Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
27 settembre 2024
Qualche giorno fa la giunta militare di transizione del Burkina Faso, al potere dal 30 settembre 2022, ha sostenuto di aver nuovamente sventato un golpe.
Burkina Faso: Ibrahim Traoré, capo della giunta militare di transizione
Il ministro della Sicurezza di Ouagadougou, Mahamadou Sana, durante un intervento alla TV del 23 settembre scorso, ha rassicurato la popolazione che diversi migranti burkinabè residenti all’estero sarebbero già stati arrestati mentre erano in Burkina Faso. Ha poi precisato che nel complotto, volto a destabilizzare il Paese, sarebbero implicati gruppi terroristici, militari e uomini politici che opererebbero dalla Costa d’Avorio. Il ministro per la Sicurezza ha puntato il dito anche su Paul Henri Sandaogo Damiba (golpista del gennaio 2022, poi detronizzato da Traoré il settembre successivo) e alcuni ex ministri. “Sono attori del caos, sostenuti da alcuni servizi di intelligence occidentali”, ha poi aggiunto Sana.
Peccato che il ministro abbia dimenticato di precisare che già alcune settimane fa il dicastero degli Esteri ivoriano avesse convocato lo chargé d’affaire accreditato a Abidjan, come ha confermato anche il giornalista francese Serge Daniel, durante una diretta su France24. “Le autorità ivoriane – ha detto il reporter – avrebbero mostrato al diplomatico burkinabé prove inconfutabili come Ougadougou stesse tentando di destabilizzare la Costa d’Avorio”.
Serge Daniel, a sinistra a France 24
In un suo recente articolo Le Monde riporta alcune precisazioni importanti: già a gennaio un gruppo composto da una cinquantina di burkinabé, residenti in Costa d’Avorio, sarebbero stati portati in pullman a Ouagadougou per essere addestrati nel campo di Ouezzin-Coulibaly di Bobo-Dioulasso, città nella parte sud-occidentale del Paese, e a Ouagadougou. I giovani sarebbero stati controllati dalle autorità del Burkina Faso, sotto la supervisione di Lama Fofano, che a tutt’oggi si troverebbe nel Paese.
Fofano, ex ribelle e ex gendarme ivoriano, sarebbe un uomo di Guillaume Soro, a sua volta ex primo ministro e ex presidente dell’Assemblea nazionale di Abidjan e oggi uno dei maggiori oppositori del capo di Stato della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara. Soro, in esilio dal 2019, verso la fine del 2023 è stato accolto dalle giunte militari di transizione del Sahel e fino a poco tempo fa risiedeva a Niamey, capitale del Niger. Tutti tentavi di riavvicinare Ouattara a Soro sono falliti.
Alassane Ouattara, presidente della Costa d’Avorio
A luglio, una decina di persone appartenenti al gruppo che è stato formato nel Paese limitrofo, sono state intercettate dai servizi ivoriani e arrestati, una volta ritornati dall’addestramento in Burkina Faso.
Con la salita al potere del golpista Traoré, le relazioni tra Ouagadougou e Abidjan, due Paesi storicamente molto legati, si sono progressivamente deteriorate e non di rado si verificano addirittura scaramucce lungo il confine.
A fine aprile 2024 il ministro della Difesa ivoriano, Tené Birahima Ouattara, ha incontrato il suo omologo burkinabé, Kassoum Coulibaly, a Niangoloko, città del Burkina Faso a pochi chilometri dal confine con la Costa d’Avorio, per tentare di appianare le divergenze. I colloqui sono approdati in un nulla di fatto.
Anzi, solo una settimana dopo Traoré aveva mosso accuse pesanti: “I burkinabè che vogliono destabilizzare il nostro Paese non hanno nemmeno bisogno di nascondersi in Costa d’Avorio, con le cui autorità abbiamo seri problemi. A luglio, il capo golpista ha ripetuto le stesse accuse, aggiungendo che a Abidjan è stata creata una centrale per destabilizzare il Burkina Faso.
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Speciale per Africa ExPress Antonio Mazzeo
25 settembre 2024
Ad un anno esatto dall’avvio della genocida campagna militare di Israele contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, la holding italiana regina della produzione di sistemi bellici e le aziende israeliane delle cyber war si daranno appuntamento a Roma per una super convention internazionale.
Martedì 8 e mercoledì 9 ottobre il “Nuvola Convention Center” capitolino ospiterà Cybertech Europe 2024, il più grande evento continentale dedicato alla “sicurezza cibernetica”.
Ad organizzare la kermesse giunta alla settima edizione, la “piattaforma di networking” Cybertech Global (quartier generale a Tel Aviv) con la collaborazione del gruppo Leonardo S.p.A. e della società di consulenza internazionale Accenture, “con capacità avanzate in campo digitale, cloud e security”.
Giganti dell’informatica
Tantissimi gli sponsor di Cybertech Europe 2024: tra essi spiccano il colosso del complesso militare-industriale francese, Thales (attivo principalmente nel settore aerospaziale e dell’elettronica); i giganti dell’informatica e delle nuove tecnologie, Google e Cisco; uno dei leader statunitensi nella produzione di componenti elettroniche, Arrow; importanti aziende internazionali produttrici di software e sistemi di sicurezza informatica, le californiane Palo Alto Networks e SentinelOneInc. e l’israeliana CheckPoint Software Technologies Ltd; le società italiane DGS S.p.A. di Roma (specializzata nella progettazione e implementazione di servizi e soluzioni per la sicurezza) e Telsy Elettronica e Telecomunicazioni S.p.A. di Torino (di proprietà del gruppo TIM).
“Cybertech Europe 2024, la conferenza e l’esposizione presenteranno soluzioni all’avanguardia provenienti da diverse aziende nel panorama dinamico della cybersecurity”, spiegano gli organizzatori. “L’evento è il punto di riferimento per creare connessioni significative, per acquisire conoscenze dai pionieri del settore e per navigare collettivamente nell’intricato futuro cibernetico”.
“La Cybertech conference quale confronto globale su problemi quali minacce e pericoli che stanno colpendo l’intera collettività, offre ai suoi partecipanti l’opportunità di accostarsi al mondo cyber per mezzo dei maggiori prominenti esperti del settore”, si legge nella brochure di presentazione. “Vetrina delle innovazioni tecnologiche d’avanguardia e nuove prospettive, la conferenza ruoterà attorno alle ultime novità in materia di protezione e sicurezza informatica andando a trattare argomenti che spazieranno tra la difesa attiva, (…)le tecnologie di nuova generazione (dalla machine-learning– sistema d’apprendimento automatico – alla telemedicina ed alla computazione quantistica), gli investimenti nel mondo cyber, 5G telecomunicazioni, la sicurezza dello spazio, dell’aviazione e marittima”.
All’eventoromano prenderanno parte personalità governative, del mondo dell’industria e della ricerca. Tra essi spiccano l’amministratore delegato e direttore generale del gruppo Leonardo, Roberto Cingolani;il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano; l’addi Accenture, Teodoro Lio; il direttore generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi; il segretario generale dell’Organizzazione Europea per la Cyber Security (ECSO), Luigi Rebuffi; il Deputy CIO della NATO per la Cybersecurity, Mario Beccia; il direttore del Servizio di polizia postale, Ivano Gabrielli; il responsabile dell’unità di sicurezza dell’Agenzia dell’Unione europea “Lisa” per la gestione operativa dei sistemi IT con sede a Tallin (Estonia), Luca Zampaglione; il responsabile del Dipartimento per l’Innovazione tecnologica del ministero di Giustizia, Ettore Sala; il capodipartimento per la transizione ecologica del ministero dell’Ambiente, Laura D’Aprile; il direttore di AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ente di diritto pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Agricoltura, Fabio Vitale; il direttore dei sistemi operativi del dipartimento della Protezione Civile, Umberto Rosini.
