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Bombardata dai ribelli base ONU in Sudan: uccisi 6 caschi blu

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Sudan: non basta la guerra ora arriva anche il colera

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
19 agosto 2025

E’ guerra nella guerra in Sudan, il Paese dimenticato da tutti. Oltre a bombe, fame, violenze e morte, ora c’è un nuovo nemico: il colera. L’epidemia che ha colpito il Paese non si placa.

L’allarme è stato lanciato giovedì scorso da Medici senza Frontiere. Oltre 100 mila sudanesi sono già stati infettati e quasi 2.500 sono morti, uccisi dal micidiale batterio. Nella situazione generale caotica del Paese mancano le cure e, soprattutto, acqua pulita.

L’epidemia, dichiarata già un anno fa dal ministero della Sanità, sta colpendo in particolare le comunità di sfollati in regioni come il Darfur dove sta devastando i campi di Tawila. In questi siti decine di migliaia di civili vivono in miseria.

Colera in Sudan: campo per sfollati

Negli ultimi mesi centinaia di persone sono fuggite verso i siti di Tawila dal campo profughi di Zamzam, situato alla periferia di El-Fasher e distrutto dalle RSF ad aprile. Durante l’attacco a Zamzam gli uomini di Hemetti avevano ammazzato centinaia di persone.

Acqua bollita e limone

Gli sfollati devono bollire l’acqua per poterla bere, la usano anche come disinfettante e chi può, arricchisce il prezioso liquido con qualche goccia di limone. E’ l’unica medicina che hanno per combattere il batterio.

Ora si è mossa anche l’Unione Europea, insieme a Giappone, Regno Unito e Canada. Hanno chiesto sia alle Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, sia alle Forze armate sudanesi (SAF), capitanata da Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e capo del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, di lasciar entrare con la massima urgenza gli aiuti umanitari.

Dopo mesi primo convoglio

Nel comunicato congiunto è stato specificato che i civili vanno protetti e gli aiuti umanitari devono essere garantiti. E, secondo quanto riportato dall’ONU, sabato un convoglio di 18 camion con 440 metri cubi cibo e altro è arrivato a Al Malha, area nel Nord-Darfur.

Nel Paese si sta consumando una tra le peggiori crisi umanitarie del pianeta. L’insicurezza alimentare, la grave malnutrizione, oltre alla mancanza d’acqua potabile sono terreno fertile per il colera in gran parte del Paese.

Blindato Spartan 2-MAV fabbricato negli EAU, in dotazione alle RFS. Alcuni veicoli sono andati distrutti durante l’ultima battaglia a al-Fasher una settimana fa

Le madri sono disperate. Non sanno più come nutrire i propri figli. El-Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale è sotto assedio e la popolazione vive sotto continui bombardamenti; è intrappolata, impossibilitata a fuggire e gli aiuti umanitari sono bloccati. Gli ultimi scontri tra le RFS e SAF risalgono a pochi giorni fa. In alcuni video postati sui social network, si vedono anche blindati Spartan 2-MAV fabbricati negli Emirati Arabi Uniti dalla società Streit Group, in dotazione alle RFS.

Allarme carestia

Una decina di giorni fa anche OCHA (Ufficio della Nazioni Unite per gli Affari umanitari ha chiesto alle parti di far passare i convogli con beni di prima necessità in tutto il territorio nazionale. Tom Fletcher, sottosegretario dell’ONU per OCHA, ha avvertito che l’allarme carestia a El-Fasher è in rapido aumento.

Nel capoluogo del Darfur settentrionale la situazione è davvero drammatica. I prezzi sono saliti alle stelle. Nei pochi ospedali ancora aperti manca tutto, persino il cibo terapeutico per i piccoli affetti da malnutrizione grave.

Triangolo di Uwaynat: confini Sudan, Libia, Egitto

All’inizio di giugno le RFS hanno preso il controllo del Triangolo di Uwaynat, strategicamente importante perché è il territorio tra i confini di Sudan, Egitto e Libia.

Alleanze

Da tempo Egitto ed Emirati Arabi Uniti sostengono l’Esercito Nazionale Libico guidato dal generale Khalifa Haftar. Mentre Haftar e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sostengono le RSF ,il Cairo è schierato con l’esercito sudanese. Una faccenda piuttosto intricata. E va ricordato che EAU hanno sempre negato di appoggiare i ribelli sudanesi. Invece il sostegno di Haftar nei loro confronti è lampante.

Mercenari colombiani morti

Alla fine di novembre dello scorso anno un gruppo di mercenari colombiani è caduto in un’imboscata  tesa da combattenti alleati dell’esercito sudanese (SAF). I sudamericani facevano parte di un convoglio che trasportava anche armi. Erano stati reclutati da una società facente capo agli Emirati. Una volta arrivati a Abu Dhabi, sono stati trasportati in Libia e da lì, attraverso il deserto verso il confine sudanese.

E recentemente il Post, quotidiano on line, ha rivelato che soldati libici di Haftar vengono addestrati in gran segreto in Italia. Si tratta della forza speciale di Saiqa e della 155esima brigata. Compito di quest’ultima, composta da soldati provenienti dalle zone libiche di confine tra Egitto, Sudan e Ciad, è quello di controllare anche le rotte di migranti.

I corsi di addestramento delle milizie di Haftar si sono svolti nelle caserme Pisano di Capo Teulada (Sardegna) e in Toscana, nel Centro di addestramento di paracadutismo di Pisa. E, come sottolineato da il Post, l’Italia addestra anche le truppe del governo di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale,

E facile quindi constatare che il flusso dei mercenari colombiani continua. Secondo quanto riportato dall’emittente di Stato, l’aviazione sudanese ha distrutto un aereo degli Emirati Arabi Uniti che trasportava soldati di ventura del Paese sudamericano mentre stava atterrando in un aeroporto in Darfur, controllato dai paramilitari di Hemetti. L’aereo è andato completamente distrutto e le 40 persone a bordo sono tutte morte. Ora il presidente colombiano sta tentando di capire quanti suoi connazionali fossero a bordo.

Bambini soldato

Entrambe le parti in causa sono state accusate di gravi violazioni dei diritti umani, tra queste anche il reclutamento di bambini soldato. Eppure le leggi sudanesi parlano chiaro: vietato arruolare minori di 18 anni. Al momento attuale è impossibile sapere quanti baby soldato siano al soldo delle RSF o di SAF.

Colloqui in Svizzera

Fino adesso non sembra che le parti in causa vogliano risolvere il conflitto via diplomatica. I precedenti colloqui di pace a Gedda, fortemente voluti da Arabia Saudita e Stati Uniti, si sono conclusi con un nulla di fatto. Altri mediatori, tra questi anche l’Unione Africana e IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo) sono stati rifiutati da entrambe le fazioni.

Ma Washington non demorde. Lunedì scorso, Massad Boulos, consigliere speciale USA per l’Africa, nonché consuocero di Trump con forti interessi nel continente, ha incontrato “in gran segreto” in Svizzera il de facto presidente sudanese, al-Burhan.

