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Gioie e dolori dei BRICS: le difficoltà del Sudafrica e l’adesione della Turchia

Speciale Per Africa ExPress
Marcello Ricoveri*
Windhoek (Namibia), 15 settembre 2024

Nonostante il Sudafrica continui la sua politica di consolidamento della propria posizione di preminenza in seno al BRICS – ancorché il presidente Cyril Ramaphosa, rieletto alle ultime elezioni, sia distratto non poco dalle vicende di politica interna – le crisi che affliggono sia l’Europa che il Medio Oriente che l’Africa hanno causato ripercussioni sull’economia del Paese che conosce una fase di stanca.

Nel frattempo, a seguito della loro richiesta di adesione, il BRICS sì è arricchito di quattro Paesi: Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto. Mentre L’Argentina ha ritirato la propria domanda di adesione e l’Arabia Saudita ancora non ha deciso cosa fare.

È innegabile, peraltro, che il commercio di beni all’interno delle economie del BRICS abbia superato di parecchio gli scambi fra il gruppo e i Paesi aderenti al G7.

Sempre dal punto di vista economico uno sviluppo significativo dell’organizzazione ha rappresentato la creazione della nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank) che sarà destinata a finanziare e promuovere progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile, soprattutto nei Paesi africani. Il Sud Africa dunque continua a incrementare i propri rapporti economici e commerciali all’interno del BRICS, principalmente con la Cina, anche se la propria bilancia commerciale presenta un notevole deficit di rand (la valuta sudafricana, ndr) che nel 2023 ha raggiunto quasi i 178 miliardi, ovvero poco più di 9 miliardi di euro).

Forse anche a causa di tali sviluppi economico-commerciali, oltreché per motivi politici di equidistanza fra Oriente ed Occidente, La Turchia ha inoltrato domanda di adesione al gruppo dei BRICS.

Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan

Il 2 settembre scorso – secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg – un portavoce del partito di Erdogan, Omar Celik, ha riferito che finora non vi sarebbero “ sviluppi concreti ”al riguardo. Non vi sono dubbi, tuttavia, sulla volontà di aderire al BRICS da parte della Turchia. In un discorso del 1 Settembre, lo stesso Presidente Erdogan ha affermato “ la Turchia può diventare un Paese forte, prospero, prestigioso ed efficace, se migliora le sue relazioni con l’Oriente e l’Occidente, simultaneamente”.

Secondo questa stessa fonte in definitiva questa iniziativa a favore dei BRICS, farebbe seguito alla mancanza di uno sviluppo positivo dell’annosa richiesta turca di aderire all’Unione Europea ed alle recenti crescenti crepe, in seno alla NATO, a causa dei legami troppo stretti della Turchia con la Russia e dell’allineamento turco con Hamas nel conflitto israelo-palestinese.

Peraltro anche il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, non nasconde che la Turchia continuerà sia a perorare la propria causa per aderire all’Unione Europea, sia per partecipare al BRICS, dimostrando che Ankara vuole avere “la sua torta e anche mangiarla”. Anche se questa posizione politica non appare realistica e rivela che la Turchia di Erdogan è un alleato dell’Occidente soltanto nella forma.

Sempre in tema di BRICS è da sottolineare la recente iniziativa di uno dei suoi nuovi membri, l’Iran, che sta attivamente lavorando con la Russia per lanciare una nuova moneta di scambio, che valga per tutta l’area economica rappresentata dai BRICS.

Non sembra che tale iniziativa venga per ora condivisa dagli altri membri del gruppo, ed in particolare dal Sudafrica, in seno al quale si sono levate voci secondo cui una nuova moneta di scambio, condivisa all’interno del gruppo, può essere un’iniziativa rischiosa e non necessaria, perché potrebbe allontanare partner fondamentali della stragrande maggioranza del BRICS, come l’Unione Europea, il Regno Unito e gli Stati Uniti.

Sempre in Sudafrica autorevoli economisti considerano che sarebbe molto più opportuno e sensato avere una moneta di scambio unica per la SADC (la comunità economica dei Paesi dell’Africa australe, Southern African Development Community) in virtù della vicinanza geografica dei sedici Stati che ne fanno parte e del fatto che già ora molti di questi Paesi usano il rand, oppure hanno la loro moneta agganciata al Randr

Inoltre si fa rilevare come il Sudafrica abbia già ora una bilancia commerciale molto sfavorevole nei confronti degli altri partners del BRICS, mentre chiaramente vi siano vantaggi commerciali evidenti dagli scambi con l’Unione Europea, gli Stati Uniti ed il Regno Unito. Recentemente membri del governo sudafricano hanno sottolineato l’importanza per questo Paese di incrementare l’esportazione di prodotti finiti e non materie prime, specialmente in seno alle relazioni commerciali con il colosso cinese. Il Sud Africa deve creare una economia export oriented, ha detto il vice ministro, Andrew Whitfield, ed un’economia centrata sullo sviluppo di un’industria manifatturiera faciliterà anche lo sviluppo delle esportazioni.

Tornando alla Turchia è innegabile che gli screzi all’interno dell’Alleanza Atlantica e la crisi Mediorientale la stiano spingendo ad adottare una politica di espansione in Africa. Questo si sta verificando non solo in Nord Africa (Libia) ma soprattutto nel Sahel dove recentemente pare sia stato firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger, ed è presente ed attiva un’Ambasciata in Ciad.

Solo nel Sudan la Turchia è più timida, data la soverchiante presenza di attori sunniti ben più importanti, quali l’Arabia Saudita, gli Emirati e l’Egitto.

In definitiva questa politica ambivalente della Turchia, con sottostanti nostalgie imperiali mai sopite e sostenute dalla maggioranza conservatrice anatolica che continua a votare per il Presidente Erdogan, potrà proseguire solo se il presidente rimarrà al suo posto. Ma dubito che l’interesse attivo della Turchia nei confronti dell’Africa possa anche in futuro venire meno.

Marcello Ricoveri*
© RIPRODUZIONE RISERVATA

*Marcello Ricoveri ha rappresentato l’Italia come ambasciatore in Uganda (accreditato anche in Ruanda, anche durante il genocidio, e Burundi), Etiopia, Nigeria (con competenze sul Benin) e prima ancora come primo consigliere della nostra legazione a Pretoria con competenze anche sulla Namibia. Vive a Windhoek.  A Roma, per 7 anni circa, si è occupato di Cooperazione allo sviluppo, di Unione Africana, di ECOWAS e di G8 per l’Africa. Grazie alla sua esperienza conosce molto bene l’intero continente e continua ad essere un attento e un acuto osservatore delle dinamiche socio-politiche del sud del mondo.

QUI ALCUNI DEGLI ARTICOLI SCRITTI PER AFRICA EXPRESS DALL’AMBASCIATORE RICOVERI

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Algeria-Mali: rapporti arroventati dopo gli interventi militari contro i “terroristi” tuareg

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 settembre 2024

Bamako non ha certamente applaudito per la rielezione del presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune; le relazioni tra i due Paaesi sono sempre più tese. Finora Assimi Goïta, leader delle giunta militare di transizione in Mali, non ha inviato le congratulazioni al suo omologo, che ha vinto la tornata elettorale del 7 settembre scorso con il 94,5 per cento delle preferenze.

Il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, a destra, e il capo della giunta militare del Mali, Assimi Goïta

Già a gennaio i rapporti tra l’Algeria e il Mali hanno iniziato a inasprirsi, quando il governo di Goïta ha dichiarato nullo l’accordo di pace e riconciliazione, siglato sotto l’egida dell’Algeria nel 2015, tra le autorità maliane dell’epoca e i tuareg indipendentisti dell’Azawad. Allora Bamako aveva accusato il governo di Tebboune di ingerenza e ostilità, criticandolo aspramente per ospitare i ribelli

Algeri aveva risposto alle accuse in modo pacato, proclamando la sua buona fede e solidarietà con il Mali, ma ovviamente non è servito per ricucire i rapporti tra i due Paesi, tantomeno a convincere Bamako ad abbandonare azioni militari contro gli indipendentisti del nord. Esperti affermano che “Algeri rimane fedele al principio di un accordo di pace e di una soluzione negoziata”, e ciò non corrisponde alla linea adottata da Bamako.

A fine agosto, dopo la battaglia di Tinzaouatène, zona nel Mali settentrionale al confine con l’Algeria, i toni tra Bamako e Algeri sono peggiorati ulteriormente.