I vertici dell’esercito
Tra i partecipanti ai workshop ci sono pure i vertici di alcuni reparti delle forze armate italiane (il generale di brigata Michele Sirimarco, alla guida del CUFAA – Comando delle unità forestali, ambientali e agroalimentari, cioé i Carabinieri forestali; il colonnello Pietro Lo Giudice del comando per le Operazioni Spaziali della Difesa); un rappresentante della European Union AviationSafety Agency (EASA), Gian Andrea Bandiera; il responsabile dell’Unità per la sicurezza tecnologica dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), Alberto Caponi; il direttore generale di Roma Capitale, Paolo Aielli; il capo del Polo Strategico Nazionale, Paolo Iannetti (si tratta della società partecipata da TIM, Leonardo e Sogei, che fornisce infrastrutture digitali e servizi cloud alla Pubblica amministrazione, secondo quanto previsto dal PNRR).
Nel nutrito elenco dei relatori compaiono inoltre ben dieci tra manager e dirigenti del gruppo Leonardo (Lorenzo Mariani, Carlo Gavazzoni, Raffaella Luglini, Giorgio Mosca, Andrea Biggio, Andrea Campora, Alessandro Massa, Enrico Giacobbe, Gabriele Cicognani, Filippo Cerocchi): Gianluca Varisco di Google Cloud; la general manager per i processi di automatizzazione di Siemens Italia, Stefania Svanoletti; l’israeliano Netanel Amar, cofondatore e amministratore delegato di Cynet Security;i responsabili del settore cyber security di Rete Ferroviaria, Riccardo Barrile; del Gruppo Terna, Pietro Caminiti; di Italgas S.p.A., Alessandro Menna;di LutechSp.A. Lorenzo Mazzei;del Gruppo Ferrero, Filip Nowak; la giornalista di Repubblica, Barbara Gasperini; il direttore del Master sulla Cyber Security dell’Università Medico-Bio Campus di Roma, Roberto Setola.
Ospite d’eccezione
Ospite d’eccezione (e assai ingombrante) di Cybertech Europe 2024 sarà il noto imprenditore israeliano Joseph “Yossi” Vardi, uno dei pionieri dell’industria di software, internet, telefonia cellulare e delle tecnologie elettro-ottiche dello Stato di Israele (nel suo curriculum vitae afferma di aver fondato e/o diretto più di un’ottantina di aziende che operano nel campo tecnologico, energetico, ecc. tra cui Tekem, Alon Energy e Granite Hacarmel), già console per gli Affari economici di Israele a New York, ex direttore generale del ministero dell’Energia ed ex presidente dell’Israel National Oil Company.
Yossi Vardi, imprenditore israeliano
In passato “Yossi” Vardi è stato pure membro del consiglio di amministrazione di OilRefineries Ltd. (società del settore petrolifero oggi acquisita dal Bazan Group di Haifa), nonché consigliere o direttore generale della Banca di Israele, dell’Israel Securities Authority e della Development Corporation for Israel. Come da prassi nel complesso militare-industriale-finanziario-accademico israeliano, il potente imprenditore è stato membro dei Cda delle più prestigiose e militarizzate università nazionali: The WeitzmanInstitute,l’HebrewUniversity, The Open University e l’istituto tecnologicoTechnion.
Vardi vanta infine rapporti di consulenza e collaborazione con la WorldBank, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite UNDP; il World Economic Forum e con alcune delle più importanti società transnazionali (Motorola, Amazon, AOL, Siemens Albis, ecc.).
Joseph “Yossi” Vardi interverrà alla kermesse romana in qualità di presidente di “Cybertech Conference”, il gruppo di networking che ha promosso l’appuntamento con Leonardo. Fondata nel 2014, “Cybertech Conference” organizza annualmente conferenze ed esposizioni sulle tecnologie cibernetiche nelle principali capitali internazionali (Roma,Tel Aviv, New York, Dubai, Tokyo, ecc.).
All’edizione 2023 di Cybertech Europe (tenutasi al “Nuvola Convention Center” il 3 e 4 ottobre, un paio di giorni prima dell’attacco di Hamas e della sanguinosa controffensiva delle forze armate di Israele contro di Gaza), si è registrato un numero record di espositori: oltre 90 tra aziende e start up provenienti da tutto il mondo, in particolare da Israele: AimBetter, Cinten, ItsMine, Orchestra Group, Perception Point, Rescana, Seraphic Security, Sling e Symmetrium”, “Altre società più affermate, come Checkpoint, CyberArk, Cybergym, SentinelOne, Terafence e XM Cyber.
L’anfitrione dell’evento
Anfitrione di Cybertech Europe 2023 è stato l’imprenditore e giornalista israeliano, Amir Rapaport, fondatore ed amministratore delegato di CyberTech Global, nonché analista militare di importanti quotidiani e periodici nazionali.
Cybertech 2023, Amir Rapaport, giornalista israeliano
AmirRapaport è stato tra i fondatori del mediagroup ArrowmediaIsrael Ltd., specializzato nella creazione e gestione di siti internet e nell’organizzazione di eventi e fiere. ArrowmediaIsrael Ltd. è nota tra i vertici delle forze armate e di manager delle industrie belliche internazionali per la pubblicazione del bimestrale in lingua inglese ed ebraica Israel Defense che analizza le politiche militari-industriali di Tel Aviv e del Medio Oriente. Israel Defense cura anche un quotidiano online di informazione su difesa e sicurezza.
Il 28 dicembre 2023, in piena guerra contro Gaza, la West Bank, il Libano, la Siria e lo Yemen, il ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, ha conferito un riconoscimento speciale al fondatore di Cyberteched Israel Defense, per il “Suo straordinario contributo alle relazioni internazionali ed economiche dello Stato israeliano”.
“Graziead Amir Rapaport, l’immagine di Israele si è affermata come leader globale nel campo dellatecnologia e delle cyber conferenze in diverse parti del mondo”, si legge tra le motivazioni dell’encomio. “Queste conferenze sono il frutto della vigorosa attività di Amir Rapaport. Esse contribuiscono significativamente alla reputazione di Israele quale hub dell’innovazione e della tecnologia, solidificando la posizione della cybersecurity quale settore guida in Israele. Le conferenze servono quale punto focale di attrazione ed incontro per i senior policymakers nel campo della cybersecurity in ogni Paese in cui hanno luogo i suoi eventi”.
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Speciale per Africa ExPress
Riccardo Girola
Milano, 24 settembre 2024
Lo scorso 18 settembre, il Mossad e l’IDF hanno messo a segno in diverse località del Libano e della Siria, un sofisticato attacco multiplo senza precedenti. Nell’esplosione dei cercapersone attivati a distanza dagli israeliani sono rimaste coinvolte almeno 4 mila persone, tra cui diversi bambini: i feriti sono più o meno quattrocento, di cui parecchi in gravi condizioni, e almeno 14 i morti, di cui 2 bambini. Feriti anche l’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani, leggermente, e alcuni miliziani colpiti in Siria.
Un vero e proprio attacco terroristico attraverso la manomissione di 5000 cercapersone (“pager”), in dotazione principalmente ai miliziani di Hezbollah. Questo dispositivo piuttosto desueto era preferito ai moderni smartphone per la difficoltà di intercettarli anche dalle avanzate tecnologie israeliane.