L’incontro tra i due con le rispettive delegazioni non è stato riportato da media ufficiali dei due Paesi. Ma fonti indipendenti sudanesi hanno rivelato che il dialogo si sarebbe protratto per 3 ore.

L’emissario statunitense ha presentato una proposta volta a instaurare una tregua duratura per facilitare l’accesso degli aiuti umanitari, specie nelle zone maggiormente colpite da continui scontri.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Videocredit: Ayin Network

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Mercenari colombiani combattono in Sudan con gli ex janjaweed

Sudan inferno in terra: guerra senza sosta da Khartoum al Darfur

Sudafrica, caccia grossa in crisi: perde centinaia di milioni

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
18 agosto 2025

Grande crisi nell’ex colonia britannica per i safari di caccia grossa. Non potendo esportare trofei – o altre parti di animali selvatici ammazzati da facoltosi cacciatori – tutto il settore langue. Secondo Bloomberg, negli ultimi cinque anni il business della caccia alla fauna selvatica ha perso 2,25 miliardi di rand (110 milioni di euro).

Il Rinoceronte nero è nella Lista rossa dell’UICN

L’inizio della crisi



Una crisi iniziata sicuramente con lo scandalo dell’allevamento dei leoni in gabbia. Animali allevati per il tiro al bersaglio in recinti chiusi per danarosi cacciatori da trofeo di cui Africa Express ha ampiamente parlato.

L’affaire del “re della foresta” ingabbiato è rimasto per mesi sotto i riflettori. Ha indignato la comunità internazionale al punto che il governo sudafricano è stato costretto a vietare l’allevamento dei Big five. Inoltre, alcuni Paesi occidentali e dell’Unione europea hanno vietato l’importazione di trofei e di parti di animali selvatici.

Ma il problema della crisi di oggi è aggravata anche dalla burocrazia. Il Wildlife Ranching South Africa (WRSA), che rappresenta gli interessi delle aziende di caccia, ha fatto causa (vinta) al ministero dell’Ambiente. Secondo il WRSA “L’incapacità del ministero dell’Ambiente sudafricano di emettere quote di abbattimento, ferma il business”. Pretende che il governo indichi queste quote ma fino ad ora non ha avuto risposta.

“Senza trofeo rinuncio”

Gli operatori del settore non sono affatto contenti. “Senza trofeo rinuncio”- è ciò che dicono i ricchi cacciatori, soprattutto americani che vogliono portarsi a casa l’animale ucciso. Non disponendo del trofeo di un leone o un rinoceronte da mettere in salotto da mostrare agli amici, il cacciatore perde interesse.

Molti safari sono stati cancellati, come quelli al rinoceronte nero (Dicero bicornis). Una spedizione per cacciare questo pachiderma, come affermato su Bloomberg da Richard York, CEO di WRSA, costa anche 300 mila euro.

L’alto prezzo dipende dalla reperibilità della preda. Sterminato dai bracconieri per il corno utilizzano nella medicina tradizionale cinese, il Dicero bicornis è nella Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (UICN).

I diritti CITES

Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul commercio internazionale delle specie in via di estinzione (CITES) al Sudafrica sono permessi un numero limitato di abbattimenti.

Ha diritto a consentire la caccia di 150 elefanti all’anno e 150 leopardi maschi. Inoltre può abbattere lo 0,5 per cento della popolazione nazionale di rinoceronti neri equivalente a una decina di esemplari. Il safari per l’uccisione di un elefante costa da 56.000 a 85.500 euro, mentre cacciare un leopardo costa fino a 35.000 euro.

Caccia grossa leopardo
Caccia grossa leopardo (Courtesy Wildlife Ranching South Africa – WRSA)

L’indagine dell’Università

Nel giugno scorso la North-West University del Sudafrica ha pubblicato un report che evidenzia i numeri del business. L’indagine di chiama “Assessing the contributions of hunting tourism to the South African economy: a post-covid analysis (Valutazione del contributo del turismo venatorio all’economia sudafricana: un’analisi post-covid).

Un business miliardario

In Sudafrica la caccia rappresenta una parte significativa del settore turistico. Contribuisce con il 3,3 per cento del Prodotto interno lordo (PIL). Vale 13,6 miliardi di rand (circa oltre 660 milioni di euro) e dà lavoro a circa 95.000 persone.

La maggior parte dei cacciatori provengono da Stati Uniti, Canada e Unione Europea (soprattutto da Francia, Germania, Regno Unito, Svezia e Italia).

 I cacciatori internazionali spendono in media 488.000 rand  (oltre 23.700 euro) ciascuno per viaggio. I cacciatori sudafricani provengono soprattutto dalla provincia del Gauteng e ognuno spende circa 64.500 rand (3.200 euro) per stagione.

Un piatto troppo ricco al quale non vuole rinunciare chi vende safari di caccia grossa in Sudafrica. Intanto Elefanti, leoni, rinoceronti, leopardi e bufali – ma anche il resto della fauna selvatica – hanno un po’ di tregua e ringraziano.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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@sand_pin
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Crediti foto:
– Rinoceronte nero
Di Yathin S KrishnappaOpera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento

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Sudafrica, stop ad allevamenti di leoni e rinoceronti in cattività. Allevatori sul piede di guerra

Per salvare l’ecosistema il Sudafrica raccomanda lo stop all’allevamento di leoni

Sudafrica, la lucrosa industria dei leoni allevati in cattività venduti a pezzi

Ong denuncia: Italia importa centinaia di trofei di caccia di animali africani protetti

 

Sudafrica e l’industria del leone in cattività: acquistati dall’Italia cinque trofei

 

L’industria delle armi in Europa e il suo impatto sul lavoro

Speciale Per Africa ExPress
Gianni Alioti*
9 agosto 2025

Intorno a ReArm Europe e all’euforia dei mercati finanziari, impegnati a investire una montagna di soldi nei titoli di borsa delle principali industrie militari europee, è molto forte il rischio di un “abbaglio” sulle aspettative in termini di ricadute occupazionali.

Il ministro dell’imprese e del made in Italy, Adolfo Urso è arrivato a prospettare per le aziende della filiera dell’automotive incentivi per riconvertirsi verso il settore aerospaziale e della difesa, mentre il suo Governo – con la Legge di Bilancio 2025 – trasferiva 4,9 miliardi di euro dal fondo per la transizione ecologica e sociale dell’automotive all’aumento delle spese militari.

Spettro della guerra

Non è semplice per qualsiasi governo far digerire l’aumento delle spese militari a un’opinione pubblica, cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione, welfare. Evocare lo spettro della guerra con la Russia, evidentemente non basta. In questo caso è meglio giocarsi la carta delle ricadute industriali e occupazionali. Non è la prima volta che succede.

Ricordate, ad esempio, i diecimila nuovi posti di lavoro “messi sul piatto” nel 2006 dal Capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, Leonardo Tricarico e dal sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri (governo Prodi) se avessimo acquistato i caccia-bombardieri F-35 della Lockeed Martin? A distanza di 20 anni possiamo verificare quanto fosse una fakenews, per condizionare il dibattito pubblico.

