nakba in 1948—and then the military victories of 1956, 1967, and 1973—allowed Israel to embark on an all-out immigration policy. A million Jews, real or presumed, generally unfamiliar with Judaism, arrived from the USSR alone. Israel, ruled by Ashkenazim, did everything it could to eradicate the Sephardic and Mizrahi communities from Arab countries.

Uprooting the Sephardim

Ezra Ben Hakham Eliyahu denounced this in 1978: “Mass immigration to Israel has uprooted the Sephardic communities. They have lost their countries, their property, their customs, their language, their entire cultural heritage.” And a Moroccan Sephardic Jew, Reuben Abarjel, lamented: “No Arab government has ever exercised violence against the Mizrahim similar to that of the Ashkenazi regime, which kidnapped children to give them up for adoption and sterilized women deemed incapable of improving the ‘Jewish gene.’ ”

A Jewish refugee family from Yemen outside their mud house in the American Joint Distribution camp in Aden, March 29, 1949, awaitng transfer to Israel. (AP Photo)

The kidnapping refers to the 1950s, when 1,060 children taken from Yemen were removed from their parents and placed with Ashkenazi families. These are memories to be erased so that the “founding fathers” can continue to be seen as idealists—and many of them were.

Kibbutz rhetoric

But in fact, it was a neo-colonial operation cloaked in kibbutz rhetoric. In 1956, Israel made the unforgivable choice to join the French and British in an attempt to reclaim the Suez Canal nationalized by Nasser.

It was then clear where the young state stood: it was now a Western bridgehead, defined as “the only democracy in the Middle East.” It is true that the declaration of independence states: “Israel will guarantee complete social and political equality to all its inhabitants, regardless of religion or race.”

Rights for illegal settlers

But in reality, it discriminates against those who are not Jewish: it has imprisoned at least 40 percent of Palestinian males at least once; it carries out targeted executions without respecting its own laws; it prohibits mixed marriages; it grants (illegal) settlers every right denied to Palestinians living (legally) in their own homes.

Looking back, it is easier to see when the path to suicide began: on November 4, 1995, with the assassination of Rabin by an extremist Jew. A few days earlier, we were at the Amman Summit, and everything pointed to imminent peace. “Peace is negotiated with enemies,” Rabin repeated, “and we will do so at any cost.” At any cost? It cost him his life. Then came a series of wasted opportunities and unprecedented violence.

March 2002. As an observer at the Arab League summit in Beirut, I saw Saudi King Abdullah present a real peace plan, approved by the entire League. Finally, I thought. No, Israel did not think so, and the Abdullah Plan was shelved.

Hamas victory

January 2006. Free elections in Palestine and a clear victory for the Hamas party in Gaza; but Israel pushed the US and the EU to disavow the outcome, even though international observers had confirmed the full regularity of the elections. Hamas drew its conclusions. Netanyahu did the same, in his own way.

In 2012, he began to fund Hamas with money from Qatar, with the aim of weakening the PNA and dividing the Palestinian front. But Hamas diverted part of the funds to arm the Gaza Strip, and Netanyahu looked the other way: a game of poker on the edge of the precipice. Both were ready to do anything to hinder the “two peoples, two states” formula (as Ben Gurion had said: “The longer we drag it out, the more it will benefit us”).

Netanyahu turned a blind eye

The prime minister also turned a blind eye when, in 2023, he was warned that military exercises that were not exactly defensive were being carried out beyond the walls of Gaza.

Benjami Netanyahu, Israeli prime minister

Until the horror of October 7. It was a sort of posthumous revenge after the massacres of women and children perpetrated in 1948 in Palestinian villages—the famous massacre in Deir Yassin—by the “Stern Gang” led by Begin, then a terrorist and later prime minister.

