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I tentacoli della Russia in Africa: Wagner arruola giovani centrafricani per combattere in Ucraina

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 ottobre 2024

I mercenari di Wagner, oggi Africa Corps (controllato direttamente dal ministero della Difesa di Mosca), stanno arruolando giovani africani per combattere in Ucraina. La questione è stata sollevata anche pochi giorni fa da Bloc républicain pour la défense de la Constitution (BRDC), raggruppamento dei maggiori partiti all’opposizione nella Repubblica Centrafricana.

Prigionieri di guerra in Ucraina: tra loro anche africani

All’inizio del mese il Gruppo di Lavoro della Società Civile aveva denunciato il reclutamento dei centrafricani da parte dei mercenari russi. Per tutta risposta il governo di Bangui ha apostrofato la notizia come falsa.

Responsabile della sicurezza

Nulla di strano, visto che il presidente centrafricano, Faustin Archange Touadéra, ha nominato recentemente Dmitri Podolsky, soprannominato “Salem”, come responsabile per la sicurezza. Salem proviene dai ranghi di Wagner. Precedentemente era al soldo dell’esercito russo e ha combattuto in Siria. Nel 2017 si è arruolato come mercenario.

Nel 2022 ha partecipato all’invasione dell’Ucraina con la società privata russa di soldati di ventura. Durante la battaglia di Bachmut (città della Russia orientale sita nell’oblast’ di Donec’k) ha perso il braccio destro. Dopo la convalescenza è stato inviato in Centrafrica come ufficiale.

Estrazione dell’oro

Oltre ad addestrare le truppe centrafricane, i mercenari russi conducono incursioni contro i gruppi ribelli. Ma il motivo fondamentale della loro presenza sono i siti minerari: i membri di Wagner si sono assicurati diritti per l’estrazione dell’oro, mentre altre volte se ne sono appropriati, attaccando giacimenti e mandando via coloro in possesso delle licenze. Anche il prezioso metallo proveniente dall’Africa ha permesso al Cremlino di aggirare le sanzioni internazionali, imposte a causa dell’invasione dell’Ucraina.

Fonti locali, come Corbeau News Centrafrique (CNC), continuano a riportare casi di abusi e violenze commessi dal gruppo paramilitare, in particolare nelle aree rurali. Violazioni dei diritti umani di ogni genere sono state confermate anche nell’ultimo rapporto di Yao Agbetse, esperto indipendente dell’ONU. I mercenari hanno respinto tutte le accuse, affermando che queste denunce sono solamente una propaganda occidentale contro la Russia.

Una nuova pedina

Ora che i mercenari sono sotto diretto controllo della Difesa russa e il gruppo ha assunto il nome di Africa Corps, nell’autunno scorso Mosca ha inviato una sua nuova pedina a Bangui, Denis Pavlov, che ufficialmente ricopre un incarico come diplomatico all’ambasciata russa. In realtà, secondo quanto riportato da fonti d’ambasciata e di sicurezza europee, sarebbe un agente del SVR, il servizio di intelligence per l’estero della Federazione Russa.

Secondo All Eyes on Wagner  (un sito incentrato sui mercenari Wagner), l’arrivo del 007 russo sarebbe stato annunciato alle autorità centrafricane con una lettera del capo dell’SVR, Sergei Narychkin. La missione  dei mercenari russi in Centrafrica è piuttosto redditizia: Bangui avrebbe sborsato quasi mezzo miliardo di euro per pagare il gruppo paramilitare di Prigozhin dal loro arrivo nel 2018. Ora sono i servizi segreti russi ad aver ripreso in mano gli affari centrafricani.

Mercenari russi in Centrafrica

Insomma la presenza russa nella ex colonia francese è massiccia, guidata per giunta da personaggi di un certo calibro. E’ dunque ovvio che il governo di Bangui abbia negato il reclutamento di giovani connazionali. Eppure da un’inchiesta intitolata “I fucilieri di Putin” di Jeune Afrique , sito online di attualità sull’Africa, risulta il contrario.

Dalla galera al fronte

Secondo il rapporto del sito, alcune migliaia di giovani africani starebbero combattendo accanto le truppe russe: non solo centrafricani, anche camerunensi, ivoriani e altri.