A Tinzaouatène, durante l’operazione dei militari maliani (FAMa) e i mercenari Wagner (ora African Corps) contro i tuareg, considerati ormai terroristi da Bamako, sono morti sia soldati dell’esercito regolare, sia paramilitari russi. La battaglia è stata vinta dai ribelli anche grazie a informazioni ricevute dai servizi ucraini.

L’Algeria ha denunciato al Consiglio di sicurezza dell’ONU che, mentre erano ancora in atto i combattimenti, sarebbero morti almeno 20 civili durante un attacco di droni perpetrato da FAMa nella zona frontaliera. Denuncia ovviamente non gradita dai maliani, che categoricamente hanno negato di aver ucciso vittime civili.

Mali: disfatta dei mercenari Wagner (oggi African Corps) durante la battaglia di Tinzaouatène

Attualmente l’Algeria è impegnata in un complesso braccio di ferro su più fronti: oltre al Mali ha come obiettivo anche la Libia, dove i soldati di ventura russi sono presenti da anni.

Come sempre, è la popolazione civile che paga il prezzo più alto nei conflitti. Dall’estate scorsa, circa 50.000  maliani del nord in fuga dai nuovi combattimenti tra l’esercito maliano, i suoi ausiliari Wagner e i tuareg, si sono rifugiati al confine con Algeria, altri sono entrati nel Paese confinante. Gli sfollati sono attualmente senza alcuna assistenza, in quanto l’UNHCR non è stato autorizzato ad assisterli. Il Mali nega l’accesso agli operatori umanitari dell’organizzazione nelle aree in cui l’esercito sta conducendo operazioni militari e l’Algeria, pur non avendo chiuso le porte, non vuole registrare le domande dei richiedenti perché potrebbero portare allo status di rifugiato.

Le autorità maliane hanno chiesto ai civili di tornare nelle proprie case, ma secondo RFI, che ha contattato alcuni sfollati in Mali e rifugiati in Algeria, le persone temono ancora per la propria sicurezza.

Durante la recente battaglia al confine con l’Algeria, anche JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), affiliato a Al-Qaeda, ha fatto la sua parte. Infatti ha affermato di aver teso un’imboscata a un convoglio dell’esercito maliano e dei suoi alleati Wagner a sud di Tinzaouatène. Il gruppo terrorista ha anche ammesso la propria collaborazione con la Francia.

Pochi giorni fa il giornale online Contre-Poison ha intervistato Mohamed Elmaouloud Ramadane, portavoce di Cadre Stratégique Permanent pour la Défense du Peuple de l’Azawad (CSP-DPA), guidata da Bilal Ag Acherif, una delle figure chiave del movimento dei ribelli.

Mohamed Elmaouloud Ramadane, portavoce di CSP-DPA

Ramadane ha confermato che recentemente CSP-DPA ha preso contatti con diversi Stati, tra questi anche l’Ucraina. “Siamo in contatto con Kiev dall’inizio dell’anno. Le autorità ucraine ci hanno ascoltato perché abbiamo un denominatore comune: i mercenari russi di Wagner, che stanno combattendo anche nel loro Paese. E noi di Azawad stiamo ugualmente affrontando i paramilitari, causa di disgrazie e distruzione in molti Paesi, tra cui Libia, Siria, Repubblica Centrafricana, Sudan e naturalmente Ucraina”. Il portavoce ha poi concluso: “La cooperazione tra il CSP-DPA e gli ucraini è nella sua prima fase. È troppo presto per svelare come l’Ucraina ci abbia aiutato”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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“Kiev sostiene terrorismo nel Sahel”: Mali,Burkina Faso e Niger chiedono intervento del Consiglio di sicurezza

 

Al diavolo ideologie e democrazia: nel Sahel per combattere i russi, i francesi si alleano ad Al Qaeda

 

Kenya e Uganda sotto shock per il femminicidio della runner Rebecca Chepetegei

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
13 settembre 2024

“Prima le ha gettato la benzina in faccia, sugli occhi, poi sul resto del corpo. E intanto con un machete minacciava di fare a pezzi chiunque tentasse di avvicinarsi e soccorrerla”. Orribili dettagli emergono sulla morte di Rebecca Chepetegei, 33 anni, la maratoneta ugandese bruciata viva in casa, il 1° settembre, dal convivente Dickson Ndiema Marangach a Kinyoro, nella contea di Trans Nzoia in Kenya.

Rebecca Chepetegei, runner ugandese uccisa in Kenya dal fidanzato

A rivelarli ai media locali è la sorella più giovane, Everlyn Chelangat, alla vigilia dei funerali di Rebecca, previsti per il 14 settembre a Kapkoros, (distretto di Bukwo, Uganda), paese natale della sfortunata atleta che si trova al confine con il Kenya, a circa 380 chilometri a nord-est della capitale ugandese Kampala.

Ricoverata con l’80 per cento di ustioni al Moi Teaching and Referral Hospital (MTRH) di Eldoret, la giovane è sopravvissuta cinque giorni: è spirata giovedì 5 settembre, all’alba.

A pochi metri da lei era ricoverato il femminicida, che le è sopravvissuto 4 giorni. Anche lui, infatti, è deceduto, lunedì 9 settembre. Nel tentativo di uccidere la sua donna, si era inavvertitamente cosparso di carburante, aveva preso fuoco e aveva riportato ustioni a 40 per cento su tutto il corpo. “In terapia intensiva ha sviluppato insufficienza respiratoria a causa delle gravi ustioni alle vie aeree e della sepsi che lo hanno portato alla morte lunedì alle 18:30 nonostante le misure salvavita”, ha affermato il dottor Philip Kirwa, amministratore delegato del Moi Teaching and Referral Hospital.

Morto anche il femminicida, Dickson Ndiema Marangach

L’ennesimo caso di femminicidio in Kenya era avvenuto in seguito a una discussione sulla proprietà del terreno su cui si trovava la casa di Cheptegei. I genitori della maratoneta, Joseph e Agnes, avevano acquistato un terreno a Trans Nzoia affinché la figlia potesse essere più vicina ai numerosi centri di allenamento sportivi della contea. Famosa per essere la culla dei campioni del fondo e del mezzofondo.

La trentatreenne aveva gareggiato anche in Italia il 24 aprile 2022, vincendo la maratona di Padova, mentre nel 2023, il 26 novembre, era giunta seconda in quella di Firenze. Ancora nel 2022, con il tempo di 2:22:47, aveva stabilito il record dell’Uganda sui 42,195 km. Aveva rappresentato Kampala in numerose altre competizioni internazionali, tra cui i Campionati mondiali di corsa campestre IAAF e i Campionati mondiali di atletica leggera. L’ultima sua esibizione era stata alle Olimpiadi di Parigi: era giunta 44° nella maratona, gara conclusiva dei Giochi, l’11 agosto scorso.

La sua morte, descritta dalle Nazioni Unite come un “omicidio violento”, ha scatenato una condanna e un cordoglio diffusi e (sembra) sentiti.

Di certo uno dei gridi più sinceri e allarmanti è quello di Viola Cheptoo Lagat che ha creato una fondazione in memoria di Agnes Tirop, assassinata in Kenya nel 2021.

Da allora Viola si è schierata contro la violenza domestica. Ha affermato che alla base degli attacchi alle donne potrebbero esserci i premi in denaro.

“I fidanzati vogliono i loro soldi vinti nelle gare e poi vanno a sprecarli –  ha detto –. Un altro problema è la società. Abbiamo permesso che accadesse, tanto che non lo condanniamo nemmeno più: consideriamo normale vedere una donna picchiata, qualcuno che ruba la proprietà di qualcun altro… e noi non urliamo finché qualcuno non si è perso”.

Il presidente della World Athletics, Sebastian Coe ha dichiarato: “Il nostro sport ha perso un atleta di talento nelle circostanze più tragiche e impensabili. Rebecca era una runner incredibilmente versatile che aveva ancora molto da dare su strada, in montagna e sui sentieri di cross country”. Coe ha affermato di essere in trattative con i membri del Consiglio direttivo della World Athletics “per valutare come potenziare le tutele per includere gli abusi al di fuori dello sport”.

“Profondamente scossa dalla notizia della tragica morte di nostra figlia Rebecca Cheptegei, dovuta alla violenza domestica” si è dichiarata anche la first lady e ministro dell’Istruzione ugandese, Janet Kainembabzi Museveni.

Il ministro dello Sport keniano, Kipchumba Murkomen, ha affermato che si tratta di un “duro promemoria” del fatto che è necessario fare di più per combattere la violenza di genere.  “Solo nel mese di gennaio, almeno 14 donne in Kenya sono state uccise dai loro partner”, ha ricordato su RFI il giornalista Kelvin Ogome.