Albert Einstein and Hannah Arendt

In December 1948, Albert Einstein and Hannah Arendt co-signed a prescient letter: ‘A mixture of ultra-nationalism, religious mysticism and racial superiority has been preached in the Jewish community. In Begin’s actions, the terrorist party betrays its true character; from its actions we can judge what it will do in the future’.

It is thanks to the foresight of these two illustrious Jews that we now have a better understanding of where this Middle Eastern country, so well armed that it prefers to keep five war fronts open rather than accept coexistence with those who have always lived there, is headed.

Faithful to the principles of the UN?

Is it in their interest? The Israelis, protected by the US, have so far been forgiven for every violation of international law, even though the declaration of independence proclaims that “Israel will be faithful to the principles of the United Nations Charter.”

Is it possible that such a gifted people are capable of such atrocities in Gaza? Is it possible that a small state has been holding a superpower in check for decades? The Netanyahu government has opted for the solution of an apartheid “one-state” solution.

Israel: military occupation in Gaza

The military occupation has eroded the country from within, jeopardizing the very security it is supposed to guarantee. This has also been understood by former Knesset Speaker Avraham Burg and former Prime Minister Olmert, who have been urging for some time now to “save Israel from itself.”

Giuseppe Ino Cassini*

*Giuseppe (Ino) Cassini was an Italian diplomat and ambassador to Somalia and Lebanon. He also worked in Belgium, Algeria, Cuba, the United States, and Geneva (UN). Author of “Gli anni del declino, La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006)” (Bruno Mondadori 2007) and the e-book “Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013)”, he knows deep America well, the America that says: “Washington is not the solution, it is the problem.”

Translated from Italian with DeepL.com. English version edited by Ellie Spring

Colpa nostra: non avevamo capito dove Israele volesse arrivare

da Centro Riforma dello Stato
Giuseppe (Ino) Cassini*
Agosto 2025

La versione inglese di questo articolo si trova qui

Theodore Herzl, fondando nel 1897 il movimento sionista, sognava uno Stato ebraico quale «bastione dell’Europa contro l’Asia, avamposto della civiltà contro la barbarie». Su quella linea si attennero i “padri fondatori”.

Ben Gurion: “Dobbiamo lottare contro lo spirito del Levante che corrompe gli individui e la società, e preservare gli autentici valori ebraici fissati nella diaspora”. Abba Eban: «L’obiettivo è inculcare uno spirito occidentale, invece di farci trascinare verso un orientalismo contro natura».

Golda Meir, ex primo ministro israeliano

Infine, il negazionismo di Golda Meir (intervista al Sunday Times del 15/6/1969): “Non esistono palestinesi. Non è come se esistesse qui un popolo palestinese che si reputa tale e noi fossimo venuti a buttarlo fuori. I palestinesi non esistono» (sic). Per la verità, fino al primo ‘900 erano mezzo milione, a fronte di circa 50.000 ebrei. Poi affluirono gli scampati ai pogrom e ai lager, ma ancora nel 1945 si contavano solo 600.000 ebrei (pari a quanti risiedono oggi – ironia dei numeri – nei Territori Occupati).

Dichiarazione di Balfour

Nel 2017 Israele ha festeggiato il centenario della “Dichiarazione Balfour”, una lettera con cui il ministro degli Esteri britannico prometteva a Lord Rothschild uno Stato ebraico in Palestina. Questo il commento di Gideon Levy, editorialista di Haaretz: “Non era mai successo nulla di simile: un impero [la Gran Bretagna] promette una terra non sua [la Palestina] a un popolo che non ci vive [gli ebrei] senza chiedere il permesso a chi ci abita [i palestinesi]”.

L’ironia di Gideon Levy faceva giustizia del falso mantra: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. La tragedia della nakba nel 1948 – e poi le vittorie militari del 1956, 1967, 1973 – permisero a Israele di lanciarsi in una politica d’immigrazione a tutto campo. Dalla sola Urss sbarcò un milione di ebrei, veri o presunti, in genere digiuni di giudaismo. Israele, retto da ashkenaziti, fece di tutto per cancellare dai Paesi arabi le comunità sefardite e mizrahi.