Un centrafricano, che per questioni di sicurezza ha chiesto di essere chiamato “Alain”, ha raccontato a Jeune Afrique di essersi trovato in una galera di Bangui, con l’accusa di aver rubato una moto. Durante il suo fermo, ha ricevuto la visita di un bianco, poi rivelatosi un russo, che gli ha offerto il suo aiuto per uscire dalla putrida prigione.

Il bianco è riuscito a convincerlo di far parte della sua società, che lo avrebbe mandato in Russia per un corso di formazione di tre mesi come guardia addetta alla sicurezza. Il ragazzo e anche altri detenuti hanno accettato l’offerta. Hanno preso un aereo alla volta di Mosca e durante uno scalo a Dubai a loro si sono aggiunti molti giovani provenienti da diversi Paesi dell’Africa sub sahariana. Secondo Alain, il gruppo, una volta giunto in Russia, era composto da 300-400 africani.

Contratto in russo

Giunti a Mosca, a tutti gli africani è stato poi chiesto di firmare un contratto redatto in russo, lingua a loro sconosciuta. Si sono così trovati incorporati nei ranghi di Wagner a combattere sul fronte in Ucraina. “E’ stato un vero e proprio incubo. Non so come, ma sono riuscito a fuggire in Lettonia. Altri non hanno avuto la mia stessa fortuna”, ha poi concluso Alain.

Secondo i servizi ucraini i giovani “fucilieri africani di Putin” sarebbero diverse migliaia, tra loro moltissimi centrafricani, “supervisionati dal ministro per il Bestiame e la Salute degli animali di Bangui, Hassan Bouba, prezioso alleato di Wagner, oggi Africa Corps”.

Mesi fa sono stati arrestati otto prigionieri di guerra in Ucraina. Tra loro giovani provenienti dal Nepal, da Cuba, dalla Somalia, dalla Sierra Leone. Hanno raccontato di aver risposto a degli annunci di lavoro, perché attratti da salari alettanti, ma di essere stati ingannati e di essersi ritrovati poi sul fronte a combattere in Ucraina. Tutti quanti volevano solo una vita migliore per aiutare la famiglia, rimasta in patria.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Maratona di Chicago: una stratosferica keniana corre come un uomo, batte tutti

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
14 ottobre 2024

“E’ come uno sbarco sulla Luna! Ma è fantascienza! È qualcosa che nello sport non si era mai visto e che noi donne non ci saremmo aspettato. Questa esile atleta che si allena da sola, mamma di una bimba, ha rotto la barriera del limite maschile. Corre come gli uomini più veloci e resistenti sul pianeta”.

Maratona di Chicago: vince la keniana Ruth Chepngetich

Incredulità, stupore, giubilo si sono levati ieri pomeriggio, seconda domenica di ottobre, dai tutti i commentatori al termine della 46a edizione della Bank of America Chicago Marathon 2024.

La vittoria e il record mondiale sui 42,195 km della keniana Ruth Chepngetich, 30 anni, ha lasciato tutti a bocca aperta sulle rive del lago Michigan e nel mondo tutto dello sport. Non solo dell’Atletica.

Terza vittoria

Ruth ha ottenuto la sua terza vittoria nella gara, ha ridotto di oltre quattro minuti il suo precedente record di 2:14:18 (stabilito quando vinse qui nel 2022), ma soprattutto ha abbassato di quasi due minuti il record mondiale, segnando 2:09:56. Chepngetich ha spazzato via il limite assoluto di Tigist Assefa di 2:11:53, stabilito a Berlino l’anno scorso. In tal modo è diventata la prima donna a scendere sotto le 2 ore e 10 minuti.

Solamente nove atleti sono andati più veloci nella gara maschile di domenica! Nella “Windy City”, come viene soprannominata la capitale dell’Illinois, la corsa vittoriosa di questa atleta alta appena 1,65 e di 48 chili di peso, è stata impetuosa, travolgente più del vento. Basti dire che la seconda maratoneta, Sutume Asefa Kebede, 29 anni, etiope, e la terza, Irine Cheptai, 32 anni, del Kenya, sono giunte al traguardo con quasi 7 minuti di ritardo.