Gli organizzatori delle Olimpiadi di Parigi hanno espresso profonda indignazione e tristezza per la morte della runner. La sindaca della capitale francese, Anne Hidalgo, ha assicurato: “Le dedicheremo un impianto sportivo affinché la sua memoria e la sua storia rimangano con noi e contribuiscano a portare avanti il messaggio di uguaglianza, un messaggio che è anche quello dei Giochi olimpici e paralimpici. Parigi non la dimenticherà”.

Speriamo che il cordoglio e le promesse non durino lo spazio dell’emozione momentanea. Per non tradire Rebecca e tutte le donne vittime di violenza. E non mettersi a urlare fino a che un’altra donna non si sia persa.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’atletica del Kenya sotto shock per un nuovo femminicidio: strangolata la maratoneta Damaris

SPORT: altre notizie le trovate QUI

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Haaretz svela perché Israele ha paura di permettere ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza. Cosa nasconde?

EDITRIALE
Haaretz

Tel Aviv, 11 settembre 2024

Il testo originale in inglese in fondo, dopo la tradizione in italiano

A undici mesi dall’inizio della guerra, si può affermare che i pretesti utilizzati da Israele per giustificare l’esclusione dei media da Gaza non sono più validi e che ora deve consentire l’ingresso di giornalisti stranieri affinché possano coprire la guerra in modo adeguato.

A causa del controllo israeliano sui valichi di frontiera, che è diventato ancora più stretto dopo la conquista di Rafah, nessun giornalista straniero può mettere piede nella Striscia senza l’approvazione dello Stato. Il divieto generalizzato di ingresso ai giornalisti stranieri senza la scorta dell’Unità portavoce dell’IDF danneggia enormemente la capacità di fare informazione in modo indipendente e il diritto del pubblico in Israele e nel mondo di sapere cosa sta accadendo a Gaza.

Il ruolo di un giornalista è quello di essere sul posto, di parlare direttamente con le persone e non solo attraverso i portavoce per conto di interessi acquisiti, di sentire l’atmosfera e di riferire sugli eventi. Non c’è paragone tra il reportage non mediato sul campo e quello realizzato da terzi, le interviste telefoniche e le analisi condotte con l’ausilio di immagini fisse o video.

Un giornalista si precipita verso la scena di un’esplosione a seguito di un attacco israeliano che ha preso di mira una scuola nel quartiere di Zeitoun, alla periferia di Gaza City, la scorsa settimana.Credit: AFP

Quando Israele impedisce ai giornalisti di recarsi a Gaza, non solo nega loro di raccontare gli orrori della guerra, ma anche di esaminare in tempo reale le affermazioni di Hamas – un chiaro interesse israeliano. Quando Israele proibisce ai giornalisti stranieri di coprire ciò che sta accadendo a Gaza, dobbiamo chiederci: cosa ha da nascondere lo Stato? In che modo trae vantaggio dal fatto che i giornalisti non entrino a Gaza?

Il risultato di impedire ai giornalisti stranieri di fare il loro mestiere è che il duro lavoro di cronaca ricade sulle spalle dei giornalisti palestinesi, che a loro volta soffrono per la guerra e le sue dure condizioni.

Secondo i dati del Committee to Protect Journalists, almeno 111 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi durante la guerra (tre di loro, secondo l’esercito israeliano, militavano in Hamas o nella Jihad islamica palestinese) – il che rende ancora più urgente la necessità che altri giornalisti entrino a Gaza.

In ogni caso, proprio in tempo di guerra è molto importante permettere l’ingresso di giornalisti che non siano parte in causa nel conflitto: persone che possano coprire l’evento senza temere pressioni da parte della propria società o del proprio governo. Oggi, in tempo di guerra, quando ogni immagine rischia l’accusa di essere stata generata dall’intelligenza artificiale, il ruolo del giornalista sul campo è più importante che mai.

Non è vero che le forze armate sostengono che consentire l’ingresso di giornalisti incorporati nelle forze israeliane sia un’alternativa adeguata all’accesso indipendente. Nulla può sostituire l’accesso indipendente, in cui i giornalisti possono parlare liberamente con i residenti locali e recarsi nelle aree di interesse per il pubblico e i media.

Non possiamo accettare una situazione in cui i militari dettano la natura della copertura giornalistica. Israele deve permettere ai giornalisti di entrare nella Striscia di Gaza, in modo che tutti possano comprendere meglio ciò che sta accadendo e che la nebbia della guerra possa essere diradata, anche se solo leggermente.

Haaretz

L’articolo sopra riportato è l’editoriale principale del quotidiano israeliano Haaretz, pubblicato in ebraico e in inglese in Israele.

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Original text in English

Editorial/Why Is Israel Afraid to Allow Foreign Journalists in Gaza? What’s It Hiding?ù

By blocking journalists from Gaza, Israel not only prevents coverage of the war’s horrors but also hinders real-time scrutiny of Hamas’ claims – a key Israeli interest

Eleven months into the war, it’s possible to say that the circumstances Israel used to justify barring the media from Gaza are no longer valid, and that it must allow the entry of foreign journalists so they can cover the war properly.

As a result of Israel’s control of the border crossings, which has become even tighter since the capture of Rafah, no foreign journalist can set foot in the Strip without the state’s approval. The blanket ban on entry to foreign journalists without an IDF Spokesperson’s Unit escort greatly damages the ability to report independently as well as the right of the public in Israel and around the world to know what is happening in Gaza.

The role of a journalist is to be on the ground, to speak directly to people and not just through spokespeople on behalf of vested interests, to feel the atmosphere and report on events. There is no comparison between unmediated reporting in the field and reporting via a third party, telephone interviews and analysis conducted with the aid of still or video images.

Un giornalista si precipita verso la scena di un’esplosione a seguito di un attacco israeliano che ha preso di mira una scuola nel quartiere di Zeitoun, alla periferia di Gaza City, la scorsa settimana.Credit: AFP

When Israel prevents journalists from going into Gaza it prevents them not only from reporting on the horrors of the warfare, but also from examining the claims of Hamas in real time – something that is a clear Israeli interest. When Israel prevents foreign journalists from covering what is happening in Gaza we must ask: What does the state have to hide? How does it benefit from journalists not entering Gaza?

The result of keeping foreign journalists from doing their jobs is that the hard work of reporting rests on the shoulders of Palestinian journalists, who are themselves suffering from the war and its harsh conditions.

According to data from the Committee to Protect Journalists, at least 111 Palestinian journalists and media workers have been killed during the war (three of them, according to the Israeli military, activists in Hamas or in Palestinian Islamic Jihad) – which makes the need for other journalists to enter Gaza even more urgent.

In any case, precisely during wartime there is great importance to permitting the entry of journalists who are not a party to the conflict: people who can cover the event without fear of pressure from their own society or government. In wartime today, when any image risks the accusation of having been generated using artificial intelligence, the role of the journalist in the field is more important than ever.

There is no truth to the military’s claim that allowing in journalists who are embedded with Israeli forces is an appropriate alternative to independent access. Nothing can replace independent entry, in which journalists are allowed to speak freely with local residents and travel to areas that are of interest to the public and the media. We cannot accept the situation in which the military dictates the nature of journalistic coverage. Israel must allow journalists into the Gaza Strip, so that everyone can better understand what is happening there and so that the fog of war can be cleared, if only slightly.

Haaretz

The above article is Haaretz’s lead editorial, as published in the Hebrew and English newspapers in Israel.

La famiglia di Elisa Claps vicina agli sfollati del Congo-K

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Kinshasa, 11 settembre 2024

Il conflitto che si consuma da decenni nell’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle tante guerre dimenticate dalla comunità internazionale. Finora non si intravede una fine alle atrocità, violenze e sofferenze della popolazione, costretta a fuggire dalla proprie case a causa delle continue aggressioni dei gruppi armati e i combattimenti tra le forze armate congolesi (FARDC) e i loro alleati, per tentare di sconfiggere i ribelli.

Campo profughi Goma e sullo sfondo ambulatorio VIS

Un barlume di speranza, una piccola, ma potente fiaccola arriva ora da Potenza direttamente a Goma, capoluogo del Nord-Kivu, nell’est del Congo-K, provincia pesantemente colpita dalla incessanti aggressioni, in particolare dai miliziani di M23. Il gruppo armato in questione prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009, appoggiato dal Ruanda e in forma minore rispetto a Kigali, anche dall’Uganda.