Il Mossad e lo Shin Bet hanno diversi precedenti riguardo metodi di azione insolita e piuttosto discutibile, si ricorda l’operazione “Ira di Dio” che nel 1972 portò alla morte il rappresentante dell’Olp in Francia, Mahmud Mashari. Il suo cellulare, in cui era stato piazzato un ordigno da un agente del Mossad fintosi giornalista, fu fatto detonare a distanza. Anche Yahya Abd al Latif Ayyash, volto noto di Hamas conosciuto come “l’ingegnere” morì per via dell’esplosione del suo telefono personale.
La partita dei 5000 pager manomessi è di produzione taiwanese, più precisamente dell’azienda Gold Apollo, la quale si appoggia a BAC Consulting, un’azienda ungherese per il confezionamento e la distribuzione dei dispositivi.
Hsu Ching-kuang, fondatore e presidente di Gold Apollo, parla ai media nel suo ufficio di New Taipei City, Taiwan, 18 settembre 2024.
Il presidente e fondatore della Gold Apollo, Hsu Ching-Kuang, chiarisce che la manifattura e il design sono affidati esclusivamente all’azienda Ungherese BAC.
Hsu ha espresso preoccupazioni riguardo alle irregolarità nelle rimesse e ammette però di essersi accorto dell’utilizzo dei pagers da parte di Hezbollah: “Non siamo una grande azienda ma siamo responsabili; e ciò è imbarazzante”.
Diversi professori di cybersecurity e analisti come Michael Horowitz hanno evidenziato quanto sia improbabile causare tali esplosioni esclusivamente attraverso un cyber attacco che porterebbe al surriscaldamento e conseguente esplosione della batteria; dunque è evidente l’intercettazione e la manomissione dei pager da parte dei servizi segreti israeliani prima dell’approvvigionamento alle milizie libanesi. Il giorno seguente all’esplosione dei cercapersone si sono aggiunte anche quelle dei walkie-talkie che hanno provocato la morte di almeno 9 persone e il ferimento di più di 300.
Cercapersone detonato
La CNN riporta che questi due attacchi sono stati pianificati e messi in atto dai servizi di intelligence, il Mossad, dall’esercito israeliani. Di quest’ultima azione ancora non si sa ancora la causa ma si ipotizza un modus operandi simile a quello dei pager.
Ora è utile chiedersi a quale scopo il Mossad e l’IDF hanno deciso di svelare un simile metodo di attacco senza precedenti.
Michael Horowitz ha fornito delle ipotesi: 1. Israele ha voluto anticipare una possibile azione militare di Hezbollah dato il conflitto al confine dei due Stati. 2. Attraverso l’esplosione dei cercapersone i miliziani si sarebbero sentiti più intimoriti e spiati, così da condizionarli nelle proprie azioni militari. 3. Un miliziano di Hezbollah potrebbe essersi accorto della manomissione al proprio cercapersone, di conseguenza prima che l’informazione potesse diffondersi hanno anticipato l’attacco. La risposta più accreditata ad oggi è l’ultima.
Il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah non ha esitato ad addossare le colpe di questo attacco terroristico ad Israele, aggiungendo: “Questo è puro terrorismo. Questi sono crimini di guerra o per lo meno una dichiarazione di guerra”.
Hassan Nasrallah, leader politico del partito di Dio noto come Hezbollah
Mentre le parole di Nasrallah venivano trasmesse un gruppo di caccia israeliani è volato a bassa quota sopra Beirut rompendo la barriera del suono. Sono inoltre proseguiti i bombardamenti nel sud del Libano.
L’Iran ha manifestato solidarietà ai suoi alleati sciiti promettendo “una risposta devastante dell’asse della resistenza e la distruzione di questo regime sanguinario e criminale”.
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La Turchia non molla, ritenta ancora di mediare tra Somalia e Etiopia. Le tensioni tra i due Paesi sono alle stelle, dopo un accordo siglato all’inizio di quest’anno dalle autorità di Addis Abeba e quelle di Hargheisa (capitale del Somaliland) per l’utilizzo del porto di Berbera.
Le tensioni tra i due Paesi non tendono a placarsi, specie dopo le recenti accuse del ministro degli Esteri somalo. In un comunicato del 20 settembre scorso ha incolpato l’Etiopia di aver inviato, senza alcuna autorizzazione, due camion carichi di armi nella regione semi-autonoma del Puntland.
Il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, a sinistra e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan
Dopo aver ospitato due incontri a Ankara tra alti funzionari somali e etiopi, nel tentativo di risolvere la crisi tra i due Paesi, un terzo meeting, previsto per giovedì scorso, è stato cancellato.
Ora il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, prima di fissare un nuovo incontro tra le parti, vuole avere colloqui separati con gli alti funzionari somali e etiopi che partecipano ai negoziati.
Va ricordato che il Somaliland, ex colonia britannica ha proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 26 giugno 1960 (si chiamava Stato del Somaliland), e, dopo 5 giorni si è unita alla Somalia Italiana, indipendente dal 1° luglio dello stesso anno. Dopo lo scoppio della guerra civile somala il 30 dicembre 1990, e il conseguente collasso della Somalia, il 18 maggio 1991 il Paese si è ritirato dall’unione. Ma il suo governo non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto meno dalla Somalia.
Il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, a sinistra e il presidente del Somaliland, Musa Bihi Abdi
La Turchia è presente in Somalia da anni. Nel 2017 ha costruito la sua più grande base militare all’estero. E l’anno precedente il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha aperto la nuova ambasciata sul lungomare di Mogadiscio, la più imponente e più moderna sede diplomatica turca in tutta l’Africa.
A fine luglio, il Parlamento di Ankara ha approvato una mozione presidenziale per il dispiegamento di forze armate in Somalia per due anni, a sostegno della sicurezza contro il terrorismo e altre minacce, nell’ambito di un accordo di cooperazione economica e di difesa tra Turchia e Somalia, siglato all’inizio di febbraio 2024. Ankara fornirà a Mogadiscio anche un sostegno per la sicurezza marittima per poter difendere le proprie acque territoriali.
Il governo di Ankara è impegnato in Somalia da oltre 10 anni nella formazione, assistenza e consulenza, per garantire sicurezza, stabilità e per contribuire alla ristrutturazione delle forze di difesa e di sicurezza del Paese per combattere il terrorismo.
Sebbene Addis Abeba e Mogadiscio siano in netto contrasto per la questione del Somaliland, l’Etiopia è ancora presente in Somalia con le sue truppe nell’ambito della Missione di Transizione dell’Unione Africana, il cui mandato scade alla fine dell’anno. Il governo somalo ha chiesto espressamente che i soldati etiopici lascino il Paese entro quella data.
I rapporti tra i due Paesi sono talmente tesi che ad aprile Mogadiscio ha persino espulso Muktar Mohamed Ware, ambasciatore del governo del primo ministro, Abiy Ahmed. Il ministero degli Esteri ha anche ordinato la chiusura di due consolati: uno nella regione semi-autonoma del Puntland e il secondo in quella secessionista, il Somaliland, che ha siglato il MoU (Memorandum of Understanding, cioè protocollo di intesa) con Addis Abeba.
Ora anche l’Egitto si sta riavvicinando alla Somalia. Nell’agosto scorso i due Paesi hanno firmato un accordo di sicurezza e alla fine dello stesso mese Il Cairo ha inviato già i primi aiuti militari a Mogadiscio. L’arrivo di due aerei egiziani, contenenti armi e munizioni è stato confermato a Reuters da fonti diplomatiche e da un alto funzionario somalo.
Poche ore fa funzionari portuali e militari somali hanno fatto sapere che una nave da guerra egiziana ha consegnato un altro carico di armi, tra questi armi antiaeree e artiglieria pesante.