Sradicato i sefarditi

Lo denunciava nel 1978 Ezra Ben Hakham Eliyahu: “L’immigrazione di massa in Israele ha sradicato le comunità sefardite. Hanno perso i loro Paesi, le proprietà, usanze, lingua, l’intero patrimonio culturale”. E un sefardita marocchino, Reuben Abarjel, lamentava: “Nessun governo arabo ha mai esercitato sui mizrahi una violenza simile a quella del regime ashkenazita, che ha rapito bimbi per darli in adozione e ha sterilizzato donne ritenute incapaci di migliorare il ‘genio ebraico’ ”.

A Jewish refugee family from Yemen outside their mud house in the American Joint Distribution camp in Aden, March (AP Photo)

Il rapimento si riferisce agli anni ’50, quando 1060 bimbi portati via dallo Yemen furono tolti ai genitori e affidati a famiglie ashkenazite. Sono memorie da cancellare affinché si continui a vedere i “padri fondatori” come idealisti – e non pochi lo erano.

Retorica dei kibbutz

Ma di fatto fu un’operazione neo-coloniale ammantata di retorica del kibbutz. Israele fece nel 1956 l’imperdonabile scelta di unirsi a francesi e inglesi nel tentativo di riappropriarsi del Canale di Suez nazionalizzato da Nasser.

Si capì allora con chi stava il giovane Stato: era ormai una testa di ponte occidentale, definita “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Vero è che la dichiarazione d’indipendenza recita: “Israele garantirà completa parità sociale e politica a tutti gli abitanti, senza distinzione di religione o di razza”.

Diritti ai coloni illegali

Ma in realtà discrimina chi ebreo non è: ha incarcerato almeno una volta il 40 per cento dei palestinesi maschi; attua esecuzioni mirate senza rispettare le proprie leggi; vieta i matrimoni misti; concede ai coloni (illegali) ogni diritto negato ai palestinesi che vivono (legalmente) a casa propria.

Con lo sguardo lungo si scorge meglio quando è iniziato il cammino verso il suicidio: il 4 novembre 1995, con l’assassinio di Rabin per mano di un ebreo estremista. Pochi giorni prima eravamo al Vertice di Amman e tutto lasciava presagire una pace imminente. “La pace si negozia con i nemici –ripeteva Rabin – e la faremo a ogni costo”. A ogni costo? A lui costò la vita. Poi fu un seguito di occasioni sprecate e di violenze inaudite.

Marzo 2002. Da osservatore al vertice della Lega Araba a Beirut, vidi il re saudita Abdullah presentare un vero piano di pace, approvato da tutta la Lega. Finalmente ci siamo, pensavo. No, Israele non la pensava così e il Piano Abdullah fu riposto in un cassetto.

Vittoria di Hamas

Gennaio 2006. Libere elezioni in Palestina e netta vittoria del partito di Hamas a Gaza; ma Israele spinse gli USA e l’UE a disconoscerne l’esito, benché gli osservatori internazionali avessero confermato la piena regolarità delle elezioni. Hamas ne trasse le conclusioni. Altrettanto fece Netanyahu, a modo suo.

Dal 2012 iniziò a foraggiare Hamas con fondi del Qatar, allo scopo di indebolire l’ANP e spaccare il fronte palestinese. Ma Hamas stornava parte dei fondi per armare la Striscia di Gaza e Netanyahu non guardava: una partita a poker sui bordi del precipizio. Entrambi erano pronti a tutto pur di ostacolare la formula “due popoli, due Stati” (come aveva detto Ben Gurion: “Più la tireremo in lungo, più ci porterà vantaggio”).

Netanyahu chiuse gli occhi

Il premier chiuse gli occhi anche quando nel 2023 lo avvisarono che oltre i muri di Gaza si stavano facendo esercitazioni militari non proprio difensive.