Domani, 12 settembre 2024 a Potenza e a Goma, si terranno due manifestazioni in contemporanea legate al progetto Il Cuore di Elisa nel Cuore dell’Africa. E chi non si ricorda di Elisa Claps, uccisa appunto a Potenza a soli 16 anni nel 1993? Già da giovanissima la ragazza aveva espresso il desiderio di studiare medicina per poi prestare servizio in Africa.

E domani ci sarà l’inaugurazione di un ambulatorio medico a Goma, dedicato a Elisa. Con il Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS) – ONG di ispirazione salesiana – la famiglia Claps, in ricordo di Elisa, porta avanti un programma nutrizionale dedicato ai bimbi dai 0 ai 5 anni, in particolare per coloro che vivono a ridosso del dispensario Don Bosco Ngangi, Goma, nel campo per sfollati, che ospita quasi 30mila persone. Gran parte dei bambini tra o e 5 anni soffrono di malnutrizione.

Le continue aggressioni dei vari gruppi armati sta devastando le regioni orientali della ex colonia belga. Alla fine del 2023 gli sfollati interni erano 6,9 milioni in tutto il territorio nazionale. Alla fine di maggio, nel solo Nord-Kivu, altri 1,77 milioni sono scappati dalle proprie case per fuggire alla furia dei miliziani M23.

Il 2 settembre, durante una breve cerimonia, organizzata dalle autorità congolesi allo Stade de l’Unité, situato al centro di Goma, sono stati celebrati i funerali di oltre 200 sfollati, morti negli ultimi mesi per fame e/o malattie nei campi attorno a Goma. Centinaia di persone che sono state costrette a lasciare le proprie case, tra loro anche molti parenti dei deceduti, hanno dato l’ultimo saluto a chi non ce l’ha fatta.

Goma: cerimonia per 200 vittime nei campi per sfollati

“Siamo scappati dalla guerra, ma l’abbiamo ritrovata nei nostri luoghi di rifugio. Siamo fuggiti dalla morte, ma ci ha inseguito nei campi. Chiediamo la fine delle ostilità per poter tornare a casa”, ha detto in lacrime una giovane mamma, il cui figlio è rimasto ben 5 mese nella camera mortuaria. Le salme sono state sepolte nel cimitero di Genocost, a circa dieci chilometri da Goma, vicino alla linea del fronte tra l’esercito e i ribelli dell’M23.

Ma le disgrazie non vengono mai sole. Ora il Congo-K è stato colpito pesantemente anche dal vaiolo delle scimmie (già Monkeypox, ora Mpox) e dall’inizio dell’anno sono morte almeno 635 pazienti.

Ogni giorno vengono registrati nuovi casi, ha raccontato un medico di un ospedale del Sud-Kivu, epicentro dell’epidemia, ai reporter della BBC. “Non ci sono letti a sufficienza, molti pazienti sono costretti a dormire per terra. Manca il materiale protettivo per medici e paramedici. I medicinali a diposizione sono pochi”, ha aggiunto il dottore.

Congo-K: le pustole provocare dal vaiolo delle scimmie MPOX

Settimana scorsa l’Unione Europea ha spedito 200mila dosi di vaccino a Kinshasa, ma ora ci vorranno settimane prima che arrivino nel Sud-Kivu, per mancanza di infrastrutture. Molte strade sono in condizioni pessime e trasportarli in elicottero graverebbe sul già povero bilancio del Paese.

La direttrice generale dell’ONG Medici senza Frontiere (MSF), Tejshri Shah, pediatra specializzata in malattie infettive, è stata recentemente nel Nord-Kivu e durante la sua visita ha ricordato che sarà impossibile contenere il virus nei siti degli sfollati interni se non migliorano le loro terribili condizioni di vita.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X@cotoelgyes
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Di fronte alla repressione nelle strade, le proteste africane si diffondono online

Abbiamo chiesto a Keith Richburg, che recentemente
è tornato a Nairobi, il permesso di pubblicare
questo articolo già uscito sul Washington Post.
E lui gentilmente ce l’ha concesso.

 

Keith B. RichburgWashington Post
Keith B. Richburg*
6 settembre 2024

Morara Kebaso sr è un keniota che si descrive nel suo profilo online come “Un avvocato pericolosamente intelligente. Vescovo della pace spietata e cancelliere capo delle promesse non mantenute”. È un attivista contro la corruzione e ha attirato più di 137.000 follower su X viaggiando per il Paese e postando video di progetti “elefanti bianchi” per mostrare come i fondi pubblici vengono sprecati o rubati.

Kasmuel McOure in una manifestazione a Nairobi

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“È un grande scherzo!” esclama Kebaso in un video, mentre si trova lungo una pista per lo più sterrata che può percorrere solo a piedi e spiega come sono stati pagati quasi 2 milioni di dollari all’appaltatore per costruire una strada importante. In un altro, si trova sul sito di un costoso progetto di diga annunciato in pompa magna sei anni fa, che oggi non è altro che cespugli di tè. In una scuola elementare rurale, i funzionari hanno speso più di 7.000 dollari per una sola porta in un campo sportivo vuoto.

“Ditemi se i leader che abbiamo in questo Paese sono davvero interessati al buon governo – dice davanti alla telecamera -. Posso sicuramente dirvi che non sono interessati”.

I post di Kebaso lo hanno reso una sorta di star dei social media. Ma non è solo. Una nuova generazione di attivisti e influencer online africani sta ora guidando la narrazione politica del continente. Questi guerrieri digitali stanno denunciando la corruzione, chiedendo conto ai leader di governo, fornendo notizie in diretta durante gli eventi più importanti e, per la prima volta, dando ai giovani africani una nuova voce potente per gridare la verità al potere.

Alla fine di giugno, i giovani africani della generazione Z, stufi della corruzione dilagante, della cattiva gestione economica e della disoccupazione diffusa, sono scesi in piazza in Kenya per protestare contro il previsto aumento delle tasse, ora annullato. Manifestazioni analoghe sono scoppiate in Nigeria, Uganda, Tanzania e altrove, spesso provocando risposte brutali da parte delle forze di sicurezza. Di fronte alla repressione, i giovani attivisti si sono spostati sempre più online.

La domanda è se le proteste online possano tradursi in una riforma reale della politica africana.

Le proteste di strada sono state definite “senza leader”, e in un certo senso è vero: i politici tradizionali e i leader tribali non sono in prima linea. Ma le proteste stanno trovando ossigeno online, dove i “commando da tastiera” possono usare brevi video, musica, arte e satira per mantenere vivo il movimento.

Uno di questi commando è Moses Kiboneka, attore, comico e popolare YouTuber ugandese con più di 73.000 abbonati, che ha creato un personaggio comico chiamato “Uncle Mo”, un meccanico d’auto di tutti i giorni. In un video, intitolato “Fighting Corruption in Africa – Uganda Chapter”, lo Zio Mo è seduto nella sua autofficina e spiega la corruzione con buon senso. “Combattere la corruzione in Africa – dice – è come denunciare finalmente tua madre perché è una strega. Poiché molti ugandesi sono cresciuti con la corruzione, è difficile denunciarla”.

Definisce le recenti proteste in Uganda “un enorme passo nella giusta direzione”, aggiungendo: “Non vediamo l’ora di tagliare i ponti con la mamma”.

La giornalista e commentatrice nigeriana Adeola Fayehun offre una visione satirica delle notizie nel suo programma su YouTube “Keeping It Real With Adeola”, che conta più di 700.000 iscritti. In un post, visualizzato 465.000 volte e che ha generato migliaia di like, aggiorna in modo esuberante sulle proteste in Kenya, paragonando le loro rimostranze a “ciò che stiamo affrontando in Nigeria in questo momento”. L’attivista affronta anche questioni come il crescente debito dei Paesi africani nei confronti della Cina e i manifestanti antigovernativi nel nord della Nigeria che sventolano bandiere russe.

Keith è stato prima corrispondente da Nairobi e da Seul per ill Washington Post di cui poi è diventato vicedirettore

Un’altra popolare attivista nigeriana, Aisha Yesufu, è conosciuta soprattutto come una delle co-fondatrici del movimento #BringBackOurGirls, che ha messo in luce il rapimento di oltre 200 studentesse dalla città di Chibok nel 2014. Con 2 milioni di follower su X, Yesufu ha evidenziato casi di persone scomparse e ha anche messo alla gogna il presidente Bola Tinubu, che sta affrontando un movimento anticorruzione chiamato #EndBadGovernance. “Se impedite le proteste pacifiche – ha scritto domenica – date spazio a rivolte violente”.