Somalia: arrivo di due navi da guerra egiziane cariche di armi
Mogadiscio ha definito l’accordo tra l’Etiopia e il Somaliland un attacco alla sua sovranità e ha dichiarato che lo bloccherà con tutti i mezzi necessari. Dal canto suo, anche l’Egitto, in contrasto con l’Etiopia da anni per la costruzione di una vasta diga idroelettrica sulle sorgenti del fiume Nilo, il GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam), ha ugualmente condannato l’accordo con il Somaliland. E il presidente egiziano, Abd al-Fattāḥ al-Sisi si è pure offerto di inviare le sue truppe in Somalia, nell’ambito di una nuova missione di pace.
Insomma gli attori stranieri presenti nella nostra ex colonia sono molteplici e non si può escludere che ci siano anche forze di sicurezza eritree. A luglio il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, ha incontrato per la seconda volta quest’anno Isaias Aferworki. Con il peggioramento delle relazioni tra Eritrea ed Etiopia dopo la fine del conflitto nel Tigray, i legami tra Somalia ed Eritrea sono diventati sempre più importanti. Non va dimenticato che qualche anno fa Mogadiscio aveva inviato ad Asmara migliaia di soldati per addestramento militare. In seguito Isaias aveva costretto i militari somali a combattere accanto ai suoi uomini durante la sanguinosa guerra in Tigray, nella parte settentrionale dell’Etiopia.
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Dalla Nostra Corrispondente Simona Fossati Nairobi, 22 settembre 2024
A metà agosto il ministero dell’Ambiente, Foreste e Turismo di Windhoek ha dato il via libera alla caccia di 700 capi di bestiame che vivono nei parchi nazionali, per far fronte a una siccità senza precedenti che ha causato una grave penuria di cibo. Nell’elenco degli animali in questione ci sono ippopotami, gnu, impala, zebre e anche 83 elefanti e le carni della fauna selvatica abbattuta potranno poi essere distribuite alla popolazione maggiormente colpita dalla calamità.
Namibia e Zimbabwe: al via all’abbattimento di centinaia di capi della fauna selvatica
Con l’uccisione autorizzata diun tale numero di capi selvatici, il governo di Windhoeck vuole anche ridurre la pressione sui pascoli e sulla disponibilità di acqua nei parchi nazionali. La mancanza di cibo porta gli animali a uscire dalle riserve e invadere i campi coltivati, causando così un antagonismo per la sopravvivenza di entrambi.
Tali giustificazioni non sono state ben accettate da tutti. Infatti, una ONG locale, Elephant Human Relation Aid ha chiesto di trovare una soluzione alternativa al problema e ha lanciato una petizione in tal senso.
L’abbattimento degli elefanti in Namibia è stato condannato dagli ambientalisti e dal gruppo animalista PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) come “miope, crudele e inefficace”.
Ma secondo il governo, l’uccisione di 83 elefanti, rappresenterebbe di fatto solo una minima parte dei 20.000 stimati esemplari presenti nel Paese.
Ora anche il governo di Harare ha autorizzato il massacro di 200 elefanti a Hwange, il più grande parco nazionale del Paese e area di maggior conflitto “uomo-elefante”. Nella riserva vivono 65mila pachidermi, e, secondo Parks and Wildlife Authority dello Zimbabwe, quattro volte la sua effettiva capacità.
Pachidermi escono dalle riserve in cerca di cibo e acqua
Una decina di giorni fa il ministro dell’Ambiente, Nqobizitha Mangaliso Ndlovu, ha dichiarato in Parlamento che il Paese “ospita più elefanti del necessario”. Come Windhoeck, anche Harare ritiene che il provvedimento sia necessario, vista la difficile convivenza tra i pachidermi e la popolazione residente.
Intanto lo Zimbabwe, come lo Zambia e il Malawi, ha dichiarato lo stato di calamità per la siccità. Le autorità stimano che circa sei milioni di zimbabwani avranno bisogno di aiuti alimentari da novembre a marzo. La carne di elefante è quindi destinata anche all’alimentazione della popolazione.
L’idea di cacciare gli elefanti per alimentare i residenti in difficoltà è stata criticata da alcuni, anche perché ritengono che gli animali siano un’importante attrazione per i turisti e dunque entrate importanti per il Paese.
Mokgweetsi Masisi, presidente del Botswana
Va poi ricordato che la primavera scorsa il Botswana aveva minacciato di inviare 20mila elefanti in Germania dopo la critica mossa da Berlino sulla caccia ai pachidermi e l’esportazione di trofei. Mokgweetsi Masisi, presidente del Paese aveva giustificato tale misura per regolamentare e ridurre la forte presenza di questi mammiferi, che hanno raggiunto gli oltre 130.000 esemplari.
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Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes
20 settembre 2024
Sabato scorso un tribunale militare della Repubblica Democratica del Congo ha condannato 37 persone alla pena capitale. Su 51 imputati solo 14 sono stati assolti, mentre gli altri sono stati ritenuti colpevoli di aver partecipato a un tentativo di colpo di Stato a Kinshasa lo scorso 19 maggio.
Congo-K: aula del tribunale militare di Kinshasa durante il processo contro i partecipanti al fallito golpe
Gran parte dei condannati a morte sono congolesi, ma tra loro ci sono anche tre cittadini statunitensi, un canadese, un inglese e un belga. Il verdetto è stato letto dal maggiore Freddy Ehuma, trasmesso in diretta TV: “La Corte emette la più severa delle sentenze: pena di morte per associazione a delinquere, pena di morte per attentato, pena di morte per terrorismo”.
La pena capitale, abolita de facto nel 2003 in Congo-K, è stata ripristinata a marzo di quest’anno e finora sono state emesse 130 condanne alla pena di morte, ma nessuna è stata eseguita fino ad oggi. Secondo Espoir Masamanki Iziri, dell’Università di Kinshasa, tale verdetto è una risposta al deterioramento della situazione nell’est della RDC, sconvolto da un conflitto con i ribelli del Movimento M23, supportati da uomini e attrezzature dall’esercito ruandese, come è stato dimostrato in diversi rapporti delle Nazioni Unite. Il gruppo armato prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009.
Tra i tre condannati statunitensi (tutti nati negli USA) c’è anche il figlio di Christian Malanga, ideatore del fallito golpe di maggio e ucciso quando ha tentato di entrare nel Palais de la Nation, Kinshasa. Il 21enne Marcel ha sostenuto di essere stato costretto dal proprio genitore a partecipare all’impresa. Tale versione è stata sostenuta anche da Brittney Sawye, madre del giovane, ma non così secondo diverse testimonianze. Anzi, il tribunale ha sostenuto che sarebbe proprio stato lui a convincere gli altri due americani a unirsi a loro.
Marcel Malanga, cittadino USA, qui con il padre Christian, ucciso durante il fallito colpo di Stato a Kinshasa nel maggio 2024
L’amicizia tra Tyler Thomson Jr – un altro dei tre statunitensi condannati – e Marcel risale ai tempi del liceo. Erano anche membri della stessa squadra di football di Salt Lake City, Utah. Mentre la famiglia di Tyler era convinta che il proprio congiunto fosse in vacanza in RDC, lo hanno ritrovato sul banco degli accusati in uno dei processi più mediatici del Congo-K.
Subito dopo la lettura del verdetto, la famiglia ha dichiarato ai media americani: “Continuiamo a credere nell’innocenza di Tyler e perseguiremo tutte le possibili vie d’appello”.
Molti altri ragazzi, compagni della squadra sportiva, hanno dichiarato di essere stati contattati da Marcel Malanga, invitandoli a trascorrere una vacanza in famiglia in RDC, di costruire pozzi d’acqua nell’ambito del servizio civile. Altri ancora erano quasi tentati di recarsi nella ex colonia belga perché gli era stato offerto un lavoro nel settore “sicurezza”, per una ricompensa di 100.000 dollari.