Benjami Netanyahu, Israeli prime minister

Fino all’orrore del 7 ottobre. Fu una sorta di rivalsa postuma dopo i massacri di donne e bambini perpetrati nel ’48 nei villaggi palestinesi – famosa la strage a Deir Yassin – a opera della “banda Stern” guidata da Begin, allora terrorista e più tardi Primo ministro.

Albert Einstein e Hannah Arendt

A dicembre del ’48, Albert Einstein e Hannah Arendt cofirmarono una lettera premonitrice: “Nella comunità ebraica si è predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Nelle azioni di Begin il partito terrorista tradisce il suo reale carattere; dalle sue azioni possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”.

Si deve alla lungimiranza dei due illustri ebrei se ora capiamo meglio dove vuol arrivare questo Paese mediorientale, così ben armato che preferisce tenere aperti cinque fronti di guerra piuttosto di accettare la convivenza con chi laggiù abita da sempre.

Fedele ai principi dell’ONU

Gli conviene? Agli israeliani, protetti dagli USA, si è condonata finora ogni lesione del diritto internazionale, benché la dichiarazione d’indipendenza proclami che “Israele sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”.

Possibile che un popolo così dotato sia capace di tali efferatezze a Gaza? Possibile che un piccolo Stato tenga in scacco da decenni una superpotenza? Il governo Netanyahu ha optato per la soluzione di “uno Stato” apartheid.

Israele: occupazione militare a Gaza

L’occupazione militare ha eroso il Paese dall’interno, mettendo in pericolo la sicurezza stessa che dovrebbe garantire. L’hanno capito anche l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, e l’ex-premier Olmert, che non da ieri scongiurano di “salvare Israele da se stesso”.

Giuseppe Ino Cassini*

*Giuseppe (Ino) Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino. La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.

Censura e omissione: la differenza tra il genocidio In Palestina e le guerre in Africa

Speciale per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
7 luglio 2025

Impedire intenzionalmente la diffusione di informazioni rilevanti per l’opinione pubblica, e limitare la libertà di stampa, per noi di Africa ExPress è un reato, civile e morale. Non riportare volontariamente fatti di rilievo internazionale, invece, è una scelta.

Questa è la differenza tra la narrazione del genocidio in Palestina e la cronaca assente delle guerre in Africa.

Le politiche coloniali in Medio Oriente vengono legittimate decontestualizzando i fatti storici per mezzo della censura. In Africa, invece, le conseguenze postcoloniali vengono omesse per favorire le politiche di sfruttamento.

Non dobbiamo, quindi, fare l’errore di equiparare i contesti storici, politici e culturali.

Senza Bavaglio – quotidiano online del gruppo sindacale fondato da giornalisti italiani per tutelare e difendere la libertà di stampa – e Africa ExPress – testata giornalistica che tratta i problemi del continente nero e del Medio Oriente – da anni lavorano su entrambi i fronti per contrastare censura e omissione dell’informazione.

Trovate tutti gli articoli sui nostri siti

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Valentina Vergani Gavoni
valentinaverganigavoni@gmail.com
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Giovani ciadiani protagonisti del cambiamento nel loro Paese

Africa ExPress
N’Djamena, agosto 2025

“Jeunesse en Action pour l’Avenir du Tchad” (Giovani in azione per il futuro del Ciad, ndr) è un progetto da ACRA, sostenuto dall’Unione Europea e è volto a rendere i giovani protagonisti del cambiamento sociale nel Paese, con particolare attenzione e inclusione delle donne.

Il Ciad è tra i Paesi con il più basso indice di sviluppo umano e gran parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà, cioè con meno di 1,90 dollari al giorno. La ex colonia francese, oltre a dover affrontare crisi interne, come attacchi dei sanguinari terroristi Boko Haram sulle sponde del bacino del Lago Ciad, cambiamenti climatici e quant’altro, il Paese ospita anche oltre 2 milioni di rifugiati. Queste persone provengono per lo più dal Sudan, in fuga dalla guerra.