Uno dei commentatori sociali online più popolari del Sudafrica è l’influencer di bellezza Kay Yarms, che ha usato la sua piattaforma Instagram per ingannare i suoi giovani follower affinché si registrassero per votare alle elezioni dello scorso maggio, facendo loro credere che stessero cliccando su un link al suo nuovo blog.

In Kenya, lo spazio online si è riempito di post che chiedono le dimissioni del presidente William Ruto, alcuni dei quali sotto l’hashtag #RutoMustGo. Un attivista keniota, Kasmuel McOure, musicista e artista, ha cercato di colmare il divario tra il mondo virtuale e quello reale presentandosi alle proteste vestito in modo impeccabile con i suoi caratteristici abiti a tre pezzi e cravatte. Ha circa 50.000 follower su Instagram, 155.000 su X e 227.000 su TikTok.

Se tutto questo avrà un impatto reale è una questione aperta. A metà degli anni 2000, in Cina, ho assistito e scritto di un’ondata simile di attivismo digitale. È stato esaltante, fino a quando il Partito Comunista Cinese non ha imparato attraverso una maggiore censura e un più stretto monitoraggio di Internet, regole che richiedono la registrazione del nome reale per gli utenti online e severe leggi sulle fake news che hanno visto imprigionati molti attivisti e blogger. I leader africani potrebbero presto imparare dall’esempio cinese come controllare lo spazio online.

Anche la Primavera araba è motivo di cautela. I social media hanno giocato un ruolo così importante nella mobilitazione delle rivolte del 2010-2011 in tutto il Medio Oriente, che a volte sono state chiamati “la rivoluzione di Facebook”.

Alcuni osservatori si sono chiesti, forse prematuramente, se le attuali proteste africane possano essere una “primavera africana”. Ma ricordate: La Primavera araba è riuscita a portare la democrazia in Tunisia, ma ha fallito clamorosamente nel portare una migliore governance nella regione. Gli attivisti online africani dovrebbero prenderne atto. E muoversi con cautela.

Keith B. Richburg*

*Keith B. Richburg è un giornalista americano ed ex corrispondente estero che ha lavorato per oltre 30 anni per il Washington Post. Attualmente è professore di giornalismo presso l’Università di Princeton, mentre dal 2016 al 2023 è stato direttore del Journalism and Media Studies Centre dell’Università di Hong Kong. Dal febbraio 2021 è stato presidente del Club dei corrispondenti esteri di Hong Kong fino al maggio 2023.
Keith Richburg è originario di Detroit, Michigan. Ha frequentato la Liggett School dell’Università del Michigan (BA, 1980) e la London School of Economics.
È stato corrispondente estero del Washington Post nel Sud-Est asiatico dal 1986 al 1990, in Africa a Naironi dal 1991 al 1994, a Hong Kong dal 1995 al 2000 e a Parigi dal 2000 alla metà del 2005. È stato redattore estero del Post e capo dell’ufficio di New York del Post dal 2007 al 2010. Dal 2009 al 2012 è stato corrispondente dalla Cina per il Post con sede a Pechino e Shanghai. Ha anche coperto le guerre in Iraq e Afghanistan, attraversando a cavallo l’Hindu Kush, un viaggio che ha raccontato nella sezione Style del Post. È autore di Out of America, che racconta le sue esperienze di corrispondente in Africa, durante le quali ha assistito al genocidio del Ruanda, alla guerra civile in Somalia e a un’epidemia di colera nella Repubblica Democratica del Congo. Il libro di Richburg ha suscitato polemiche nella comunità afroamericana a causa della critica percepita nei confronti degli africani.

Photocredit: Reuters

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Testo originale in inglese:

Opinion: Facing repression on the streets, Africa’s protests spread online

Morara Kebaso Snr is a Kenyan who describes himself in his online profile as “A Dangerously Intelligent Lawyer. Bishop of Merciless Peace & Chief Registrar of Broken Promises.” He is a campaigner against corruption and has attracted more than 137,000 followers on X by traveling around the country and posting videos of “white elephant” projects to show how public funds are being wasted or pilfered.

Leading anti-government protester Kasmuel McOure attends a demonstration in Nairobi on Aug. 8.

“It’s a big joke!” Kebaso exclaims in one video, as he stands along a mostly dirt track that he can straddle with his feet and explains how nearly $2 million was paid to the contractor to build a major road. In another, he’s at the site of a costly dam project announced with fanfare six years ago that today is nothing but tea bushes. At one rural primary school, officials spent more than $7,000 for a single goal post on an empty sports field.

“Tell me whether the leaders we have in this country are actually interested in good governance,” he says to the camera. “I can most assuredly tell you that they are not interested.”

Kebaso’s posts have made him something of a social media star. But he’s not alone. A new generation of African online activists and influencers is now driving the continent’s political narrative. These digital warriors are exposing corruption, holding government leaders to account, providing live news feeds during key events and, for the first time, giving young Africans a powerful new voice to speak truth to power.

In late June, African Gen Zers fed up with rampant corruption, economic mismanagement and widespread unemployment took to the streets — first in Kenya to protest a planned, now disbanded, tax hike. Copycat demonstrations broke out in NigeriaUgandaTanzania and elsewhere, often prompting brutal responses from security forces. In the face of repression, the young activists have increasingly moved online.

The question is whether online protests can translate into real-world reform for Africa’s politics.

The street protests have been called “leaderless,” and in one sense this is true: Traditional politicians and tribal leaders are not at the forefront. But the protests are finding oxygen online, where keyboard commandos can use short videos, music, art and satire to keep the movement alive.

One of those commandos is Moses Kiboneka, an actor, comedian and popular Ugandan YouTuber with more than 73,000 subscribers, who created a comic character named “Uncle Mo,” an everyman car mechanic. In one video, called “Fighting Corruption in Africa — Uganda Chapter,” Uncle Mo sits in his auto repair garage giving his common-sense explanation of corruption. “Fighting corruption in Africa,” he says, “is like finally calling out your mother for being a witch.” Because many Ugandans were raised on corruption, it has been difficult to denounce.

He calls recent protests in Uganda “a huge step in the right direction,” adding, “We just can’t wait to cut ties with mom.”

Nigerian journalist and commentator Adeola Fayehun offers a satirical take on the news on her YouTube show “Keeping It Real With Adeola,” which has more than 700,000 subscribers. In one post, viewed 465,000 times and generating thousands of likes, she boisterously updates the Kenya protests, comparing their grievances with “what we are facing in Nigeria right now.” She also takes on issues such as African countries’ mounting debt to China, and anti-government protesters in northern Nigeria who wave Russian flags.

Another popular Nigerian activist, Aisha Yesufu, is best known as one of the co-founders of the #BringBackOurGirls movement, which spotlighted the 2014 kidnapping of more than 200 schoolgirls from Chibok town. With 2 million X followers, Yesufu has highlighted cases of missing persons, and also pilloried President Bola Tinubu, who is facing an anticorruption movement called #EndBadGovernance. “If you prevent peaceful protests,” she posted on Sunday, “you give room for violent riots.”

One of the most popular of South Africa’s online social commentators is beauty influencer Kay Yarms, who used her Instagram platform to trick her young followers into registering to vote in last May’s elections — by making them think they were clicking on a link to her new vlog.

In Kenya, the online space has been filled with posts demanding the resignation of President William Ruto, some under the hashtag #RutoMustGo. One Kenyan activist, Kasmuel McOure, a musician and artist, has tried to bridge the gap between the virtual and real worlds by showing up at protests impeccably dressed in his trademark three-piece suits and neckties. He has about 50,000 followers on Instagram, 155,000 on X and 227,000 on TikTok.

Whether all this will have any real impact is an open question. In China in the mid-2000s, I saw and wrote about a similar wave of digital activism. It was exhilarating — until the Chinese Communist Party learned to crush it through heightened censorship, tighter internet monitoring, rules requiring real-name registration for online users and strict “fake news” laws that saw many activists and bloggers jailed. African leaders could soon learn from China’s example how to rein in the online space.

The Arab Spring also gives reason for caution. Social media played such a big role in mobilizing those 2010-2011 uprisings across the Middle East, they were sometimes called “the Facebook revolution.”

Some observers have asked, perhaps prematurely, whether Africa’s current protests might amount to an “African Spring.” But remember: While the Arab Spring did manage to bring democracy to Tunisia, it failed spectacularly to bring better governance to the region. Africa’s online activists should take note — and tread carefully.