Mentre il terzo americano, il 36enne, Benjamin Zalman-Polun, era partner in affari di Christian Malanga.
Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha dichiarato che l’ambasciata statunitense in RDC “continuerà a monitorare la situazione” e qualsiasi appello.
Jean-Jacques Wondo, esperto militare e in possesso della nazionalità belga, si era recato a Kinshasa a febbraio, dietro invito dell’allora capo di Agence National de Renseignements (ANR, servizi congolesi), il medico-colonnello Daniel Lusadisu Kiambi, dunque ben conosciuto dalle autorità del Paese.
Jen-Jaques Wondo, cittadino belga, durante il processo a Kinshasa
Wondo si è diplomato all’ École Royale Militaire di Bruxelles, poi ha conseguito un master in criminologia presso l’Università di Liegi e ha in tasca anche un diploma post-laurea in scienze politiche presso la Libera Università di Bruxelles. E’ inoltre autore di numerosi libri e articoli sull’esercito congolese,
Lusadisu Kiambi, un medico che ha lavorato a lungo in un ospedale di Bruxelles, gli aveva chiesto di aiutarlo a riformare l’ANR, revisione richiesta del presidente Felix Tshisekedi.
Il Belgio non si rassegna alla pena inflitta al proprio connazionale, che la Corte militare ha ritenuto essere ideatore e autore intellettuale del mancato putsch.
Ilministero degli Esteri di Bruxelles non è intervenuto nel contesto per rispetto della separazione dei poteri e della sovranità di ciascuno Stato. Ma domenica scorsa, la ministra Hadja Lahbib, ha chiamato la sua omologa congolese, Thérèse Kayikwamba Wagner, per informarla di quanto sia preoccupato il suo governo per il verdetto emesso dal tribunale militare, sottolineando che il Belgio è assolutamente contrario alla pena di morte. Inoltre, durante il processo sarebbero state fornite poche prove di colpevolezza nei confronti del proprio connazionale. Una critica in modo nemmeno troppo velato al sistema giudiziario di Kinshasa per non aver rispettato il diritto alla difesa. Lunedì scorso il ministero ha poi convocato l’ambasciatore di Kinshasa accreditato a Bruxelles per protestare contro la condanna capitale del proprio connazionale.
Dall’arresto di Jean-Jacques Wondo sono già stati lanciati numerosi appelli dalla sua famiglia al Presidente congolese Félix Tshisekedi.
Sul cittadino inglese, un congolese naturalizzato, non sono disponibili informazioni ufficiali. Un portavoce dell’Ufficio degli Esteri, il Commonwealth e lo Sviluppo del Regno Unito ha dichiarato: “Stiamo fornendo assistenza consolare a un britannico detenuto nella RDC, siamo in contatto con le autorità locali e abbiamo presentato le nostre rimostranze sull’uso della pena di morte e continueremo a farlo”.
Anche del cittadinocanadese, un congolese di nascita, non si conoscono dettagli. Global Affairs Canada (agenzia di Ottawa che gestisce le relazioni diplomatiche e consolari) ha fatto sapere via email a CBC News di essere a conoscenza che un loro connazionale è stato condannato a morte nella Repubblica Democratica del Congo. I funzionari canadesi starebbero fornendo assistenza consolare.
In un comunicato stampa di sabato 14 settembre, l’organizzazione per i diritti umani La Voix des sans voix ha esortato le autorità a commutare in ergastolo la pena di morte, ritenuta disumana.
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La cronistoria dello scorso ottobre ha facilitato il lavoro di nazificazione portato avanti da Israele contro i palestinesi, ravvivando la memoria collettiva e tenendo vivo il trauma intergenerazionale dell’antisemitismo. È naturale che gli ebrei, sia in Israele che nella diaspora, cerchino ancora spiegazioni della violenza antisemita, negli scorci di storia.
Ma la memoria può alimentare anche la cecità. Il popolo ebraico occupa oggi una posizione unica nella memoria del mondo occidentale. Le sue sofferenze vengono messe in luce e tutelate giuridicamente, come se gli ebrei dovessero sempre essere soggetti a una legislazione speciale. Questo mentre lo Stato israeliano non onora il diritto internazionale radendo al suolo quartieri di Gaza e massacrando intere famiglie.
Gli abitanti di Gaza, non solo sono costretti a pagare per le azioni di Israele, ma anche, ancora una volta, pagano per i crimini di Hitler. E l’imperativo di invocare l’Olocausto è diventato la vera cupola di ferro ideologica di Israele, il suo scudo contro qualsiasi critica alle sue azioni.
Ma stiamo attenti. Nessuno si riprenderà dalla barbarie guidata dall’egoismo o dalla codardia. Ciò che accade in Palestina avviene oggi in un contesto di sopruso globalizzato. Accettare il massacro perpetrato dallo Stato di Israele significa prepararsi ad altre tragedie a venire, in un’inestinguibile corsa all’orrore guidata da mostri convinti che la forza sia l’unico potere.
La storia giudica severamente coloro che assumono il ruolo di meri osservatori quando si verificano grandi danni e ignora coloro che rimangono neutrali di fronte a crisi morali. Più che mai, la pace è essenziale. Va detto senza timore di discorsi di odio.
In un’epoca di sconfitta e smobilitazione, in cui le voci più estremiste sono amplificate dai media, vince il culto della forza, cortocircuitando ogni forma di empatia. Il razzismo, l’odio, il risentimento, il desiderio di vendetta non possono alimentare una guerra di liberazione. L’odio non può costituire un programma.
Gaza
Netanyahu davvero crede di poter costringere i palestinesi a consegnare le armi o a rinunciare al loro ideale di uno Stato, bombardandoli fino alla sottomissione? Questo è già stato tentato, e più di una volta. Il risultato inevitabile è stato l’emergere di una nuova generazione di palestinesi ancora più forti. Perché non abbandonare Gaza e fuggire? Figli della Nakba, i palestinesi di Gaza sono in realtà prigionieri di un territorio che è stato tagliato fuori dal resto della Palestina. Ma è la terra delle loro vite.
Israele, invece, è sempre più incapace di cambiare rotta. Alla sua classe politica mancano l’immaginazione e la creatività necessarie per perseguire un accordo duraturo, per non parlare del senso di giustizia e della dignità dell’altro.
Lungi dal normalizzare lo Stato di Israele considerandolo uno Stato come gli altri – soggetto alle stesse regole di diritto internazionale degli Stati sovrani – il sostegno della Comunità Internazionale cade in una relazione malata che consiste nel rendere lo Stato ebraico – Lo Stato -. Una sorta di mostro geopolitico che ci asteniamo dal criticare.
Nulla spiega perché i Paesi che possono rivendicare un’influenza sulle autorità israeliane siano così assenti e rassegnati a un falso status quo. Gli anni di banalizzazione di una situazione inaccettabile hanno reso Gaza un territorio perduto dalla coscienza internazionale. Un giorno dovremo pagare il prezzo morale dell’inazione.
L’unico quadro che può salvare Israele e Palestina ed evitare una nuova Nakba – che è diventata una possibilità reale, mentre una nuova Shoah è solo un’allucinazione di origine traumatica – è una soluzione politica che garantisca ad entrambi i popoli uguali diritti di cittadinanza e permetta loro di vivere in libertà.
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Ho riesumato dal mio archivio questo articolo scritto nel maggio 1988, oggi più che mai attuale dopo l’attentato in Libano organizzato da Israele che ha fatto “saltare” circa tremila cercapersone con 11 morti, compresi parecchi civili.