Duramente preparata

“Mi sento bene, sono felice e orgogliosa di me stessa – ha dichiarato quasi imbarazzata nell’ intervista alla tv Nbc – A Chicago mi sento a casa mia. È la mia quarta partecipazione e il terzo successo. Ora il mio sogno è realtà. Ringrazio Dio per il record e la vittoria. Mi ero preparata duramente negli ultimi mesi e ce l’ho fatta. Il record mondiale è tornato in Kenya, e dedico questo record mondiale a Kelvin Kiptum”.

John Korir, Kenya, vincitore della Maratona di Chicago

Anche il dominatore della competizione maschile, John Korir, 27 anni, keniano, ha rivolto un commosso pensiero al compianto Kelvin Kiptum, che l’anno scorso a Chicago siglò il primato del mondo (2h00.35). Destinato a una folgorante carriera, Kiptum è tragicamente scomparso l’11 febbraio scorso in un incidente stradale appena 24enne.

Anno funesto

Purtroppo il 2024 è stato un anno funesto per l’Atletica di Nairobi. L’8 ottobre è morto suicida a Iten, nella contea di Elgeyo Marakwet, Clement Kemboi, 32 anni, campione keniano delle siepi. Il 4 ottobre era deceduto in ospedale l’ex maratoneta Samson Kandie, 53 anni, dopo essere stato aggredito da alcuni ladri nella sua casa di Eldoret. Il 6 ottobre è spirato nel Tenwek hospital, della contea Bomet, Kipyegon Bett, un ottocentista di soli 26 anni.

Era stato ricoverato sei giorni prima per insufficienza renale. Nel 2018 era stato squalificato per 4 anni per l’accertato uso di eritropoietina. Il doping è in Kenya una piaga sempre attiva: anche quest’anno sono stati squalificati una decina di atleti: hanno fatto ricorso a sostanze proibite.

Giornata di gloria

Ma torniamo alla giornata di gloria del Kenya sulle rive del Michigan. John Korir si è aggiudicato il titolo maschile in 2:02:43.E’ il secondo tempo più veloce mai registrato a Chicago (dietro al record mondiale di Kiptum). Alle sue spalle si è piazzato Huseydin Mohamed Esa, 24 anni, dell’Etiopia e, terzo, il un altro keniota Amos Kipruto, 32 anni.

La maratona di Chicago si è confermata una delle più veloci e partecipate (50 mila iscritti, 420 italiani, 44 sotto le tre ore) grazie al suo percorso e quest’anno favorita da un clima ideale.

Territorio inesplorato

E’ anche una che remunera bene i vincitori: 100 mila dollari ai primi, 75 mila ai secondi, 50 mila ai terzi. In più c’è un bonus di 50 mila a chi fa un record.

Sono andati alla “piccola” Ruth, che dopo un leggero cedimento al traguardo, si è ripresa e ha cominciato a correre su e giù per la strada avvolta nella bandiera del suo Paese. Anche lei si era resa conto, dopo i telecronisti increduli, che con la sua impresa l’atletica femminile entrava in un territorio inesplorato.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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SPORT: altri articoli li trovate qui

UNIFIL, missione di pace in un Libano in guerra

dal sito Centro per la Riforma dello Stato
Giuseppe Ino Cassini *
13 ottobre 2024

“Meloni: proteggere l’UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon) intitola la stampa in questi giorni arroventati sul confine tra Libano e Israele. Al che molti si domandano: “Ma allora, che ci stanno a fare 12.000 soldati dell’ONU dispiegati lungo la frontiera, se non sono in grado di fermare le armi, anzi vanno protetti loro stessi?!”.

Semplice. La Carta dell’ONU distingue nettamente le missioni di peacekeeping dalle missioni di peace-enforcement. Le prime prevedono l’invio di “caschi blu” muniti di solo armamento leggero per difesa personale, con compiti di interposizione e di soccorso alle popolazioni civili (sminamento, sbarramenti, ricostruzione di opere essenziali, ecc.). Le seconde sono vere e proprie spedizioni armate dell’ONU per fermare i combattenti con la forza.

Peculiarità

L’UNIFIL è una missione di peacekeeping, con alcune peculiarità che la rendono unica nel suo genere. Anzitutto, è composta da una panoplia di quaranta e più nazioni (oltre mille gli italiani), il che non facilita certo le operazioni sul campo.