Ma penso sia sbagliato liquidare con una semplice battuta i risvolti che l’economia di guerra ha sul sistema industriale europeo e sul lavoro. Meglio procedere secondo un rigore logico. È vero, come sostengono alcuni, che la corsa agli armamenti può salvare l’economia europea? E rilanciare l’occupazione industriale?

Analisi della realtà

A queste domande cercherò di rispondere non in base alle mie convinzioni etiche e politiche, ma attraverso l’analisi della realtà e dei dati (a consuntivo) inerenti sia l’andamento delle spese militari, sia la dimensione dell’industria aerospaziale e della difesa in Europa.

I dati ufficiali del Consiglio Europeo (https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/) [2] ci dicono che dal 2014 al 2024 nei paesi UE le spese militari sono più che raddoppiate a prezzi costanti (+121%). Sono passate da 147 a 326 miliardi di euro.

All’interno delle spese militari, quelle specifiche per armamenti e ricerca-sviluppo sono addirittura quadruplicate (+325%). Se consideriamo non i Paesi UE, ma i Paesi europei della NATO le spese militari nel 2024 sono state di più: 440 invece di 326 miliardi di euro. La crescita negli ultimi dieci anni registra una tendenza simile.

Tendenze del settore

Secondo il rapporto pubblicato a novembre 2024 da ASD, European Aerospace, Security and Defence Industries[3] che riguarda i 27 Paesi UE + Norvegia, Regno Unito e Turchia, a fine 2023 gli occupati totali diretti nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa risultano, un milione e 27 mila, di cui 518 mila relativi al militare (Grafico 1).

Il fatturato complessivo nel 2023 è stato di 290,4 miliardi di euro, di cui il 55 per cento nel militare. Partire dai dati forniti da ASD ha il vantaggio dell’attendibilità e della continuità nel tempo, consentendo analisi e valutazioni di natura strutturale sulle tendenze del settore.

Possiamo, infatti, analizzare cosa è successo in termini di fatturato e occupazione nello stesso arco di tempo di dieci anni (2014-2023) nel quale le spese militari sono cresciute del 90 per cento.

Crescita del 65 per cento

I ricavi nel militare nell’intera industria del settore in Europa sono cresciuti del 65 per cento, mentre l’occupazione è aumentata del 26 per cento da 407 mila e 800 a 518 mila addetti (Grafico 1).

La stessa dinamica occupazionale trova riscontro da una mia elaborazione sui bilanci aziendali di 10 tra le principali big dell’industria aerospaziale e della difesa europea[4] per fatturato militare. Dal 2015 al 2024 il numero dei loro occupati (nel civile e militare) è cresciuto in media del 23% (Grafico 2).

Grafico 2 – Andamento degli occupati nel mondo di 10 tra le principali multinazionali europee del settore aerospaziale e difesa[5]

* occupati a fine 2023  ** valore stimato in quanto Hensoldt nasce dal gruppo Airbus nel 2017 con la cessione della divisione Defence & Space all’americana KKR
*** Leonardo nel 2024 dichiara un’occupazione di 60.468 persone nel mondo. Questa cifra comprende oltre 3.000 persone inforza a Telespazio  (Leonardo 67% – Thales 33%) incorporata nel gruppo con la nascita della Divisione Spazio di Leonardo, per cui non sono nuovi posti di lavoro
Fonte: elaborazione Gianni Alioti sui dati di bilancio 2015, 2020, 2024 delle singole aziende

Sulla base dei trend occupazionali registrati a consuntivo negli ultimi dieci anni, possiamo azzardare alcune stime sull’incremento dei posti di lavoro diretti e indiretti nell’industria della difesa in Europa nel prossimo periodo 2025-2035, prendendo a riferimento le previsioni di aumento delle spese militari decise in ambito NATO.

Nel vertice di giugno a l’Aia è stato deciso che i Paesi europei dell’Alleanza Atlantica debbano arrivare, entro il 2035, a spendere un più 1,5 per cento in un ambito ancora vago di “sicurezza allargata” e a raggiungere entro il 2035 una spesa specifica in campo militare almeno del 3,5 per cento del loro PIL.

Le spese militari complessive passerebbero, quindi, da 440 a 969 miliardi di euro l’anno. Un incremento pari al 120 per cento, una percentuale simile a quella registrata nel periodo 2014-2024.

Industria armi

Pertanto, in base a quanto già successo negli ultimi dieci anni, possiamo ipotizzare realisticamente un aumento dei posti di lavoro in campo militare nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa intorno al 25-30 per cento.

Valore assoluto

In valore assoluto significa la creazione di 150-180 mila nuovi posti di lavoro diretti. Calcolando l’impatto del settore nell’intera catena dei sub-fornitori fino a quelli di terzo livello (circa 2 mila piccole-medie imprese secondo l’ASD), possiamo stimare altri 120-170 mila nuovi posti di lavoro indiretti.

In tutto, quindi, un aumento previsto dell’occupazione da 270 a 350 mila unità. Fatte le debite proporzioni, in Italia non si andrebbe oltre i 25-30 mila occupati in più. Briciole in rapporto, ad esempio, ai posti di lavoro a rischio nell’automotive.

Anche un recente rapporto di Ernst & Young (EY), uno dei principali network mondiali di servizi professionali di consulenza, ha analizzato il potenziale impatto economico dell’aumento della spesa militare europea, concentrandosi sul settore manifatturiero dell’UE e sulla creazione di posti di lavoro.

Scenari diversi

Lo studio ha esplorato diversi scenari in cui i membri europei della NATO aumentano la spesa per la difesa, in particolare per gli equipaggiamenti militari (mediamente il 33 per cento delle spese militari nel 2024 rispetto al 14 per cento nel 2024), per rafforzare le proprie capacità difensive e ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti.

Carro armato Leopard

EY, nel suo rapporto, stima che se i membri europei della NATO aumentassero la spesa annuale per gli equipaggiamenti militari di 65 miliardi di euro (passando da 72 a 137 miliardi di euro), il conseguente aumento degli ordinativi per l’industria della difesa europea, compresa la relativa catena di approvvigionamento, ammonterebbe a 35,7 miliardi di euro e, secondo EY, creerebbe forse 500 mila posti di lavoro in più.

Meno di un terzo dei 35,7 miliardi di euro aggiuntivi rientrerebbe nell’industria militare europea in senso stretto; il resto ricadrebbe nella catena di approvvigionamento. Ciò si traduce, comunque, nella creazione di circa 150 mila posti di lavoro diretti e aggiuntivi nell’industria militare europea.

Questa cifra coincide con quella contenuta anche in un nuovo rapporto di Bruegel e Kiel Institute, due think tank (il primo europeo, il secondo tedesco) specializzati i studi economici. Non solo, coincide anche con le mie previsioni di 150-180 mila occupati diretti in più.