EDITORIALE Massimo A. Alberizzi
maggio 1988
Le pietre lanciate dai giovani palestinesi contro l’esercito d’occupazione israeliano, stanno colpendo il segno molto più delle pallottole dei mitra sparati dai fedayn esperti e ben addestrati. Gerusalemme con la sua politica di repressione violenta si sta pian piano alienando le residue simpatie internazionali che ancora gli restano.
Intifada
L’assassinio di Abu Jihad, a Tunisi il 16 aprile 1988, ha poi danneggiato gravemente l’immagine di Israele soprattutto quando si è saputo che anche i laburisti avevano appoggiato l’operazione del Mossad in terra tunisina.
Gli israeliani hanno una strana idea del terrorismo. Loro credono che terrorista sia solo chi piazza una bomba in un mercato (peraltro fu proprio l’Irgun* a inaugurare la stagione degli attentati in Medio Oriente). Considerano legittimo, invece, violare la sovranità di uno Stato per colpire i nemici. Applicano le regole bibliche del “dente per dente” alla perfezione. Anzi, l’hanno adeguata ai tempi, trasformandola nel più immediato “il fine che giustifica i mezzi”.
Certo, Israele si sente aggredita. E’ logico che i suoi governanti soffrono di una sindrome dell’accerchiamento. Meno facile e capire perché, invece di cercare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina la regione, si richiudono su se stessi e sparino alla cieca. Una politica folle che si ritorce proprio contro chi l’ha ideata e voluta. L’assassinio di Abu Jihad per esempio, giova solo alla causa dei falchi palestinesi, a quelli che continuano a ripetere che con gli israeliani non si può avere dialogo, che lo Stato ebraico va distrutto.
Gerusalemme getta benzina sul fuoco della guerra e dà respiro ai più radicali dei suoi amici proprio mentre un lento processo di revisione sta portando la dirigenza dell’OLP verso posizioni meno intransigenti.
Yasser Arafat
Degli anni ‘70 nessuno avrebbe immaginato che Arafat avrebbe potuto ammettere un esplicito riconoscimento di Israele. Oggi questa possibilità è assai concreta; i dirigenti palestinesi attendono da parte avversaria gesti distensivi che invece tardano. All’OLP che chiede un riconoscimento reciproco – il che mi pare logico giacché al tavolo da gioco siedono due avversari – viene risposto con un secco “no, con i terroristi non si tratta”, uno slogan che espresso in questo modo chiude qualunque prospettiva di pace.
Deludono anche i socialisti di Perez che quando accettano l’ipotesi di una conferenza di pace, limitano la partecipazione palestinese a una delegazione mista con i giordani che escluda tassativamente rappresentanti dell’OLP.
Volenti o nolenti, l’organizzazione di Arafat rappresenta la maggioranza dei palestinesi (e lo si è visto dal numero delle bandiere che spuntano quotidianamente durante le manifestazioni nei territori occupati). Una pace senza di essa e il raggiungibile e il solo proporla è una presa in giro.
Proviamo immaginare uno scenario nel quale al tavolo dei negoziati siedono tutti, tranne l’OLP. Come si fa a pensare che un eventuale accordo raggiunto posso trovare una reale applicazione senza l’approvazione della centrale palestinese le cui mani, al pari di quella israeliane, impugnano le leve della guerra?
C’è da chiedersi se Israele abbia mai perseguito seriamente progetti di pace. I suoi governanti credono di essere al di sopra delle regole che governano la convivenza civile. I benpensanti nostrani ci sarebbero certamente indignati se un comando di 007 sovietici avessero rapito in Italia che so io, un dissidente fuggito da Mosca per riportarlo in patria.
Nessuno invece ha protestato quando gli agenti del Mossad il 30 settembre 1986 hanno sequestrato a Roma il fisico Mordechai Vanunu e l’hanno ricondotto a Gerusalemme. L’idea che a Israele, poveretta, aggredita e accerchiata sia permesso tutto, francamente non ci convince. Anzi proprio per questo atteggiamento da gendarme che siamo schierati con i palestinesi e non con gli israeliani.
Esattamente come sempre abbiamo cercato di sostenere gli oppressi contro gli oppressori, i neri sudafricani contro il governo dell’apartheid, le derelitte popolazioni africane contro le dittature sanguinarie e dispotiche.
I sostenitori di Israele si permettono di lanciare contro chi osa criticare la politica di Gerusalemme un’accusa degna dei tempi oscuri e ormai passati: antisemitismo. Una parola che fa paura solo al pronunciarla.
È bene sgombrare una volta per tutte – e definitivamente – il campo da un simile imbroglio. Le critiche piovono su un governo, su una politica, su una filosofia non su un popolo o su una razza. Non è mai stato accusato di essere razzista anti-bianco chi condanna il regime sudafricano, né razzista anti-etiopico chi sostiene le legittime aspirazioni del popolo eritreo contro la sanguinaria dittatura di Addis Abeba, né infine razzista anti-tedesco chi è o è stato ferocemente contrario al nazismo. Che dire poi di quegli ebrei (e sono tanti!) Che puntano il dito accusatore contro il governo israeliano: sono per questo anch’essi antisemiti? No, chi rivolge queste accuse ai suoi critici sa di essere a corto di argomenti, sa di sbagliare ma, chissà perché, intende perseverare nell’errore.
JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), ha rivendicato due attacchi a Bamako questa mattina.
Bamako: attacco alla scuola di gendarmeria
Alle 05.00 ora locale si sono sentiti i primi spari nella capitale maliana, dove i jihadsisti hanno assalito contemporaneamente: la scuola di gendarmeria nel quartiere Faladié, dove la sparatoria si è prolungata per tre ore e l’aeroporto Bamako-Sénou. Colpi di arma da fuoco sono stati sentiti fino a tarda mattinata.
Nel pomeriggio sono ripresi i combattimenti. Dall’aeroporto, avvolto da una densa nube nera, echeggiavano proiettili e granate. Adiacente all’aerostazione civile a meno di un chilometro dai terminal commerciali, c’è un’istallazione militare, la Base 101, che oltre ai droni, ospita anche aerei e elicotteri dell’aviazione militare maliana; alcuni di essi sarebbero stati danneggiati durante l’attacco.
In un breve comunicato l’esercito maliano ha rassicurato la popolazione che la situazione è sotto controllo, spiegando che un gruppo di terroristi ha cercato di infiltrarsi nella scuola di polizia. “Grazie alle operazioni di rastrellamento sono stati effettuati diversi arresti”, ha sottolineato Oumar Diarra, capo di Stato maggiore generale durante un suo intervento sul canale della TV di Stato alle 13.00. “Gli infiltrati sono stati neutralizzati”. Sono poi state mostrate immagini di una ventina di persone fermate e di un sospettato morto.
Un altro comunicato, emesso però dal ministero della Sicurezza e della Protezione Civile, parla di attacchi terroristici contro punti sensibili della capitale.
Diverse fonti di sicurezza di Bamako hanno confermato che oltre alla scuola della gendarmeria è stata presa di mira la Base 101, situata nella zona dell’aeroporto. Da questa installazione vengono lanciati i droni dell’esercito maliano e in una caserma sono ospitati anche gli uomini del African Corps (ex Wagner).
Il ministero dei Trasporti ha fatto sapere che tutti i voli previsti nella mattinata sono stati cancellati fino a nuovo ordine. Anche l’accesso all’aeroporto è momentaneamente limitato per evitare eventuali rischi.