Inoltre, il “campo” è una fascia di confine dall’orografia tormentata ma geograficamente ristretta: va dal mare al monte Hermon. Dunque, se si aggiungono ai “caschi blu” i tanti miliziani di Hezbollah e i militari libanesi in arrivo, nel sud del Libano si conta un armato ogni sette abitanti (o forse ogni cinque, dopo che decine di migliaia i libanesi sono sfollati in gran fretta verso nord nel timore di essere bombardati).

UNIFIL campo medico

Ogni missione di pace sotto bandiera dell’ONU nasce “a fin di bene”: si ama definirla operazione di “ingerenza umanitaria”. Due parole che però costituiscono un ossimoro: ingerenza è un termine negativo, collegato a uno positivo, umanitaria.

Ambiguità

E come in ogni ossimoro si galleggia nell’ambiguità. Intanto, perché non c’è missione di pace senza la partecipazione di Stati per i quali l’intervento-soccorso risponde anche a propri interessi strategici. Poi perché non c’è missione che non provochi qualche guaio causato dalla presenza di tanti operatori stranieri: inflazione, intrusione nei costumi locali, perfino corruzione.

Difficile evitare la “tentazione del bene” e i suoi effetti indesiderati. Si sa quanto può irritare una vecchietta il boy-scout che l’aiuta ad attraversare la strada, pur di compiere la sua buona azione quotidiana, e poi se ne va lasciandola persa sul marciapiede sbagliato (è ciò che accadde in Somalia con l’operazione “Restore Hope”… quale speranza?!).

La missione dell’UNIFIL, a differenza di altre, è una storia di successo, anche perché la zona d’operazione è abitata al 90 per cento da sciiti, in maggioranza simpatizzanti di Hezbollah (religioso) o di Amal (laico). È bastato, perciò, stringere con i loro leader un patto tacito ma chiaro: “Primo, siamo qui perché a voi sta bene così; secondo, quando non ci volete più, fatecelo sapere per tempo e civilmente, non a suon di bombe”.

Convivenza

Patti chiari, amicizia lunga. In tanti anni laggiù non ho personalmente incontrato nessuno che fosse contrario alla presenza di UNIFIL. Una convivenza, infatti, che dura dal 1978. Le sole perdite subite sono state opera dell’aviazione israeliana, accanitasi più volte contro le postazioni ONU, o del Jihad sunnita incistato in campi profughi palestinesi. (Da notare, però, che i jihadisti perseguivano ben altro fine: umiliare Hezbollah dimostrando che non ha sul territorio il controllo che sostiene di avere; il che fa parte dell’eterna lotta tra sunniti e sciiti).

Caschi blu di UNIFIL

Un’ultima questione. La prima “i” di UNIFIL sta per “interim”. È normale che una missione di peacekeeping ad interim duri quasi mezzo secolo? Evidentemente no, vuol dire che la pacificazione della regione è di là da venire.

Disarmare

La Risoluzione 1701 dell’ONU – votata l’11 agosto 2006 per fermare la guerra scoppiata quel luglio – prevedeva che l’area venisse evacuata da ogni arma al di fuori di quelle in dotazione all’esercito libanese o ai “caschi blu”.

Ovvero disarmare Hezbollah. Era un’opzione praticabile? Lasciare che lo sparuto esercito libanese, in caso di crisi, se la vedesse da solo contro lo strapotere militare del vicino? Senza aviazione, mentre il cielo libanese veniva (e viene) sorvolato da decenni, ogni giorno, da caccia armati di missili già puntati?

Tra Libano e Israele non esistono Stati-cuscinetto. Essendo dunque destinati a una drammatica contiguità, vale la pena ricordare la memorabile massima biblica rivisitata da Woody Allen: “Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello dormirà ben poco”.

Giuseppe Cassini*
ino.cassini@gmail.com

*Giuseppe (Ino) Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino, La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.

Medio Oriente, Biden ora ha un’occasione unica per passare alla storia

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Due appelli a Israele: “Salviamo la vita dei giornalisti di Al Jazeera colpiti a Gaza”

 

Israele, ormai stato chiarito, attacca brutalmente i media. Due giornalisti sono stati uccisi non per errore. Non sono stati “effetti collaterali” dell’aggressione ma obbiettivi precisi colpiti da cecchini dell’esercito israeliano. E’ un comportamento inaccettabile che Africa ExPress condanna con forza, come abbiamo condannato esecrabile omicidio di civili inermi israeliani il 7 ottobre. 