Tuttavia, molti giovani ciadiani non si arrendono, credono nella rinascita della propria terra. E ACRA, un ETS (Ente del Terzo Settore) milanese, accompagna e sostiene associazioni locali nello sviluppo di microprogetti per la risoluzione di conflitti, tutela dell’ambiente, valorizzazione delle donneattraverso formazione, spazi di dialogo, opportunità di impiego e formazione professionale.

La giovane Fatima promuove la risoluzione di conflitti in famiglia

Negli ultimi tre anni, grazie al progetto Jeunesse en Action pour l’Avenir du Tchad, ACRA ha individuato oltre 300 associazioni promosse da giovani e donne. L’ETS ha contribuito alla crescita concreta di 42 realtà e ha sviluppato con loro capacità tecniche, opportunità di partnership e strumenti di analisi.

Abakar è un giovane allenatore di calcio diversamente abile. Ai giovanissimi oltre al calcio, insegna anche l’inglese. Secondo lui il calcio è una scuola di vita

Nel progetto sono state inoltre coinvolte migliaia di persone attraverso canali istituzionali, mediatici, accademici e artistici, con un’attenzione particolare alle donne che hanno rafforzato il loro ruolo nella comunità e nella risoluzione pacifica dei conflitti.

Possiamo vedere sul campo le attività di alcune associazioni locali, grazie ai filmati realizzati con la produzione di Davide Lemmi, Marco Simoncelli, Arianna Pagani di FADA Collective, Jessica Tradati di La Fabula. La colonna sonora è della cantante ciadiana Wawy-B.

La docu-serie “Jeunesse En Action” raccoglie le testimonianze di 12 giovani delle province di N’Djamena, il Lago e Moyen-Chari, nel sud del Paese.

Régine Dioro-Olima attivista femminista e imprenditrice. Ha fondato un’associazione, lotta contro i matrimoni forzati precoci e tanto altro

Molti altri video potere vederli sul canala youtube https://www.youtube.com/playlist?list=PL-9Q9ybtbfrcVDlMyYF7gEuO-2HCy8Y57

Dunque Forza ai giovani del Ciad

Africa Express
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Tabù infranto: anche per gli israeliani B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel a Gaza è genocidio

Due importanti ONG israeliane denunciano il genocidio a Gaza:
per B’Tselem e Physicians for Human Rights Israel,
quanto accade tra Israele e Gaza non può più essere ignorato

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
di ritorno da Gaza, 5 agosto 2025

“Per gli israeliani della mia generazione, la parola genocidio avrebbe dovuto rimanere un incubo proveniente da un altro pianeta. Una parola legata alle fotografie dei nostri nonni e ai fantasmi dei ghetti europei, non ai nostri quartieri. Eravamo noi a chiederci, da lontano, degli altri: come potevano le persone comuni andare avanti con le loro vite mentre accadeva una cosa del genere? Come hanno potuto permetterlo?”.

E’ con queste parole che Yuli Novak, direttore esecutivo di B’Tselem – l’organizzazione per i diritti umani più rappresentativa in Israele – parla del nuovo report Our Genocide, frutto di mesi di lavoro di attivisti israeliani e palestinesi.

Pubblicazioni recenti

Il report cammina parallelo alla recente pubblicazione di Physicians for Human Rights-Israel (PHRI), Genocide in Gaza

Dayr al-Balah, Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
I due report segnano un’enorme rottura all’interno della società civile israeliana. Basandosi su quasi due anni di documentazione, entrambi i gruppi hanno sostenuto che le azioni di Israele a Gaza rientrano nella definizione di genocidio, delineata nella Convenzione sul Genocidio del 1948, di cui Israele è firmataria [entrata in vigore 12 gennaio 1951].