Keith B. Richburg**

**Keith B. Richburg is an American journalist and former foreign correspondent who spent more than 30 years working for The Washington Post. Currently serving as the Ferris Professor of Journalism at Princeton University, he was the director of the Journalism and Media Studies Centre of the University of Hong Kong from 2016 to 2023. From February 2021, he has been President of the Hong Kong Foreign Correspondents’ Club until May 2023.
Keith Richburg is a native of Detroit, Michigan. He attended the University Liggett School, the University of Michigan (BA, 1980) and the London School of Economics (MSc. 1985)
He served as a foreign correspondent for The Washington Post in Southeast Asia from 1986 until 1990; in Africa (NAIROBI) from 1991 through 1994; in Hong Kong from 1995 through 2000; and in Paris from 2000 until mid-2005. He was Foreign Editor of The Post, and was chief of the New York bureau of The Post from 2007 until 2010. He was a China correspondent for The Post based in Beijing and Shanghai from 2009 to 2012. He also covered the wars in Iraq and Afghanistan, riding a horse partway across the Hindu Kush, a journey he chronicled in The Post’s Style section.
He is the author of Out of America, which detailed his experiences as a correspondent in Africa, during which he witnessed the Rwandan genocide, a civil war in Somalia, and a cholera epidemic in Democratic Republic of Congo. Richburg’s book provoked controversy in the African American community[3] due to its perceived criticism of Africans.

Governo italiano ossessionato dai migranti, fornisce alla Tunisia (zero in diritti umani) motovedette guardacoste

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
9 settembre 2024

Violazioni dei diritti umani, deportazioni di migranti nel deserto, repressioni di ogni forma di dissenso interno. ma il governo italiano decide di rafforzare la partnership diplomatica e militare con il regime tunisino.

Unità navali italiane alla Tunisia

Il 28 agosto scorso, nel corso di una cerimonia ufficiale nel porto di Marina de Gammarth, a pochi chilometri da Cartagine e Tunisi, l’ambasciatore d’Italia in Tunisia, Alessandro Prunas e il funzionario del settore immigrazione della Polizia di Stato presso l’ufficio diplomatico, Sebastiano Bartolotta, hanno consegnato alla Garde Nationale tre motovedette già in dotazione all’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza. 

“Le unità navali verranno utilizzate per il rafforzamento della capacità della Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino nelle attività di sorveglianza delle frontiere marittime”, riporta l’agenzia Nova. Nei prossimi mesi il Viminale trasferirà alle autorità del Paese nord africano altre tre motovedette “restaurate” nell’ambito del memorandum firmato a dicembre 2023 con la Tunisia per cui sono stati stanziati 4,8 milioni di euro.

Le unità sono tutte della classe Guardacoste Litoraneo G.L. 1400 (già MV800 con i Carabinieri) e sono contraddiste dalle sigle identificative G.L.1400, G.L.1401, G.L.1402, G.L.1403, G.L.1404 e G.L.1405. Costruite negli anni ‘90 dai Cantieri Navali del Golfo di Gaeta, hanno una lunghezza di 17 mt, una larghezza di 5,10 ed un dislocamento a pieno carico di 28 tonnellate. I motori marca Iveco Aifo consentono alle motovedette di raggiungere una velocità massima di 35 nodi.

Il trasferimento delle tre unità è stato enfatizzato con un tweet dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. “Esse contribuiranno a rafforzare le attività di salvataggio in mare e le azioni di contrasto ai trafficanti di esseri umani, nel quadro della cooperazione che il governo italiano ha avviato con la Tunisia sui temi migratori e sul controllo delle frontiere”, spiega il titolare del Viminale, volutamente ignaro dei crimini commessi dalle forze armate e di polizia tunisine nel corso delle attività di “contrasto” alla migrazione interna ed esterna.

Tunisia formalizza la propria zona SAR

Tre mesi fa la Tunisia ha formalizzato la propria zona SAR (Search and Rescue) nel Mediterraneo centrale: si tratta di un’area di mare estesissima che nella sua parte settentrionale sfiora la Sicilia occidentale fino al Sud della Sardegna, davanti alla regione del Sulcis. Le coordinate della nuova zona SAR hanno ricevuto l’approvazione da parte dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo) e, come ricorda ancora l’agenzia Nova, è stato creato il Centro nazionale per il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio marittimo (TNMRCC), sotto il Servizio nazionale di sorveglianza costiera del ministero della Difesa, con il compito di “rafforzare l’efficacia dei servizi di ricerca e salvataggio in mare e di coordinare le operazioni”. Al TNMRCC sono state assegnate diverse unità navali e aeree delle forze armate e del ministero dell’Interno.

Il trasferimento delle sei imbarcazioni anti-migranti alla Garde Nationale è stato predisposto dal governo Meloni nel dicembre del 2023. Contro il provvedimento alcune organizzazioni non governative (ASGI, ARCI, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet) hanno presentato un ricorso al Tar denunciando le “gravissime violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità tunisine, in particolare respingimenti in pieno deserto che hanno causato la morte di donne e bambini”. Il Tribunale amministrativo ha rigettato il ricorso, ma il 18 giugno 2024 il Consiglio di Stato ha sospeso in via cautelare l’invio delle prime tre motovedette ritenendo “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante (le ONG, nda)”. 

Con ordinanza del 4 luglio, il Consiglio di Stato ha però rigettato l’istanza con cui le organizzazioni della società civile chiedevano la sospensione del trasferimento delle motovedette, rinviando al 21 novembre 2024 la decisione definitiva sul merito. Accogliendo le motivazioni dell’Avvocatura dello Stato, l’organo di giustizia amministrativa ha ritenuto che il trasferimento delle unità e le relative iniziative di formazione del personale della Garde Nationale tunisina possano contribuire “all’innalzamento dei livelli di tutela e salvaguardia dei migranti in mare, tanto più necessari dopo l’istituzione della zona SAR della Tunisia, tenuto conto dell’alto livello di professionalità di cui dispone la Guardia di Finanza nello svolgimento delle attività in questione”. 

La decisione di rimettere in efficienza le sei imbarcazioni già in uso alla Guardia di Finanza per cederle poi alla Tunisia è frutto di uno specifico accordo di collaborazione tra il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e il Comando Generale della Guardia di Finanza, firmato l’11 dicembre 2023, per sostenere “iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione Europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”.

Nello specifico l’accordo prevede lo stanziamento di 4.800.000 euro per lo “svolgimento di attività di assistenza tecnica e capacity building a favore delle competenti autorità della Tunisia, segnatamente della Garde Nationale del Ministero dell’Interno tunisino, consistenti nella fornitura di mezzi e materiali, nell’erogazione di corsi di formazione e nella prestazione di servizi di supporto tecnico-logistico (ivi incluso l’approvvigionamento di carbo-lubrificanti per l’esecuzione di prove tecniche, verifiche e addestramento degli equipaggi in mare, nonché per il trasferimento delle unità navali sino alla destinazione in Tunisia), consulenza, assistenza e tutoraggio”. Oltre alla rimessa in efficienza delle unità navali della classe Guardacoste Litoraneo G.L. 1400, l’accordo tecnico prevede anche la formazione specifica (in territorio tunisino e presso la Scuola nautica di Gaeta) del personale della Garde Nationale alla loro conduzione ed impiego operativo.

Sempre secondo il memorandum tra il Ministero dell’Interno e il Comando Generale della Guardia di Finanza, i lavori di ammodernamento e ripristino dell’efficienza delle motovedette sono assegnati al Reparto Tecnico di Supporto del Centro Navale della GdF con sede a Miseno (Napoli), che “laddove necessario, potrà avvalersi di soggetti privati per la fornitura e l’installazione di equipaggiamenti e componentistica, previa analisi degli interventi tecnici necessari da concordare eventualmente con le autorità tunisine per soddisfare le loro specifiche esigenze operative”. I militari delle fiamme gialle si impegnano infine a “supportare le autorità tunisine negli interventi di manutenzione ordinaria sulle suddette unità navali e sulle altre unità navali già in uso alla Garde Nationale”.

Per la cronaca, lo scorso 28 agosto il Centro Navale di Formia della Guardia di Finanza ha messo a gara il servizio di refitting delle altre tre unità navali destinate alla Tunisia. Il relativo avviso è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e specifica che il valore della commessa è stimato in 4 milioni di euro. Il termine per il ricevimento delle offerte è posto per l’1 ottobre prossimo.