Occupati indiretti

Lo scarto tra le mie previsioni e quelle del rapporto di Ernst & Young riguarda l’incremento di occupati indiretti nella catena dei sub-fornitori: 350 mila contro 120-170 mila.

Il modello utilizzato da EY per calcolare l’aumento dei posti di lavoro in relazione all’aumento delle spese per equipaggiamenti militari, è bottom-up.

Al contrario, io ho utilizzato il coefficiente di moltiplicazione (1,02) impiegato da ASD nel suo rapporto del 2022 (https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/)   [6] tra occupati diretti e quelli indiretti occupati nell’intera catena dei sub-fornitori fino a quelli di terzo livello.

Monte salari dei dipendenti

Nel mio computo è esclusa la cosiddetta “occupazione indotta” dal riutilizzo come spesa del monte salari dei dipendenti.

In ogni caso, anche se prendiamo per buona la previsione di EY dei 500 mila posti di lavoro creati, è bene sapere che equivarrebbero a solo l’1,5 per cento sul totale dei 33 milioni e centomila addetti nell’industria manifatturiera europea (fonte Eurostat).

Pertanto, qualsiasi serio ragionamento sulle ricadute industriali e occupazionali della corsa al riarmo non può prescindere dall’effettiva dimensione economica e sociale del settore della difesa.

In Europa i ricavi nel militare dell’industria aerospaziale e difesa nel 2023 sono di 158,8 miliardi di euro. Solo lo 0,70 per cento  del PIL dei 30 Paesi europei considerati. Includendo anche i circa 80 miliardi di euro di impatto economico indiretto il fatturato complessivo dell’industria militare non supera l’1,1 pro cento del PIL, con un milione e 46 mila addetti tra diretti e indiretti.

Una percentuale lontanissima dall’automotive, 3,7 per cento del PIL e 6 milioni e 600 mila occupati solo nel manifatturiero. L’idea, quindi, che il gigantesco piano di riarmo europeo rappresenti un’opportunità di crescita occupazionale e di riconversione di un settore in crisi come l’automotive è smentita da questi dati.

Spesa folle

A fronte di una folle spesa di 800 miliardi aggiuntivi in 4 anni, in Italia 30-35 miliardi in più all’anno, l’impatto sul lavoro è alquanto modesto. In alcuni casi concreti e circoscritti potrà rallentare la deindustrializzazione, ma non la invertirà.

Senza contare che le spese militari sono soldi pubblici sottratti a sanità, educazione, ricerca universitaria, transizione energetica e digitale, ambiente e welfare. Tutti ambiti in cui, a parità di spesa, si creerebbero dal 40 al 120 per cento in più di posti di lavoro.

Per non parlare di un altro studio americano che dimostra l’impatto occupazionale di un miliardo di dollari investito nel campo delle telecomunicazioni (banda larga), nel settore della sanità (tecnologia informatica), nel settore elettrico (smart grid). Si creerebbero rispettivamente 49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro. Da 3 a 7 volte in più rispetto agli stessi soldi spesi in campo militare.

Conclusioni

L’analisi dei dati dimostra ampiamente che raddoppiare o triplicare la spesa militare in Europa, oltre a non cambiare gli equilibri strategici e funzionare come deterrenza, non rappresenta un’inversione di tendenza alla crisi industriale europea e ai processi di deindustrializzazione che coinvolgono numerosi settori e territori.

Tale dinamica non alimenta né una forte espansione produttiva, tantomeno dell’occupazione. Consente, viceversa, una forte crescita sia dei dividendi per gli azionisti, sia degli ordinativi, dei ricavi e degli utili delle imprese militari. E, soprattutto, della loro dimensione finanziaria attraverso l’impennata delle loro quotazioni in Borsa.

Impennata quotazioni in borsa industrie belliche

Due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 5 agosto 2025 ha raggiunto 47,9 euro. Un incremento record del 538 per cento. Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da 90 euro a 1.763 euro. Un incremento iperbolico del 1.859 per cento.

Ingenti risorse

Tutto ciò grazie alle ingenti risorse dei singoli Stati destinate alle spese militari e in nuovi armamenti e ai mercati finanziari controllati dai fondi istituzionali come BlackRock, Vanguard, Capital Group, State Street Global, Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco ecc. che al contempo sono tra i principali azionisti di azionisti sia delle 5 big al mondo per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare.

Come ha scritto Maurizio Boni: “La retorica della “guerra di produzione” utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[7]

Gianni Alioti*
gianni.alioti@gmail.com

*Attivista e ricercatore di The Weapon Watch

[1] Una versione più breve è stata pubblicata sulla rivista Cercasi un Fine n.139 2025, con il titolo “Il mestiere delle armi”

[2] I dati sono quelli ufficiali del Consiglio Europeo https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/

[3] Il perimetro del rapporto riguarda I 27 paesi UE + Norvegia, Regno Unito e Turchia.

[4] Airbus, BAE Systems, Dassault, Hensoldt, Leonardo, Rheinmetall, Rolls Royce, Saab, Safran, Thales.

[5] La percentuale corrispondente a ciascuna multinazionale è il peso specifico di fatturato militare sul fatturato totale nel 2024

[6] https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/

[7] https://www.analisidifesa.it/2025/06/il-bluff-del-5-come-la-nato-allaia-si-e-condannata-allirrilevanza/

 

Gaza: omicidi sommari per eliminare testimoni scomodi, i giornalisti palestinesi

Speciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
16 agosto 2025

L’esercito di Israele che occupa illegalmente la terra di Palestina, continua a uccidere giornalisti palestinesi, accusandoli di terrorismo sulla base di prove prodotte dallo stesso governo che ha esplicitamente dichiarato di voler annettere la terra rimasta della popolazione nativa.

È impossibile verificare sul campo la verità dei fatti perché il governo israeliano, che non vuole testimoni indipendenti, vieta l’accesso a noi giornalisti internazionali.

Possiamo, e dobbiamo, però sottolineare la differenza tra il terrorismo di uno Stato che sta occupando illegalmente il territorio palestinese con le armi più potenti del mondo, e il terrorismo dei militanti oppressi dall”occupazione armata che costruiscono armi con quello che riescono a trovare.

La violenza degli oppressi (e in Palestina anche occupati) e quella degli oppressori (qui anche occupanti) non sono paragonabili. Il terrorismo invece sì.

Uno Stato democratico, oltre a non occupare la terra di altri popoli, riconosce il diritto al processo giudiziario che porta alla condanna o all’assoluzione dell’imputato.

Uno Stato che non riconosce questo diritto, e commette crimini di guerra, non può quindi essere definito una “democrazia”.

Gli omicidi extragiudiziali sono uccisioni deliberate compiute da autorità statali, o con il loro consenso, senza un processo legale o una sentenza giudiziaria. Le esecuzioni sommarie facevano parte di una pratica utilizzata soprattutto dai governi fascisti sudamericani.