Demolizione sistematica

Il rapporto di B’Tselem si concentra sulla demolizione sistematica della società palestinese a Gaza. Il rapporto del PHRI fornisce un’analisi giuridica basata sulla deliberata distruzione del sistema sanitario di Gaza da parte di Israele.

Uccisioni di massa, trasferimenti violenti di popolazione, distruzione sistematica e smantellamento della società palestinese a ogni livello: ecco la base della campagna genocida di Israele, pienamente evidente a Gaza, ancora nascosa in Cisgiordania. La scala è diversa, la logica è la stessa.

Il genocidio non è semplicemente una categoria giuridica, ma una modalità distinta di violenza politica e sociale. L’obiettivo non è solo uccidere ma assicurarsi che un gruppo non possa più esistere in futuro.

E dove si colpisce? La dimensione in cui spietatamente ci si muove è la devastazione del nucleo familiare.

Sistema sanitario

Pilastro fondamentale della vita civile è il sistema sanitario. Israele ha completamente distrutto la capacità di Gaza di prendersi cura della sua popolazione, attraverso attacchi indiscriminati diretti agli ospedali, ostruzione delle evacuazioni mediche e dell’ingresso di aiuti umanitari, eliminazione di servizi essenziali come la chirurgia, la dialisi e la salute materno-infantile.

Secondo il PHRI la campagna israeliana ha decimato le infrastrutture sanitarie di Gaza “in modo calcolato e sistematico”. Queste azioni non sono accessorie alla guerra, ma deliberate e mirate.

Scene raccapriccianti dall’interno dell’ospedale Nasser, la sera del 5 luglio. Questi civili sono
stati uccisi mentre cercavano aiuto dal sito del Gaza Humanitarian Foundation, vicino
al Corridoio Morag a Rafah.

L’attacco del braccio armato di Hamas a Israele ha innescato un cambiamento nella politica del Paese nei confronti dei palestinesi di Gaza, passando da repressione e controllo a distruzione e annientamento. L’opinione pubblica ebraico-israeliana respinge le accuse di genocidio come antisemite nei confronti di Israele.

Margini della politica

È vero che i gruppi per i diritti umani sono considerati in Israele ai margini della politica e le loro opinioni non sono rappresentative della maggioranza degli israeliani, ma il fatto che l’accusa di genocidio provenga da voci israeliane infrange un tabù in una società che è stata reticente a criticare la condotta di Israele a Gaza.

Gli appelli allo sterminio dei palestinesi non sono nati dalle violenze del 7 ottobre 2023. Risalgono agli anni ’30 e hanno acquisito forza – e maggiore accettazione pubblica – con il venir meno delle prospettive di pace negli anni ’90, l’aumento dell’ansia esistenziale tra gli israeliani e l’aumento del potere politico dei sionisti religiosi nel XXI secolo.

Fonte di ispirazione

La maggior parte dei precursori del sionismo moderno si considera laica. Ciononostante, adotta i principali simboli ebraici e tratta la tradizione e i testi religiosi ebraici come fonte di ispirazione, pur non attribuendo loro autorità legale.

Questo crea un’opportunità per i leader israeliani di utilizzare i testi biblici per promuovere obiettivi politici. La Bibbia contiene alcune narrazioni esplicite di annientamento. La più nota è la storia di Amalek. “In una guerra tra Israele e Amalek, uccidere e annientare neonati e bambini è un comandamento. E chi è Amalek? Chiunque scateni una guerra contro gli ebrei” – parole del 1980 di Israel Hess, che all’epoca ricopriva la carica ufficiale di rabbino dell’Università israeliana Bar-Ilan.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

The Italian version is here

https://www.btselem.org/sites/default/files/publications/202507_our_genocide_eng.pdf

https://www.phr.org.il/wp-content/uploads/2025/07/Genocide-in-Gaza-PHRI-English.pdf

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