Nell’ultima decade, le autorità italiane hanno consegnato ai militari tunisini pure numerosi pattugliatori veloci e motovedette, impiegati tutti nelle operazioni di controllo delle frontiere marittime e di blocco e/o respingimento delle imbarcazioni dei migranti. Tra il 2014 e il 2015 sono stati donati alla Garde Nationale sei unità navali specializzate P350TN, mentre alla Marina Militare sono stati riservati sei pattugliatori modello P270TN. 

Questi ultimi sono pattugliatori veloci lunghi 27 metri e larghi 7,20, con 90 tonnellate di dislocamento ed un sistema di propulsione che assicura una velocità massima di 35 nodi e un range di 500 miglia nautiche. I pattugliatori classe P350TN hanno invece un dislocamento di 140 tonnellate, la lunghezza di 35 metri e la larghezza di 7,20; il sistema di propulsione è garantito da due motori diesel con un range di 600 miglia e una velocità massima di 38 nodi. Sulle unità possono essere imbarcati fino a 14-16 membri di equipaggio.

I dodici pattugliatori sono stati realizzati dalla Cantiere Navale Vittoria, società cantieristica con sede ad Adria, in Veneto e sono divenuti operativi dopo il loro trasferimento nella sede della Marina tunisina a La Goulette. Secondo la rivista specializzata britannica del settore difesa, IHS Jane’s, l’operazione di acquisto e invio delle unità navali alla Tunisia è costata al governo italiano 16,5 milioni di euro.

Il 3 agosto 2016 ancora il Cantiere Navale Vittoria ha consegnato ai militari di Tunisi la nave scuola Zarzis A710, un’imbarcazione di supporto alle immersioni subacquee e alle operazioni di “sicurezza negli spazi aeromarittimi”, commissionata dal Ministero della Difesa tunisino nell’ambito degli accordi di cooperazione internazionale tra l’Italia e la Tunisia siglati nella primavera del 2015. Lunga 36 metri, la nave scuola può raggiungere una velocità massima di 17 nodi ed ospitare un equipaggio di 12 persone, più 18 sommozzatori; è dotata di una campana di immersione in grado di condurre i sub fino a 100 metri di profondità. L’unità viene impiegata principalmente per l’addestramento dei sommozzatori e delle unità d’élite presso il Centro di formazione subacquea di Zarzis.

Nel maggio 2011, l’Italia aveva fornito alla Garde Nationale quattro motovedette “Carabinieri” classe 700 (18 tonnellate di dislocamento), realizzate a Gaeta dai Cantieri Navali del Golfo. Tra il 2009 e il 2011 erano stati consegnati ai militari tunisini anche due imbarcazioni Classe 500, 13 sistemi radar di pattugliamento e 38 motori marini.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
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Fiori d’arancio a Eswatini: una figlia dell’ex presidente sudafricano sarà la 16esima moglie del re

Africa ExPress
Mbabane, 8 settembre 2024

L’amore non conosce età. La 21enne Nomcebo, una delle figlie di Jacob Zuma, ex presidente sudafricano, si è innamorata pazzamente di Mswati III, re di Eswatini (ex Swaziland), che di anni ne ha 56. E pare che il trasporto amoroso sia corrisposto, tant’è vero che i due piccioncini hanno annunciato il loro fidanzamento ufficiale in occasione dell’annuale Reed dance festival. La ragazza dovrebbe dunque diventare la 16esima moglie del monarca.

Nomcebo, la 21enne figlia di Zuma, diventerà la 16esima moglie del monarca di Eswatini

Durante il festival si esibiscono centinaia di ragazze, spesso in topless, davanti alla famiglia reale. Una specie di sfilata delle “più belle del Paese”, che permette al re Mswati III, l’unico monarca assoluto dell’Africa ancora al potere, di scegliere ogni anno una nuova consorte o concubina. La manifestazione dura 8 giorni e è considerato l’evento dell’anno nel piccolo regno.

Nomcebo, la cui madre, Nonkululeko Mhlongo, è fidanzata da una vita con Jacob Zuma, nell’ultimo giorno della cerimonia, che si è tenuta lunedì scorso al palazzo reale, era vestita con i colori vivaci del regno di Eswatini

Il portavoce del regno, Alpheous Nxumalo, ha respinto fermamente qualsiasi insinuazione che il matrimonio tra il re e la figlia di Zuma possa essere visto come un’alleanza politica. Anzi, ci sono forti legami tradizionali tra Eswatini e la monarchia zulu del Sudafrica, il cui attuale re, Misuzulu ka Zwelithini, è nipote di Mswati III.

Il re è nato nel 1968 a Manzini – la città più importante della piccola nazione (la capitale è Mbabane) – situata tra il Mozambico e il Sudafrica – con il nome di Makhosetive. Il padre morì quando il giovane aveva solo quattordici anni. Benché il vecchio monarca avesse avuto centoventiquattro mogli, solo sua madre è stata nominata regina. Fino alla sua maggiore età gli affari di Stato sono stati appunto affidati a lei, Ntombi Tfawla, mentre il futuro re terminava gli studi all’International College a Sherborne in Gran Bretagna. E’ stato incoronato nel 1986 all’età di diciotto anni.

Mswati III
Mswati III, re di eSwatini

In quanto monarca assoluto, governa solamente con decreti legge e non di rado viene criticato per il suo stile di vita sfarzoso, pur sapendo che gran parte della popolazione vive in miseria. Eswatini conta solamente un milione e duecentocinquantamila abitanti. Il reddito annuo pro capite supera di poco i quattromila dollari. Un Paese povero, e un terzo degli abitanti è affetto da infezione HIV. L’aspettativa di vita è di 61,5 anni.

Il monarca è stato criticato in passato per l’età delle sue mogli. Nel 2005 aveva scelto come sposa la diciassettenne Phindile Nkambule, pochi giorni dopo aver revocato il divieto di avere rapporti sessuali con ragazze di età inferiore ai 18 anni. Tale norma era stata istituita nel 2001, ufficialmente per contrastare  l’HIV/AIDS. Due mesi dopo aver abrogato la legge, il re si era auto multato con una mucca, avendo sposato una minorenne, la sua nona moglie.

Non tutti matrimoni del re, che ha decine di figli, sono andati a buon fine. Alcune mogli sono state espulse dal Paese per presunto adulterio, un’altra si è addirittura suicidata.

Anche l’ultima futura sposa del re proviene da una grande famiglia poligama. Jacob Zuma, 82 anni, si è sposato sei volte e attualmente ha quattro mogli e più di 20 figli.

Zuma è stato presidente del Sudafrica dal 2009 al 2018. E’ stato costretto alle dimissioni dal suo stesso partito, l’African National Congress, dopo una serie di accuse di corruzione. L’astuto politico è stato poi la sorpresa delle elezioni del Paese che si sono svolte all’inizio di quest’anno: il suo nuovo partito, uMkhonto we Sizwe, è arrivato terzo, con il 14,6 per cento delle preferenze.

Africa ExPress
X: @africexp
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Ondata di omicidi senza precedenti sconvolge il Sudafrica

Dal Nostro Inviato Speciale
Elena Gazzano
Città del Capo, settembre 2024

Il Sudafrica è intrappolato in una crisi che nessuna nazione dovrebbe conoscere in tempi di pace: un’epidemia di omicidi fuori da ogni controllo. In soli tre mesi (aprile-giugno), quasi 6.200 persone sono state uccise, un dato che non solo sconvolge, ma getta un’ombra oscura sulla nazione, rivelando una realtà di violenza straziante e pervasiva.

Sudafrica: guerra contro le gang

Sebbene vi sia stata una lieve diminuzione degli omicidi rispetto all’anno precedente a livello nazionale, in quattro delle nove province sudafricane è stato registrato un aumento. In particolare, nel KwaZulu-Natal si consumano quasi un quarto degli omicidi complessivi, seguito dalle province di Gauteng e Western Cape, entrambe caratterizzate da livelli di violenza che sembrano inarrestabili e sempre più intensi.

Diversi fattori contribuiscono a questa situazione. La circolazione di armi da fuoco non controllata gioca un ruolo cruciale. Molte delle armi sequestrate erano scomparse dalle stazioni di polizia nei mesi precedenti ad aprile per poi ricomparire nelle mani delle gang. Povertà diffusa e un sistema di giustizia che fatica a gestire il sempre crescente tasso di criminalità, complicano ulteriormente la situazione. Il Sudafrica presenta uno dei tassi di omicidi per abitante più alti al mondo.

L’aumento degli omicidi di donne e bambini rappresenta un altro aspetto preoccupante della crisi. Nel corso dei tre mesi analizzati, sono state uccise quasi mille donne, con un aumento del 7,9 per cento rispetto all’anno precedente. Inoltre, oltre 300 bambini hanno perso la vita, con un incremento del 7,2 per cento.