Parliamo di esecuzioni fuori dal sistema giustiziario, e sono contrarie ai diritti umani fondamentali perché:

  • le vittime non hanno avuto accesso a un giusto processo
  • sono commesse da forze di polizia, militari, o agenti dello Stato, oppure da gruppi paramilitari che agiscono con il consenso o la tolleranza dello Stato

L’IDF (Forze di Difesa Israeliane) commette azioni terroristiche contro il popolo dei nativi palestinesi da 77 anni. Uccide, stupra e tortura i civili sotto occupazione sistematicamente. E solo grazie alla testimonianza delle vittime di questi abusi, oggi, la verità è davanti agli occhi di tutti. Anche di quelli che continuano a chiuderli.

Noi giornalisti di Senza Bavaglio continuiamo a sostenere i nostri colleghi palestinesi, che con grande coraggio stanno difendendo la libertà di stampa con la vita. Siamo al loro fianco, contro la censura antidemocratica imposta dal governo di Netanyahu. E non smetteremo mai di ringraziarli per il loro sacrificio.

Qualcuno in Israele parla di “censura preventiva per proteggerci da Hamas”. Un nuovo modo per legittimare l’oppressione della libera informazione.

L’ennesima giustificazione per manipolare la realtà dei fatti, davanti a una Comunità Internazionale che non può più compiacere una tale falsificazione della verità.

Sia ben chiaro: condanniamo il terrorismo di qualsiasi genere, forma e provenienza. La violenza contro i civili è sempre inaccettabile. Ma è nostro dovere ricostruire la narrazione partendo da una sostanziale differenza: chi occupa (con le armi più potenti del mondo) la terra di un’altra popolazione, non ha il diritto di difendersi dal popolo occupato.

Valentina Vergani Gavoni
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Menzogne e disinformazione israeliane per coprire il genocidio a Gaza

EDITORIALE
Massimo A. Alberizzi
15 agosto 2025

In questi giorni stiamo assistendo a qualcosa di indecente: più l’opinione pubblica si sposta verso una inappellabile condanna del genocidio a Gaza e in Palestina e più la propaganda israeliana, che nega l’evidenza, diventa ossessiva e martellante. I social di riempiono di improperi e insulti verso coloro che sono i più dettagliati accusatori del governo.

Ovviamente tra questi la relatrice dell’ONU per i territori occupati della Palestina, Francesca Albanese. Gli attacchi sono conditi da accuse false, non corroborate da uno straccio di prova.

FrancescaAlbanese

Calunniano Albanese così: è finanziata da Hamas, è sposata o è l’amante di un palestinese, ha uno stipendio stratosferico (invece il suo incarico è a titolo gratuito), è una fiancheggiatrice dei terroristi. Queste sono le menzogne più comuni: una meticolosa e metodica denigrazione.

L’ultima orrenda menzogna riguarda i 5 giornalisti di Al Jazeera, più un freelance, ammazzati in un bombardamento mirato il 10 agosto. Facevano parte di una cellula di Hamas.

Tutto da dimostrare, ovviamente, e le esecuzioni extragiudiziali cui ci vogliono abituare, riguardano più gli squadroni  della morte e le bande fasciste e naziste, organizzati per ammazzare gli oppositori, che un Paese che pretende di essere considerato democratico. (Altra falsificazione storica. Un Paese dove vige la segregazione razziale non può essere definito democratico)

Generale cinese

Le guerre, scriveva il generale e filosofo cinese, Sun Tzu, nel suo trattato “L’arte della guerra”, si vincono con la forza o con l’inganno (valga per tutte quella di Troia). Poiché Israele non riesce a vincere con la forza, non le resta che l’inganno. Così ha imbastito una campagna mediatica piena di menzogne e falsità, il cui obiettivo è cercare di piegare un’opinione pubblica sempre più restia a giustificare il genocidio in atto.

Sun Tzu: “Le guerre si vincono con la forza o con l’inganno”
(Cavallo di Troia)

Ripeto: genocidio. Un concetto che viene negato perché assimila i suoi autori al nazismo, responsabile di crimini efferati contro gli ebrei. Impossibile e insopportabile per gli ebrei solo pensare che alcuni dei loro leader possano essere associati a un crimine così orrendo. E così lo negano.

Elenco di bugie

Fare un elenco delle bugie che vengono snocciolate di continuo e con ossessione, è complicato perché le panzane sono talmente tante che se ne perde facilmente il conto. Mi limiterò a spiegarne solo qualcuna, ricordando come Joseph Goebbels, il ministro di Hitler che per i nazisti ha codificato le regole della propaganda, spiegava che una menzogna ripetuta senza sosta diventa verità.    

La prima in ordine di tempo è quella secondo cui tutto è cominciato il 7 ottobre 2023. Non è vero. I palestinesi subiscono violenze e angherie dal 1948 da quando cioè le Nazioni Unite istituirono uno stato su basi religiose in un territorio che era di una popolazione che non ne voleva sapere. E’ come se avessero concesso una licenza edilizia per costruire un palazzo su un terreno di un altro.

Operazione coloniale

Un’operazione di stampo coloniale, giustificata dal desiderio delle grandi potenze di allora, vincitrici della guerra mondiale di risarcire la popolazione ebraica vittima della shoa. Una decisione comprensibile, ma miope, visti i risultati: ottant’anni di guerra, violenze e diritti calpestati.

Altra menzogna ripetuta con ossessione è la definizione di terroristi che viene data a tutta la popolazione palestinese, identificata senza alcun distinguo con Hamas. Occorre fare bene attenzione. Hamas, pochi lo sottolineano, è un movimento di liberazione assimilabile a tanti altri che hanno combattuto una cinquantina d’anni fa con ideali di democrazia e libertà (spesso traditi, lo so!). Allora venivano chiamati “guerriglieri”, termine non dispregiativo come “terroristi”.

Da “terrorista” a premio Nobel per la pace

Uno dei primi protagonisti di quelle guerriglie è stato Nelson Mandela, bollato come terrorista assieme alla sua organizzazione, l’Africa National Congress.
Come ha fatto Netanyahu qualche giorno fa con Hamas, anche a Mandela, in galera in Sudafrica, fu offerta la possibilità di tornare in libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Rifiutò la proposta e restò in carcere, ma la storia gli diede ragione. A Sudafrica pacificato, vinse il Premio Nobel per la pace. Una bella parabola: da terrorista in carcere per 27 anni, a Nobel.

Non dobbiamo quindi meravigliarci se Hamas ha deciso, in nome di democrazia e libertà, di respingere il piano di pace di Netanyahu che, con la sua politica di muscoli senza testa, pretende l’annientamento e la pulizia etnica di un popolo cui sono negati i più basilari diritti.

Striscia di Gaza: genocidio

La delegittimazione di chi tenta di frenare il genocidio a Gaza è evidente quando, ormai privi di argomenti, i difensori di Israele lanciano accuse non provate di antisemitismo. La responsabilità dei rigurgiti di antisemitismo invece è proprio di Israele e della sua politica di sterminio dei palestinesi.

Pretesa sionista

Israele pretende di identificare tutti gli ebrei con la sua politica sionista. Il sionismo è un’ideologia politica nazionalista e suprematista. Criticare il sionismo e la politica di Israele non vuol dire odiare gli ebrei.