Katiba Macina, gruppo terrorista che fa parte di JNIM, ha rivendicato gli attacchi nella capitale di oggi e precisa di aver ucciso parecchie persone e di aver causato danni materiali enormi. L’esercito e altre fonti ufficiali del governo di Bamako finora non hanno parlato di vittime, tantomeno di perdita di equipaggiamento militare. Sta di fatto che per ore c’è stato un via vai di macchine dei pompieri che hanno fanno la spola tra la scuola di gendarmeria e gli ospedali. E, secondo alcune fonti che non hanno voluto rivelare la loro identità, oltre ai feriti ci sarebbero stati anche parecchi mori.
JNIM è stato costituito nel marzo 2017. Il movimento ora è guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista tuareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine, in italiano: ausiliari della religione (islamica). Il “consorzio” comprende diverse sigle, tra questi Ansar Dine, Katiba Macina, AQMI (al Qaeda nel Magreb Islamico) e altri.
Bamako, Mali: Tour d’Afrique
E, secondo quanto riferito da RFI, in alcuni video postati sui social network, si vede un uomo carbonizzato vicino a La Tour d’Afrique. Nel filmato non si distinguono agenti di polizia. Pare sia stata la folla ad aver ucciso un uomo perché sospettato di aver partecipato all’attacco. Una pericolosa giustizia popolare.
La giunta militare di transizione ha subito oggi una nuova battuta d’arresto, dopo la sconfitta a fine luglio a Tinzaouatène, nel nord del Paese, dove i ribelli indipendentisti hanno dichiarato di aver ucciso 47 soldati maliani e 84 mercenari russi. Il gruppo jihadista, che oggi ha attaccato siti militari a Bamako, aveva ovviamente preparato con cura questa complessa operazione, mobilitando numerosi combattenti e ingenti risorse.
Non va dimenticato che nel novembre 2015 c’è stato un terribile attacco all’albergo Radisson Blu, in pieno centro della capitale maliana. Allora l’aggressione era stata rivendicata da due sigle: Kātiba al-mulaththamīn (battaglione mascherato), capeggiato da Muktar Belmuktar e da al Qaeda nel Magreb islamico (AQIM). Qualche mese prima era stato preso di mira un noto night club, La Terrasse, nella zona dell’ippodromo. Mentre l’ultimo assalto a Bamako risale al 2016, quando è stato preso di mira Hôtel Nord-Sud, la sede della missione di formazione dell’Unione Europea per l’esercito maliano.
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Speciale per Senza Bavaglio Ettore Vittorini
17 settembre 2024
La guerra in Medio Oriente ormai minaccia anche il Libano: dal Sud di questo piccolo Paese gli Hezbollah lanciano missili su Israele e da qui si risponde con duri bombardamenti che costringono la popolazione a fuggire verso Nord e a rifugiarsi a Beirut.
Quando il Libano era la Svizzera del Medioriente
Il Libano è divenuto un territorio nel quale si combattono le guerre altrui. Eppure questa giovane nazione, ex Mandato francese, divenne indipendente nel 1943 con un regime democratico che contribuì al suo benessere. Venne definita la “Svizzera del Medio Oriente”.
Ma quei tempi d’oro durarono poco più di quarant’anni sino allo scoppio nel ’75 des evéneménts, come i libanesi di lingua francese definiscono l’inizio della sanguinosa guerra civile durata 15 anni, che attirò gli eserciti della regione, dall’Olp a Israele, dalla Siria all’Hezbollah.
Oggi la popolazione del Libano è ostaggio di quest’ultima organizzazione terroristica ben armata dall’Iran nata nel 1982 e radicatasi nel Paese, da dove, a Sud, tiene la Galilea israeliana sotto il tiro di continui attacchi con missili, droni ed incursioni. Ovviamente la risposta dello Stato ebraico è molto dura: come accade a Gaza la popolazione civile ne subisce le tragiche conseguenze.
I libanesi si aspettano da un giorno all’altro l’invasione delle truppe israeliane: ormai il loro Paese ha perso il fascino e la ricchezza di un tempo.
A questo proposito riporto alcune frasi di una recente intervista di Repubblica a due signore d Beirut appartenenti al mondo laico della cultura del Paese. “La vita è impossibile per noi libanesi, sempre in guerra e costretti al silenzio – afferma Rasha Al Amir, responsabile di una Casa editrice. – Tutti stanno fuggendo via verso la montagna, verso Nord. La gente qui ha paura, non di Israele ma di Hezbollah. Criticarli significa rischiare: questa è gente che uccide. Chi critica riceve prima un avvertimento, poi muore, come è successo a mio fratello Lockman che era scomodo, autorevole e parlava. Aveva puntato il dito contro Hezbollah per la strage nel porto di Beirut del 2021.Lo hanno assassinato”.
Strage porto di Beirut 2021
“Oggi il Paese non è governato da persone normali; noi cittadini siamo le loro vittime – dice la scrittrice Alawyah Sobh. – Non siamo stati noi a chiedere questa guerra; la religione domina questa regione ed io come tanta gente detesto chi usa la religione per far politica sulla nostra pelle: musulmani, ebrei, cristiani. Con la mia età posso ricordare il Libano di prima della guerra civile. Era un posto unico, bellissimo dove cristiani e musulmani vivevano insieme”.
Le do ragione perché conobbi il Libano di quei tempi nel luglio del 1973 e vi rimasi per una decina di giorni, inviato dal settimanale Tempo. Un periodo sufficiente per poter, almeno in parte, conoscere il Paese, una fascia di 10 mila Kmq (quanto l’Abruzzo) stretta tra il Mediterraneo e la catena montuosa dei Monti del Libano.
Il titolo dell’articolo che scrissi fu “Col sorriso e il benessere il Libano evita la guerra”. La guerra, quella del Kippur, arrivò il 6 ottobre dello stesso anno quando Egitto e Siria attaccarono nel giorno della più importante festività ebraica.
Il Libano non fu toccato dal conflitto seppur confinante con la Siria a Nord e ad Est, con Israele a Sud. Ma i venti di guerra soffiavano anche sul piccolo Paese. La sede dell’Olp si era istallata a Beirut dopo che nel settembre del 1970 il re di Giordania, Hussein, aveva imposto con la forza all’organizzazione di Arafat di lasciare il Paese. Ad Amman intervenne l’esercito che attaccò i campi profughi e i miliziani dell’Olp. Quel conflitto, che provocò 10 mila morti prese il nome di Settembre nero e costrinse i profughi palestinesi a fuggire in Libano.
Una settima prima della mia visita un commando israeliano sbarcato di notte sulla spiaggia di Beirut raggiunse la sede dell’Olp con lo scopo di catturare o eliminare Arafat. Ci fu un breve scontro a fuoco, ma Arafat non c’era: forse avvertito, si era rifugiato altrove. In Occidente e all’Onu non ci furono reazioni sul fatto che Israele avesse violato i confini di un Paese neutrale.
Quando arrivai in Libano non riscontrai segnali di tensione: nell’aeroporto la solita tranquilla routine; al controllo un agente mi timbrò il passaporto sorridendomi e salutandomi con un “Bienvenue au Liban”.
Alloggiai in un bell’albergo vicino al favoloso Hotel Phoenicia che ospitava nelle suites i magnati dell’Arabia Saudita, i ricchi affaristi europei e americani, con vista sul Mediterraneo e sul porto turistico dov’erano attraccati panfili di gran lusso.
Il Phoenicia aveva ospitato due transfughi italiani: nel 1967 Felice Riva, il “re del tessile”, fuggito dopo la condanna a sei anni per bancarotta fraudolenta, e nel 2014 Marcello dell’Utri condannato dalla Cassazione per rapporti con la mafia e altro. Entrambi vennero estradati in Italia dalle autorità libanesi.
Il tassì mi portò dall’aeroporto all’albergo percorrendo la Corniche, un lungomare che non aveva niente da invidiare a quelli di Cannes e di Nizza. Passammo dalla Hamra, nel centro di Beirut, il corso pieno di negozi di lusso che, per la sua eleganza somigliava alla via Roma di Torino.