“Riceviamo e volentieri pubblichiamo
questo appello lanciato da Farid Adly
direttore editoriali dei sito Anbamed 

Farid Adly
12 ottobre 2024

Il giornalista palestinese di Gaza, Alì Al-Attar, della redazione di Al-Jazeera,  è stato ferito gravemente il 7 ottobre 2024 durante il bobardamento israeliano sull’ospedale “Shuhadaa Al-Aqsa” di Deir El-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Attualmente è ricoverato nell’ospedale europeo di Khan Younis e versa in gravi condizioni. Ha un’emorragia cerebrale, rottura cranica e nella testa ha ancora delle schegge della bomba.

Il giornalista di Al Jazeera, Alì Al-Attar, gravemente ferito a Gaza

Non è possibile curarlo a Gaza. Necessita di un trasferimento urgente all’estero.

Le richieste della famiglia, dei colleghi e della direzione di Al-Jazeera all’esercito israeliano sono state tutte respinte.

Ti chiedo di esprimere un atto di solidarietà umana e professionale nei confronti di un collega in condizioni di bisogno estremo, per salvargli la vita: far pubblicare sulla propria testata questo appello, diffonderlo sui propri account social e una cosa ancora più efficace scrivere all’ambasciata israeliana in Italia, per chiedere un gesto umanitario.

Farid Adly
Direttore editoriale di “Anbamed, notizie dal sud est del Mediterraneo”
https://www.anbamed.it/2024/10/12/salviamo-la-vita-del-collega-ali-al-attar/

Due giornalisti di Al-Jazeera tra la vita e la morte a Gaza

Qui invece pubblichiamo
la protesta di Rebecca Vincent
dirigente di Reporter senza Frontiere

Reporter Senza Frontiere
Rebecca Vincent
12 ottobre 2024

L’8 ottobre, Ali Ali Attar, cameraman di Al-Jazeera, è stato colpito da un’arma da fuoco nella città di Deir al-El Balah, nel centro di Gaza. Il giorno successivo, Fadi Alwahdi, anch’egli cameraman del canale qatariota, è stato colpito da un cecchino nel campo accerchiato di Jabalia, nel nord di Gaza. Entrambi i giornalisti sono attualmente ricoverati in ospedale in condizioni critiche. RSF condanna questo spudorato bersaglio e i continui attacchi alla sicurezza dei giornalisti.

I due reporter sono stati gravemente feriti dalle forze israeliane mentre coprivano l’assedio dell’esercito israeliano al nord di Gaza e il suo impatto sulla popolazione locale.

Il 9 ottobre, il fotoreporter Fadi Alwahdi, di 24 anni, è stato colpito al collo da un cecchino israeliano mentre riprendeva per Al-Jazeera l’assedio del campo di Jabalia, situato nel nord dell’enclave palestinese. Il giorno prima, l’8 ottobre, Ali Attar, 27 anni, anch’egli cameraman per il canale d’informazione del Qatar, è stato colpito da un attacco israeliano mentre copriva lo sfollamento dei locali in fuga dall’assedio verso Deir al Balah.

“Condanniamo questi ultimi attacchi da parte delle forze israeliane contro giornalisti che cercano semplicemente di fare il loro lavoro raccontando la guerra. Queste ultime notizie sono arrivate mentre eravamo a Ginevra per chiedere, insieme ad Al Jazeera, un’azione urgente delle Nazioni Unite per fermare questa violenza implacabile contro i media di Gaza. Poiché la vita di questi due giornalisti è in bilico, chiediamo all’IDF di garantire loro un passaggio sicuro fuori dal Paese per ricevere senza indugio cure mediche complete. Riteniamo l’IDF pienamente responsabile di ciò che accadrà in seguito.

Rebecca Vincent
Direttore delle campagne di RSF

L’immagine del corpo accasciato a terra di Alwahdi, apparsa in diretta su Al-Jazeera, ha ricordato l’omicidio di Shireen Abu Akleh, la nota corrispondente di Al-Jazeera in Cisgiordania uccisa da un cecchino dell’esercito israeliano a Jenin, una città della Cisgiordania, l’11 maggio 2022. Alwahdi è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Al-Maamadi, nel centro di Gaza, nel pomeriggio del 9 ottobre, prima di essere trasferito in una piccola clinica, dove è stato sottoposto a un primo intervento chirurgico nel pomeriggio dell’11 ottobre. Al-Attar, che ha subito un’emorragia cerebrale, è stato trasportato nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale europeo nel centro di Gaza.