Chi critica il fascismo non vuol dire che è anti italiano e tanto meno che odia gli italiani e li voglia sterminare. Ecco l’inganno. Si convince la gente a difendere Israele perché gli antisemiti vogliono cancellare dalla faccia della Terra gli ebrei. Falso. Questa pratica mendace serve solo a giustificare il genocidio con una ingannevole equazione: per non essere massacrati gli ebrei devono massacrare. Una tecnica che gli estimatori di Israele utilizzano con disinvoltura.

Così, con cinismo inquietante, strumentalizzano il disumano e ignobile massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023 per legittimare il genocidio in corso: una colpevole e consapevole mistificazione che mette sullo stesso piano la violenza degli oppressi a quella degli oppressori. Ma pretendere dall’opinione pubblica un distinguo su questo piano forse è chiedere troppo: per ottant’anni, infatti, è stata bombardata dalla propaganda israeliana.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
@malberizzi
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The English version of this article is here

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Israeli lies and disinformation to cover up the genocide in Gaza

News Analysis
Massimo A. Alberizzi

These days we are witnessing something of an abomination: the more public opinion shifts towards an unequivocal condemnation of the genocide in Gaza and Palestine, the more Israeli propaganda, which denies the evidence, becomes obsessive and relentless. Social media is filled with insults and abuse directed at those who are the most vocal critics of the government. Among them, of course, is the UN rapporteur for the occupied Palestinian territories, Francesca Albanese. The attacks are peppered with false accusations, unsupported by a shred of evidence.

They slander Albanese as follows: she is funded by Hamas, she is married to or is the lover of a Palestinian, she has a stratospheric salary (instead, her position is unpaid), she is a supporter of terrorists. These are the most common lies: a meticulous and methodical denigration.

The latest horrendous lie concerns the five Al Jazeera journalists, plus a freelancer, killed in a targeted bombing on August 10. They were part of a Hamas cell. This is yet to be proven, of course, and the extrajudicial executions we are being asked to accept are more reminiscent of death squads and fascist and Nazi gangs organized to kill opponents than a country that claims to be democratic. (Another historical falsification. A country where racial segregation exists cannot be called democratic.)

Chinese general

Wars, wrote the Chinese general and philosopher Sun Tzu in his treatise “The Art of War,” are won by force or by deception (the Trojan War being a prime example). Since Israel cannot win by force, deception is its only option. So it has put together a media campaign full of lies and falsehoods, whose goal is to try to sway a public opinion that is increasingly reluctant to justify the genocide that is taking place.

Lin Tzu: War are won by force or by deception (Trojan horse)

I repeat: genocide. A concept that is denied because it likens its perpetrators to Nazism, responsible for heinous crimes against the Jews. It is impossible and unbearable for Jews to even think that some of their leaders could be associated with such a horrific crime. And so they deny it.

List of lies

Making a list of the lies that are constantly and obsessively repeated is complicated because there are so many of them that it is easy to lose count. I will limit myself to explaining just a few, recalling how Joseph Goebbels, Hitler’s minister who codified the rules of propaganda for the Nazis, explained that a lie repeated incessantly becomes the truth.

Chronologically the first is “everything began on October 7th 2023. This is not true. The Palestinians have been subjected to violence and oppression since 1948, when the United Nations established a state on religious grounds in a territory that belonged to a population that wanted nothing to do with it. It is as if they had granted a building permit to construct a building on someone else’s land.

Colonial-style operation

It was a colonial-style operation, justified by the desire of the great powers of the time, the victors of the world war, to compensate the Jewish population who were victims of the Shoah. It was an understandable decision, but a short-sighted one, given the results: eighty years of war, violence, and trampled rights.

Another lie repeated obsessively is the definition of terrorists given to the entire Palestinian population, identified without distinction with Hamas. We must be very careful. Hamas, few point out, is a liberation movement similar to many others that fought fifty years ago with ideals of democracy and freedom (often betrayed, I know!). At the time, they were called ‘guerrillas’, a term that is not as derogatory as ‘terrorists’.

From ‘terrorist’ to Nobel Prize winner for peace

One of the first protagonists of those guerrilla wars was Nelson Mandela, who was branded a terrorist along with his organization, the African National Congress.
As Netanyahu did a few days ago with Hamas, Mandela, who was in prison in South Africa, was offered the chance to regain his freedom in exchange for renouncing armed struggle. He rejected the proposal and remained in prison, but history proved him right. With South Africa pacified, he won the Nobel Peace Prize. A beautiful parable: from terrorist in prison for 27 years to Nobel laureate.

We should therefore not be surprised that Hamas has decided, in the name of democracy and freedom, to reject Netanyahu’s peace plan, which, with its policy of muscle without brains, calls for the annihilation and ethnic cleansing of a people denied their most basic rights.

The delegitimization of those who try to stop the genocide in Gaza is evident when, now lacking arguments, Israel’s defenders launch unproven accusations of anti-Semitism.

Zionist claim

The responsibility for the resurgence of anti-Semitism lies with Israel and its policy of exterminating the Palestinians. Israel claims to identify all Jews with its Zionist policy.

Zionism is a nationalist and supremacist political ideology. Criticizing Zionism and Israel’s policies does not mean hating Jews. Criticizing fascism does not mean that one is anti-Italian, much less that one hates Italians and wants to exterminate them. This is the deception. People are persuaded to defend Israel because anti-Semites want to wipe Jews off the face of the Earth. False.

This mendacious practice serves only to justify genocide with a deceptive equation: in order not to be massacred, Jews must massacre.

Genocide in Gaza

This is a technique that admirers of Israel use with ease. Thus, with disturbing cynicism, they exploit the inhuman and ignoble massacre perpetrated by Hamas on October 7, 2023, to legitimize the ongoing genocide: a culpable and conscious mystification that equates the violence of the oppressed with that of the oppressors.

But expecting the world to make a distinction on this level is perhaps asking too much: for eighty years, it has been bombarded by Israeli propaganda.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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This article was translated from Italian using Deepl, and the English was edited by Ellie Spring.

La versione italiana di questo articolo la trovate qui

Mali: con i militari arrestato per spionaggio anche un francese

Africa ExPress
Bamako, 14 agosto 2025

Oggi a fine giornata, il ministro per la Sicurezza di Bamako, Daoud Aly Mohammedine, ha letto alla TV nazionale un breve comunicato, a proposito dei numerosi fermi effettuati negli ultimi giorni nei ranghi dell’esercito maliano. Tra gli arrestati spunta anche un francese accusato di spionaggio: lavorerebbe per la DGSE (i servizi segreti francesi: direzione generale della sicurezza esterna) e avrebbe mobilitato civili e militari per tentare di destabilizzare il governo.

Mali: dieci delle persone arrestate, mostrate alla TV nazionale del Mali ieri sera.
Photocredit Maliweb

Ma, come ha precisato Serge Daniel nel suo articolo su RFI, al momento non è stata presentata alcuna prova materiale circa il coinvolgimento del cittadino francese.