Donne e bambini sono le prime vittime degli omicidi in Sudafrica

La paura della violenza è una realtà quotidiana per milioni di sudafricani; ogni rumore nella notte potrebbe significare la fine. Secondo una testimonianza di Mitchells Plain, operatrice comunitaria, i residenti vivono nel timore di essere coinvolti in sparatorie tra bande, anche durante attività quotidiane, come uscire di casa o portare i bambini a giocare nei parchi.

In Sudafrica le gang stanno rapidamente espandendo il loro potere, reclutando nuovi membri e rifornendosi di armi in modo incontrollato. Preoccupazioni sono state sollevate riguardo a possibili legami tra queste bande e membri corrotti delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario, il che potrebbe spiegare la facilità con cui le gang continuano a ottenere risorse e armi.

Le autorità e le forze dell’ordine sono state sollecitate a implementare misure più efficaci per contrastare la criminalità e disarmare i gruppi illegali, con l’obiettivo di smantellare le reti di traffico di droga e ripristinare la fiducia nella società. Un intervento necessario per affrontare i problemi della crescente insicurezza.

Alcune comunità di Città del Capo hanno proposto il coinvolgimento delle Forze Armate Sudafricane (SANDF) per confiscare armi illegali e ristabilire l’ordine nelle aree particolarmente colpite dalla criminalità. Tale operazione dovrebbe essere indipendente dalle forze di polizia locali, ritenute da alcuni come non sufficientemente efficaci a causa di presunti casi di corruzione.

I dati relativi agli omicidi nel Paese vengono utilizzati per evidenziare una situazione di crisi in corso. La gestione della sicurezza richiede misure che affrontino direttamente le cause principali del problema. Il rischio, senza interventi mirati, è quello di un aumento dell’insicurezza e dell’instabilità sociale.

Il Sudafrica, che in passato ha affrontato sfide significative, si trova ora di fronte alla necessità di tutelare i propri cittadini e garantire loro una maggiore sicurezza.

Mentre se il Sudafrica affronta un’ondata di omicidi di proporzioni devastanti, è utile considerare la situazione in Italia per comprendere le diverse sfide legate alla sicurezza. Dal 1 gennaio al 9 giugno 2024, in Italia sono stati registrati 113 omicidi, di cui 37 vittime sono donne. Questi dati sono stati forniti dal ministero degli Interni, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale, Servizio Analisi Criminale.

Elena Gazzano
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La guerra infinita del Sudan: da oltre un anno la gente muore sotto le bombe e di fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
6 settembre 2024

In Sudan si sta consumando uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d’uomo, quasi totalmente ignorato dalla comunità internazionale. L’attenzione del mondo è per lo più concentrata sugli altri due grandi conflitti in atto: Russia–Ucraina e Israele–Striscia di Gaza. Peccato, perché vent’anni fa, il mondo si era indignato per la guerra in Darfur. Una mobilitazione di massa aveva costretto governi e istituzioni internazionali a agire. Oggi guardiamo dall’altra parte, come se la sofferenza di questo popolo non ci riguardasse.

Crisi umanitaria in Sudan

A tutt’oggi non si vede uno spiraglio di pace all’orizzonte. La sanguinosa guerra, iniziata il 15 aprile 2023 tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ha costretto alla fuga quasi 11 milioni di persone. I morti non si contano più.

Entrambe le parti in causa hanno commesso abusi che potrebbero equivalere a crimini di guerra e le potenze mondiali devono inviare forze di pace e ampliare l’embargo sulle armi per proteggere i civili, ha dichiarato venerdì una missione di esperti su mandato delle Nazioni Unite.

Gli esperti in diritti umani, incaricati di indagare dalle Nazioni Unite, hanno chiesto l’invio di una “forza indipendente e imparziale” in Sudan e l’estensione dell’embargo sulle armi per proteggere i civili nell’escalation del conflitto. Secondo il team la situazione sta deteriorando di giorno in giorno.

Il gruppo, composto da tre esperti, nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’ottobre 2023, ha riportato le prove di attacchi aerei e bombardamenti  indiscriminati contro obiettivi civili, come scuole, ospedali e quant’altro.

Le RSF e le milizie alleate sono state accusate di aver commesso numerosi crimini contro l’umanità: omicidi, torture, schiavitù, stupri, schiavitù sessuale, abusi sessuali, persecuzioni su base etnica e di genere e sfollamenti forzati.

Gli esperti hanno anche chiesto di estendere l’embargo sulle armi dalla regione occidentale del Darfur all’intero Paese, sottolineando che la guerra cesserà quando terminerà il flusso di armi. Il team non ha fatto menzione dei Paesi che potrebbero essere complici dei crimini commessi sostenendo le parti in conflitto.

E’ risaputo che gli attori esterni in causa sono parecchi: EAU mandano munizioni e droni alle RSF, mentre Iran e Egitto armano SAF. Dal canto suo la Russia ha inviato i mercenari di Wagner e le forze speciali ucraine combattono accanto all’esercito di Khartoum contro i soldati di ventura di Mosca.

Finora i vari tentativi messi in campo per raggiungere un cessate il fuoco sono tutti falliti. L’ultimo in ordine di tempo, l’iniziativa di pace fortemente voluta dagli Stati Uniti, che si è tenuta a Ginevra (Svizzera) il mese scorso. Malgrado le pressioni esercitate dalla comunità internazionale, al-Burhan si è rifiutato di inviare una delegazione, mentre Hemetti – ex capo dei janjaweed – ha inviato una rappresentanza delle RFS.

Le autorità di Khartoum hanno contestato la presenza degli EAU, che – secondo loro – sostengono le RFS. Inoltre non hanno visto di buon grado che l’invito al convegno di Ginevra sia stato inviato alle forze armate sudanesi (SAF) e non al Consiglio sovrano.

Invece di annullare la conferenza, sono proseguiti i colloqui diplomatici con gli altri ospiti (Arabia Saudita e Svizzera) e gli osservatori (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Nazioni Unite, Unione Africana).

Alla fine del meeting, il rappresentante di Washington per il Sudan, Tom Periello, ha annunciato la formazione del gruppo Aligned for Advancing Lifesaving and Peace in Sudan (ALPS), il cui fine è quello a ampliare l’accesso alle rotte umanitarie. L’iniziativa si concentra sulla creazione di un’azione internazionale congiunta per portare aiuti nei luoghi prioritari della catastrofe umanitaria che si sta consumando in Sudan.

Secondo Periello, grazie a questa iniziativa sono stati riaperti  il valico di Adré lungo il confine con il Ciad e la strada di Dabbah che parte da Port Sudan per permettere ai convogli che trasportano beni di prima necessità a raggiungere la popolazione affamata. Inoltre le RSF hanno promesso di applicare un codice di condotta tra i suoi combattenti.

Camion carichi di aiuti umanitari attraversano nuovamente il valico di Adré

Intanto la guerra continua. Oltre la metà della popolazione è allo stremo e in alcune zone la mancanza di cibo uccide quanto bombe e pallottole. La fame è un’arma da guerra, antica quanto il mondo.

Pochi giorni fa il vice amministratore di USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale), Isobel Coleman,  ha invitato la comunità internazionale e i membri della diaspora sudanese a intensificare gli sforzi per sostenere il popolo sudanese:  “Non basta aumentare l’assistenza umanitaria, bisogna assolutamente far pressione ma anche per porre fine a questo violento conflitto una volta per tutte”.

Martedì è stato lanciato un altro appello alla comunità internazionale dal Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) e il Mercy Corps (un’organizzazione globale non governativa di aiuto umanitario): “Bisogna affrontare la terribile crisi della fame in Sudan”.

“Il silenzio è assordante. Mentre le persone muoiono di fame ci si concentra sui dibattiti semantici e definizioni legali”, ha sottolineato Mathilde Vu, portavoce di NRC ai reporter di Dabanga News. Eppure il ministro dell’Agricoltura sudanese, Abubakr El Bishri, nega qualsiasi segnale di carestia nel suo Paese. Ha persino respinto tutti i rapporti dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali. Secondo il ministro tutti discorsi sulla carestia sono volti a far riaprire le frontiere con il solo scopo per contrabbandare armi e equipaggiamento militare per i ribelli e per far entrare forze straniere”.

“Le risorse ci sono, l’unico problema è il trasporto, vista l’insicurezza che vige in tutto il Paese, in particolare nelle aree controllate dalle RSF”, ha poi aggiunto El Bishri.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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