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Israele recluta richiedenti asilo africani per combattere a Gaza

La guerra infuria in Libano anche con la propaganda sui tunnel di Hezbollah nel Sud

Israele si è cacciata in un vicolo cieco

Alla kermesse Cybertech Europe 2024 Israele in primo piano

Alla kermesse Cybertech Europe 2024 Israele in primo piano

Speciale per Africa ExPress
Antonio Mazzeo
12 ottobre 2024

Bombe contro Gaza e Libano, ma Leonardo e le aziende cyber di Israele si danno appuntamento a Roma per rafforzare la partnership nel campo della ricerca e dello sviluppo di sofisticati sistemi ad uso militare.

Cybetech 2024, Roma, 8-9 ottobre

Si è conclusa l’altro giorno a Roma Cybertech Europe 2024, la kermesse delle grandi e piccole aziende internazionali operanti nel sempre più redditizio business della cyber security e delle guerre cibernetiche.

L’appuntamento annuale è organizzato dal gruppo Leonardo SpA e dalla “piattaforma di networking” Cybertech Global con quartier generale a Tel Aviv, alla cui guida siede il noto imprenditore israeliano Joseph “Yossi” Vardi, uno dei pionieri dell’industria di software, internet, telefonia cellulare e delle tecnologie elettro-ottiche dello Stato di Israele, ex direttore generale del Ministero dell’Energia ed ex presidente dell’Israel National Oil Company.

Ospite d’onore della cyber-fiera il neoambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled. In una lunga intervista alla testata Shalom (il magazine della Comunità ebraica di Roma), il diplomatico ha ricordato come l’Italia sia un partner strategico per Israele.

Jonathan Peled,, ambasciatore israeliano accreditato a Roma

“Ritengo fondamentale questa fiera in un momento così delicato”. ha esordito Jonathan Peled. “Nei giorni scorsi abbiamo commemorato il primo anniversario del 7 ottobre. Lo Stato d’Israele sta fronteggiando, ormai da un anno, un periodo difficile. Bisogna tuttavia comprendere che questo periodo buio non riguarda solo Stato ebraico, ma tutti, perché Israele sta combattendo una guerra per salvaguardare la democrazia”.

“Questa non è soltanto la nostra guerra contro il terrorismo islamico, armato dall’Iran – ha aggiunto l’ambasciatore -. Abbiamo bisogno ora più che mai di amici in Europa e in Italia per vincere questo conflitto contro il terrorismo estremista. Il cyber è parte della nostra forza e l’Italia è per noi un partner strategico. Fondamentale per Israele avere aziende in Italia con cui collaborare: il mondo del cybertech è uno dei più importanti settori dello Stato ebraico oggi; questa iniziativa, giunta ormai al suo settimo anno, mira proprio a rafforzare la collaborazione con l’Italia”.

Ancora Shalom ricorda come siano state innumerevoli le aziende e le start up israeliane presenti a Cybertech Europe 2024. “Tra conferenze, sessioni di approfondimento e incontri con esperti del settore, esse hanno dato vita a interessanti confronti sui temi caldi del momento: intelligenza artificiale, cloud, telecomunicazioni, supplychain, energia, privacy, quantum computing e intelligence”, annota il magazine della Comunità ebraica romana.

Alla kermesse di Leonardo & C. israeliane sono intervenuti, tra gli altri, il presidente della holding armiera, Stefano Pontecorvo, nonché l’amministratore delegato e direttore generale, Roberto Cingolani; il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alfredo Mantovano; il sottosegretario alla Difesa, Matteo Perego di Cremnago; il direttore generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi; il Deputy CIO della NATO per la Cybersecurity, Mario Beccia; il direttore del Servizio di Polizia postale, Ivano Gabrielli; il generale Giovanni Gagliano, Capo del VI Reparto Informatica Cyber e Telecomunicazioni dello Stato maggiore della Difesa; il generale di brigata Michele Sirimarco, alla guida del CUFAA (Comando delle unità forestali, ambientali e agroalimentari, i Carabinieri forestali); il colonnello Pietro Lo Giudice del Comando per le Operazioni Spaziali della Difesa, il comandante dell’Aeronautica Militare, Sandro Sanasi.