Accusa di tentato golpe

“Abbiamo arrestato un piccolo gruppo di elementi marginali delle forze armate. Sono accusati di aver commesso reati penali volti a destabilizzare le istituzioni della Repubblica. Militari e civili, con l’aiuto di Stati stranieri, hanno cercato di ostacolare la rifondazione del Mali”, ha fatto sapere il capo del dicastero per la Sicurezza.

Il governo di Bamako, senza mezzi termini, punta dunque dritto il dito contro governi stranieri e assicura: “Le indagini giudiziarie proseguono per identificare eventuali complici”.

General Néma Sagara, membro di Stato maggiore dell’aeronautica

Dopo la lettura del comunicato all’emittente nazionale maliana, è stata mostrata una foto con una decina di persone, tra loro anche due generali, Abass Dembélé, ex governatore di Mopti e Néma Sagara, l’unica donna a ricoprire un così altro grado militare nell’esercito del Mali, e il francese, presumibilmente appartenente ai servizi di Parigi.

Ma i fermi effettuati sono ben più di dieci, una cinquantina almeno, come abbiamo riportato nel nostro ultimo articolo di pochi giorni fa.

I militari arrestati appartengono per lo più alla Guardia Nazionale, un corpo dell’esercito maliano, che fa capo al ministro della Difesa, il generale Sadio Camara, una delle figure di spicco della giunta militare capeggiata da Assimi Goïta, presidente del Paese. Diversi osservatori hanno sottolineato che alcune delle persone incarcerate dalle autorità sono vicine a Camara, che per il momento però non è coinvolto nelle indagini.

Notizia in aggiornamento

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Il presidente golpista “di transizione” in Mali si inchioda alla poltrona: resterà al potere 5 anni e più

Gaza: quando l’occupazione si maschera da aiuto umanitario

EDITORIALE
Federica Iezzi
di ritorno da Gaza City, 14 agosto 2025

A Gaza la popolazione è minacciata da una catastrofica carestia, le cui cause serpeggiano nelle politiche perseguite dal governo israeliano. E, a questo proposito, all’interno del mondo ebraico sono ben identificabili tre posizioni

Punti di distribuzione a Rafah della Gaza Humanitarian Foundation

La prima è quella del negazionismo: a Gaza non c’è carestia. Coloro che si rifiutano di vederla, per difendere lo Stato di Israele a tutti i costi, indipendentemente dalla distorsione dell’ideale sionista riflessa nelle politiche governative.

La seconda posizione ammette che la carestia esiste e ne approva il fatto: lasciare gli abitanti di Gaza alla fame potrebbe costringerli a fuggire o a rivoltarsi contro Hamas, anche se ciò significa causare la morte di migliaia di civili.

Nazionalismo volgare

Questa posizione esiste, è formulata, trasmessa e difesa. Ed è quella del nazionalismo più volgare, pronto a sacrificare tutto sull’altare della forza: la vita dei civili palestinesi, ma anche la dignità del popolo ebraico.

Infine, la terza posizione, è quella secondo la quale affamare una popolazione è inaccettabile. È un crimine, un crimine che il diritto internazionale – a condizione che giudichi sulla base di fatti comprovati e riesca a liberarsi dalle pressioni antisioniste che lo gravano da molti anni – è legittimato a classificare come tale, e deve quindi poter punire.

La condanna è quindi ciò che è richiesto al di sopra di ogni altra considerazione. Deriva da un requisito politico e morale minimo.

Manipolazione degli aiuti

La scandalosa manipolazione israelo-americana degli aiuti umanitari, che prende vita nella Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sta impiegando società di sicurezza private (composte in gran parte da ex militari, personale dell’intelligence, personale filo-israeliano) per proteggere siti di distribuzione degli aiuti, una mossa che mina i principi umanitari fondamentali.

Secondo il diritto internazionale, le operazioni di aiuto devono rimanere neutrali, indipendenti e di natura civile. Trattare gli aiuti umanitari come una missione militarizzata viola tali standard.

Convenzione di Ginevra

Secondo l’articolo 59 della Quarta Convenzione di Ginevra, Israele, in quanto potenza occupante, è obbligato a consentire alle organizzazioni umanitarie indipendenti e imparziali di operare liberamente a Gaza.

Ma chi è oggi al comando della GHF? Non più il suo ex direttore esecutivo, Jake Wood, il quale si è dimesso prima che la fondazione iniziasse a fornire aiuti, affermando che l’iniziativa non poteva aderire ai principi umanitari fondamentali.

Tra le persone coinvolte oggi ci sono l’ex contractor di USAID (smantellata da Trump all’inizio del suo mandato), John Acree, e il reverendo Johnnie Moore, leader del cuore evangelico dell’America e parte del consiglio di amministrazione dell’International Fellowship of Christians and Jews (IFCJ), potente organizzazione con sede negli Stati Uniti dedicata alla promozione dell’immigrazione ebraica in Israele (aliyah) come adempimento della profezia biblica.

L’istituzione del sionismo come Stato ha implicato un allontanamento dall’innocenza, e Israele da allora si è assunto la responsabilità del suo potere. I valori democratici, che sono diventati più chiari a seguito dell’Olocausto, in particolare l’attaccamento alla dignità della vita umana e i diritti delle minoranze, dovrebbero essere elementi consustanziali del sionismo e dell’esperienza ebraica moderna post-Shoah, senza i quali il destino è l’autodistruzione.

La democrazia non è solo una questione di sovranità popolare e di istituzioni che limitano il potere dello Stato. È anche una cultura, che presuppone il rispetto umano, la volontà di risolvere i conflitti attraverso compromessi pacifici e una certa indulgenza verso l’umanità in generale e non solo verso quella della propria religione o nazione.

Eppure, se prendiamo in considerazione questi semplici criteri, come possiamo descrivere le azioni del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania come democratiche?

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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L’Italia mente su armi a Israele, che a Gaza ammazza altri 6 giornalisti

Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
12 agosto 2025

Ammonio per fare munizioni, trizio per armi termonucleari e collaborazioni di intelligence con Leonardo: l’Italia non ha mai interrotto le sue relazioni militari, logistiche, culturali e commerciali con Israele. Mentre il resto dell’Europa chiude i rubinetti e le relazioni, molta parte del mondo riconosce la Palestina, si espande il movimento dal basso del boicottaggio contro i prodotti israeliani, il presidente del consiglio Giorgia Meloni fa finta di niente e il suo vice e ministro degli esteri, Antonio Tajani, crede che l’opinione pubblica sia distratta dalle vacanze.

Israele occupazione militare a Gaza

Secondo Tajani “dal 7 ottobre non vendiamo più armi a Israele”. Di preciso Tajani in un’intervista al Messaggero ha detto che “siamo a favore di aumentare le sanzioni europee contro i coloni israeliani violenti. Ricordo che dal 7 ottobre di due anni fa l’Italia non vende armi a Israele”. Le sue parole sono durate in battito di ciglia, subito smentite dal deputato di AVS e co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli.