Davantial mio albergo vidi con meraviglia parcheggiata una Alfa Romeo Giulia targata Milano. Apparteneva a una coppia di giovani sposi in viaggio di nozze che aveva percorso senza problemi Jugoslavia, Grecia, Turchia e Siria per arrivare in Libano. A quei tempi si poteva fare, come arrivare, sempre in macchina, in Iran e Afghanistan. Qualcuno lo faceva anche con l’autostop.
Quella libertà di viaggiare da quelle parti potrebbe apparire oggi come una delle favole di un moderno Le mille e una notte, difatti poco tempo i venti di guerra si trasformarono in cicloni che tornarono a portare morte e distruzioni.
Il conflitto del Kippur, dopo l’ultimo del ’67 accese la miccia che porterà nella regione anni ed anni di guerre.
Ma tornando a quel luglio del ’73, fui accompagnato in giro per il Paese, con altri colleghi, da Renata una giovane libanese che parlava benissimo l’Italiano.
Libano: le ruine di Baalbeck
Vidi il Casino du Liban elegante come quello di Montecarlo pieno di arabi che facevano grosse puntate, nonostante la loro religione lo vietasse.
Mi colpì moltissimo la favolosa Baalbek, nella valle della Bekaa, con le sue monumentali rovine che risalgono all’epoca romana e a periodi precedenti, come il tempio del dio Baal, eretto duemila anni prima di Roma dai Fenici, gli antenati dei libanesi.
Baalbeck, dichiarato nel 1984 dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, ha subito gravi danni nel corso delle varie guerre che hanno colpito il Libano,. Vi hanno contribuito soprattutto gli aerei israeliani che la bombardarono nel 1982 e nel 2006.
Nel Tempio di Bacco, nel cuore di Baalbeck, uno dei siti archeologici più importanti e meglio conservati del Medio Oriente, si svolge ogni anno il Festival internazionale con spettacoli teatrali, di musica classica di opera lirica e di jazz, tranne ovviamente nei periodi di guerra. Quell’estate del ’73 fui spettatore di un’opera di Rossini.
Ma visitai anche luoghi meno “affascinanti”: un collega libanese insieme a un deputato socialista di etnia araba mi portarono nei campi di Tall el Zaatar e Sabra e Chatila, dove vivevano 400 mila profughi cacciati dalla Giordania. In quei luoghi lo splendore di Beirut era scomparso per lasciare il posto a baraccopoli simili alle favelas brasiliane. Per i vicoli giravano miliziani dell’Olp ben armati.
Dopo la nascita di Israele quei campi avevano ospitato gran parte dei palestinesi costretti a fuggire dallo Stato ebraico e che negli anni successivi si erano integrati nella società libanese.
I guai per il Piccolo Paese sono arrivati assieme alla seconda ondata dei profughi e all’insediamento dell’Olp con il suo “esercito”, una invasione di musulmani che ha condizionato la Costituzione libanese nata nel 1943.
Quell’anno il Libano – un Mandato francese dal 1919 – ottenne l’indipendenza. Durante la seconda guerra mondiale era sotto il controllo del governo di Vichy, ma con le pressioni della Gran Bretagna e della France Libre di De Gaulle il governatore si convinse a concedere l’indipendenza al Paese.
A quei tempi il Paese aveva appena 600 mila abitanti, il 40 per cento dei quali era di religione cristiano maronita, il trenta, arabo musulmana, il resto era costituito da cattolici della Chiesa di Roma, greco ortodossi, armeni, kurdi.
Quella fascia di terra che da secoli era appartenuta all’impero Ottomano, si era sempre distinta dal mondo arabo musulmano mantenendo forti contatti commerciali con le Repubbliche di Genova e Venezia che vi avevano insediato sedi commerciali e banche. Nei commerci si inserì anche Livorno, città e porto franco costruito dai Medici tra il ‘400 e il ‘500. Lungo uno dei canali della città vecchia esiste ancora un grande magazzino chiamato il fondaco dei libanesi.
L’Italia è rimasta sino ai nostri giorni il primo partner commerciale. I miei accompagnatori mi dissero che a Beirut vivevano da secoli ancora circa duemila famiglie con cognome italiano.
Tornando alla Costituzione dello Stato, questa fu redatta saggiamente sul principio che stabiliva la divisione delle massime cariche istituzionali tra i principali gruppi religiosi. Alle elezioni Il Presidente della Repubblica doveva essere un cristiano maronita; il Primo ministro un musulmano sciita; il Presidente della Camera un musulmano sunnita. Alle minoranze erano riservate cariche nei tribunali, nei ministeri e in altre istituzioni.
Ma negli Anni Settanta, quell’equilibrio venne messo in crisi dal grande afflusso di palestinesi e dall’Olp provenienti dalla Giordania. I musulmani diventati la maggioranza della popolazione facevano pressioni per ottenere più potere e la presidenza. Tra l’altro chiedevano un censimento che attestasse cambiamenti tra le etnie. i Cristiani filooccidentali per cultura e costumi (le lingue ufficiali erano l’arabo e il francese) consideravano i musulmani un pericolo per il Paese.
Inoltre la presenza dell’Olp era diventata politicamente più invadente.
Libano 1975: guerra civile
Il risultato fu che Beirut e l’intero Paese si trasformarono in un campo di battaglia che il piccolo e inefficiente esercito non riuscì ad evitare. La scintilla della guerra civile scoccò quando il 13 aprile del 1975, mentre un gruppo di cristiani che partecipavano a una cerimonia davanti a una chiesa vennero colpiti da colpi di mitra sparati da un’auto di miliziani dell’Olp. Ci furono 4 morti e molti feriti.
La risposta arrivò poche ore dopo quando la Falange maronita, il gruppo armato dei cristiani, attaccò un autobus carico di membri dell’Olp e ne uccise 27. L’escalation delle vendette tra le due parti si trasformò in una guerra che non risparmiò la popolazione civile.
I massacri in larga scala iniziarono alla Quarantina, una baraccopoli musulmana della periferia di Beirut dove le milizie cristiane massacrarono 1500 musulmani. La rappresaglia palestinese fu compiuta nel quartiere cristiano di Damur con 500 morti.
Il tentativo di riportare la pace fu affidato dalla Lega Araba a un corpo di dissuasione siriano che peggiorò la situazione. Nel ’76 la Falange attaccò il campo profughi di Tall al Zaatar mentre i siriani che avrebbero dovuto proteggerlo guardavano dall’altra parte. Ci furono 10 mila morti.
Nell’82 vennero attaccati sempre dai falangisti quelli di Sabra e Shatila con altre 10 mila vittime. Allora il Libano era stato occupato quasi completamente da Israele, in risposta agli attacchi dell’Olp che lanciava missili in Galilea. Le truppe israeliane permisero che l’eccidio avvenisse.
Finalmente l’ONU decise di intervenire e inviò truppe multinazionali compresi i bersaglieri italiani comandati dal generale Angioni. Gli italiani lavorarono molto bene attirandosi il favore della popolazione dei due fronti contrapposti. Il ritiro di Israele avvenne poco dopo e la guerra civile terminò nel 1990.
Ci sarebbe molto altro da aggiungere sugli avvenimenti successivi sino ad oggi. Forse in una seconda puntata e non credo che la storia del Libano avrà un lieto fine.
Ettore Vittorini*
*Ettore Vittorini è esperto do politica internazionale. Ha lavorato al Tempo illustrati e poi al Corriere della Sera per oltre trent’anni. E’ stato corrispondente, inviato e infine vice caporedattore nel settore esteri.
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