Nonostante il dispiegamento delle forze dell’ordine in assetto anti-sommossa, il pomeriggio dell’8 ottobre un folto gruppo di manifestanti (attivisti No war, aderenti alle associazioni in solidarietà con il popolo palestinese e studenti universitari) ha protestato di fronte il palacongressi “Le Nuvole” dove era in corso Cybertech Europe. “Sabotiamo il genocidio. Disertiamo la guerra e chi ne guadagna”, il tema-oggetto della protesta contro le industrie degli armamenti e la “speculazione economica sul genocidio in corso in Palestina.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Gli israeliani mattatori alla fiera delle armi tecnologiche a Roma

Israele recluta richiedenti asilo africani per combattere a Gaza

Africa ExPress
11 ottobre 2024

Secondo quanto riportato alcune settimane fa dal quotidiano israeliano Haaretz, lo Stato ebraico avrebbe intenzione di reclutare richiedenti asilo per combattere a Gaza. In cambio il governo avrebbe promesso di regolarizzare una volta per tutte la posizione amministrativa dei migranti disposti a arruolarsi.





Ieri sera Piazza Pulita di Corrado Formigli che va in onda su La7, ha trasmesso questa intervista di Carlo Marsili a un contractor che ha operato in vari Paesi dell’Africa. L’intervista è stata realizzata con la collaborazione e la consulenza di Africa ExPress




In base ai dati dell’autorità israeliane per l’immigrazione, nell’ottobre 2023 erano presenti 23.249 richiedenti asilo (esclusi i sudanesi arrivati durante il conflitto nel loro Paese e gli ucraini fuggiti dalla guerra in atto). Inoltre ci sono quasi 10.000 minori nati nel Paese, figli di coloro che sono in attesa da anni di un permesso di soggiorno definitivo. Secondo la ONG con sede a Tel Aviv, Hotline for Regugees and Migrants (HRM), solo l’1 per cento delle domande d’asilo vengono accolte positivamente.

Shira Abdo, direttrice per le politiche pubbliche di HRM, ha spiegato che molte richieste d’asilo non vengono respinte, ma sospese per cinque, dieci e anche più anni e ciò crea una situazione di “vuoto giuridico”.

Alcune fonti militari avrebbero confermato, mantenendo però l’anonimato, che il reclutamento è organizzato con consulenti legali specializzati nel ramo difesa. In poche parole, affermano che il reclutamento di queste nuove forze avviene in modo del tutto legale. Finora però non è trapelato come le reclute verranno impiegate poi sul campo. Molte ONG dubitano che il governo di Netanyahu mantenga le promesse fatte ai “volontari africani”, cioè di regolarizzare la loro posizione amministrativa.

Reclutamento, in Israele, di giovani richiedenti asilo africani

Uno dei richiedente asilo, intervistato dal quotidiano israeliano, ha spiegato che poco più di un mese dall’inizio del conflitto con Hamas (7 ottobre 2024 ndr) è stato contattato da un poliziotto, chiedendogli di presentarsi quanto prima nel più vicino commissariato. Agenti della sicurezza hanno poi illustrato al ragazzo che stavano cercando profili specifici per l’esercito. Il ragazzo ha raccontato ai reporter di Haaretz che le persone con le quali ha parlato avrebbero sottolineato: “Si tratta di una guerra di importanza vitale per Israele”.

Dopo svariati incontri con le persone addette al reclutamento, al giovane, arrivato nel Paese all’età di 16 anni, è stato proposto un addestramento intensivo di due settimane insieme ad altri in possesso di documenti provvisori come lui. In cambio  avrebbe ottenuto la residenza permanente. “Ho declinato l’offerta, non ho mai tenuto un’arma in mano”, ha poi precisato ai giornalisti che lo hanno intervistato.

Nella speranza di accelerare la loro integrazione, molti richiedenti asilo si sono inizialmente offerti di aiutare in compiti civili dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas. E, secondo Haaretz è stato così che è emersa l’idea di arruolarli nell’esercito e inviarli a Gaza.