Non solo armi, anche assistenza

“La verità è che il governo italiano continua a fornire assistenza militare e manutenzione alle armi già vendute, oltre a esportare materiali e tecnologie dual use – ha detto Bonelli – dal 7 ottobre a oggi – tra novembre 2023 a marzo 2025 – l’Italia ha esportato verso Israele 6 mila tonnellate di nitrato di ammonio sostanza base per la produzione di esplosivi”.

“Nello stesso periodo – ha continuato – sono aumentate le esportazioni di trizio, isotopo radioattivo utilizzabile nella produzione di armi nucleari. Il no del governo Meloni alla revoca dell’accordo militare Italia-Israele conferma il ruolo di sostegno militare del nostro paese a chi oggi sta sterminando il popolo palestinese”.

A giugno Archivio Disarmo scriveva che “secondo il SIPRI, Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, tra il 2019 e il 2023, l’Italia aveva esportato verso Israele 23.8 milioni di euro tra cui elicotteri e cannoni prodotti dalla Leonardo Spa. A questi sistemi d’arma si aggiunge la cooperazione strutturale nel programma dei caccia F-35, con componenti italiane destinate ai velivoli israeliani.

Secondo il Coeweb, il sistema informativo dedicato alle statistiche del commercio con l’estero, nel 2024 l’Italia ha esportato in Israele “armi e munizioni” (cat. 93) per circa 5.8 milioni”. Il parteneriato strategico tra i due paesi scadeva l’8 giugno, ma il governo Meloni ha ritenuto opportuno lasciare che si rinnovasse automaticamente. https://archiviodisarmo.it/armi-italiane-a-israele-arrivato-il-momento-di-fermarsi.html

Proteste globali

A fronte delle proteste mondiali, anche il ministro della difesa Guido Crosetto ha detto a La Stampa che “Quel che sta accadendo è inaccettabile. Non siamo di fronte a una operazione militare con danni collaterali, ma alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà. Noi siamo impegnati sul fronte degli aiuti umanitari, ma oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare”.

Quindi l’Italia ragiona col most wanted in quanto “criminale di guerra” secondo la Corte penale internazionale, proprio pochi giorni dopo che il governo israeliano ha approvato il piano di occupazione di tutta la Striscia che, secondo i vertici militari del loro Paese comporterà altri 3 o 4 anni di guerra, la morte di altri ostaggi (ce ne sarebbero ancora una ventina nelle mani di Hamas), la morte di altri riservisti e l’ennesimo sfollamento della popolazione palestinese.

Il piano infatti prevede di “liberare anche il 16 per cento delle aree della Striscia nel centro e nel nord, per dirottare tutti verso a zona più desertica, quella di al Mawasi, per far morire ancora meglio di fame i palestinesi finora sopravvissuti.

Ammazzati giornalisti

Proprio domenica sono stati uccisi cinque giornalisti di Al Jazeera che erano in una tenda a Gaza City e un freelance: si tratta di Anas al-Sharif e Muhammad Qreiqeh e i cameraman Ibrahim Zaher e Mohammed Noufal e l’operatore di riprese Moamen Aliwa, nonchè il fotografo freelance Mohammed Al-Khaldi. I giornalisti uccisi a Gaza salgono così a 267.

I funerali dei cinque giornalisti di Al Jazeera uccisi il 10 agosto dall’esercito israliano (foto Omar Al-Qattaa/AFP)

La redazione di Al Jazeera ha rimarcato che “l’ordine di assassinare Anas Al Sharif, uno dei giornalisti più coraggiosi di Gaza, e i suoi colleghi, è un tentativo di disperato di mettere a tacere le voci che testimoniamo l’occupazione di Gaza”.

Il direttore della sezione inglese della tv qatariota Salah Negm ha parlato di “omicidi mirati” e respino ogni accusa di appartenenza ad Hamas messa in giro da IDF.

Qui le parola della redazione di Al Jazeera: https://www.aljazeera.com/news/2025/8/11/al-jazeera-condemns-killing-of-its-journalists-by-israeli-forces-in-gaza

Condanna dell’ONU

L’Onu ha condannato l’uccisione dei giornalisti come “grave violazione del diritto internazionale umanitario”. Ovviamente IDF ha detto che alcuni di lorderanno terroristi di Hamas. Tutto da dimostrare. Al-Sharif ad aprile aveva registrato un messaggio che oggi i suoi colleghi hanno pubblicato su X e diventa il suo testamento: “Vi affido la Palestina, il gioiello della corona del mondo musulmano, il cuore pulsante di ogni persona libera in questo mondo. Vi affido il suo popolo, i suoi bambini innocenti e oppressi che non hanno mai avuto il tempo di sognare o di vivere in sicurezza e pace”.

L’Organizzazione ha chiesto l’apertura di un’inchiesta da affidare a una commissione autorevole e indipendente.

Oltre 100 ex eurodeputati tra cui Josep Borrell hanno scritto alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e all’Alta rappresentante Kaja Kallas per chiedere la sospensione dell’accordo di associazione Ue-Israele: “La fame imposta alla popolazione di Gaza è un crimine di guerra, in violazione dei diritti umani su cui si fondano gli accordi di associazione dell’Ue”. Fra i firmatari ci sono Luciana Castellina, Beatrice Covassi, Monica Frassoni, Luisa Morgantini, Roberto Musacchio e Pasqualina Napoletano.

Greta Thumberg ha annunciato una nuova flottilla diretta a Gaza, questa volta in rappresentanza di 44 paesi. Si prevede che diverse barche partano dalla Spagna il 31 agosto e si aggiungeranno anche imbarcazioni provenienti dai paesi del Nord Africa.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
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In gran segreto capo di Stato africano atterra a Cagliari

Africa ExPress
Cagliari, 12 agosto 2025

Allarme rosso stasera all’aeroporto Elmas di Cagliari. Alle 21 è atterrato in gran segreto un volo privato, Bombardier Global 7500 (costo non meno di 75 milioni di dollari), accolto con una potente scorta pubblica e due pulmini, che si sono avvicinati per accogliere l’anonimo passeggero. E sceso con la moglie.

Aeroporto Cagliari-Elmas

Le autorità italiane hanno tenuto segretissimo l’arrivo di questa persona che, secondo informazioni non confermate raccolte da Africa ExPress, sarebbe un capo di Stato di uno dei Paesi più poveri di tutta l’Africa. Noi aspettiamo che l’arcano venga rivelato.

Recentemente l’Angola ha acquistato un paio di aerei Bombardier Global 7500 che ha inserito nella sua flotta. L’ospite sbarcato alla chetichella in Sardegna potrebbe quindi essere il presidente angolano, João Lourenço.

Non è la prima volta che capi di Stato africani scendono a Cagliari per farsi alcuni giorni di vacanza e godersi in gran segreto l’Isola. Normalmente si è trattato satrapi che si concedono con le loro mogli vacanze di extra lusso, mentre le loro popolazioni muoiono di fame.

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