Guerra a Gaza

Fino a poco fa il governo di Israele, ha sempre apostrofato i richiedenti africani come “infiltrati”. La maggior parte proviene dal Corno d’Africa – soprattutto eritrei – e dal Sudan (già ben prima che scoppiasse il conflitto nell’ex protettorato anglo-egiziano). Per anni lo Stato ebraico ha fatto di tutto per trasferirli in Paesi terzi come Uganda e Ruanda. Pur avendo sempre negato di aver accolto migranti da Israele, nel 2017 un quotidiano filo governativo di Kampala, “Sunday Vision”, aveva pubblicato in prima pagina: “Israel sends 1.400 refugees to Uganda” (Israele ha inviato millequattrocento rifugiati in Uganda).

Con il prolungarsi del conflitto, Israele è a corto di soldati, tant’è vero che già a giugno la Corte suprema aveva decretato obbligatorio il servizio militare anche per i giovani ultraortodossi, fino ad allora esenti dalla leva. Ed ora il governo recluta anche i tanto disprezzati richiedenti asilo. Molti di loro sono felici di poter servire il Paese ospitante. Un 21enne eritreo ha detto a Haaretz di aver sempre sognato fin da piccolo di arruolarsi nell’esercito, di fare la sua parte e poi di essere israeliano. “Questo è il mio sogno. Chi non sente questa mancanza di appartenenza, può vedere il reclutamento come uno sfruttamento. Chi non ha uno status, non ha altra scelta”, ha poi concluso.

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https://www.africa-express.info/2017/11/28/parola-dordine-israele-per-richiedenti-asilo-detenzione-o-deportazione/

https://www.africa-express.info/2014/04/24/israele-un-inferno-per-profughi-africani-come-cadere-dalla-padella-nella-brace/

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La guerra infuria in Libano anche con la propaganda sui tunnel di Hezbollah nel Sud

 

Speciale per Africa ExPress
Alessandra Fava
9 ottobre 2024

La guerra si combatte anche con la propaganda. L’incursione delle truppe israeliane in Libano all’inizio di ottobre ha prodotto quella che sembra una fake news. L’esercito israeliano, anche per giustificare la morte di 8 soldati nel primo giorno di scontri con Hezbollah nel Libano meridionale, ha divulgato video e immagini in cui si mostrano dei tunnel descritti come scavati dal movimento sciita nel sud del Paese catturati dagli israeliani. Come per Gaza, anche il sud del Libano ha una rete di gallerie che servono come deposito di armi, sede militare e per celare le attività militari. Quanto sia estesa questa rete non è chiaro. Per Gaza si parlava di 350 chilometri di tunnel.

IDF shares footage from operation ‘inside Hezbollah tunnels’

La notizia che IDF avrebbe catturato armi e dispositivi nei tunnel in qualche modo giustificherebbe la vasta operazione di terra in cui Israele si è avventurata. France Press però sostiene che i video siano vecchi e che siano stati girati nella città israeliana di Safed e che il materiale confiscato a Hezbollah sarebbe stato mostrato ai giornalisti e alle telecamere senza precisare quando era stato preso e da che luoghi.

Un giornalista israeliano in effetti sostiene che le immagini sono state girate mesi fa alla presenza di molti giornalisti in una base militare del Nord di Israele con materiale effettivamente confiscato ad Hezbollah in altre operazioni compiute al confine dopo il 7 ottobre 2023.

Hezbollah che ricordiamo ha dei parlamentari regolarmente eletti nel governo libanese – governo adesso in crisi – ha dichiarato che i video sono vecchi: “L’esercito sionista ha pubblicato immagini e film di quello che chiamano depositi e tunnel di Hezbollah nel quadro di una guerra psicologica e di propaganda palese – dice l’organizzazione in un comunicato stampa -. Noi ci teniamo a sottolineare che questi film e immagini sono molto vecchi e non hanno alcun rapporto con alcuna azione militare oggi alla frontiera libanese con la Palestina occupata”.

LOrient Le Jour, quotidiano beirutino in francese, riferisce anche che un esperto di armi – account War Noir – su X ha spiegato che nei video si vedono: missili 9M133F-1 Kornet-E Thermobaric fabbricati in Russia, razzi PG-7-AT-1, missili 9M133-1 Kornet-E HEAT, dei RPG-29 Vampyr, dei mortai HM-14 da 60 mm, delle bombe M61, degli anticarro PG-7VM e dei razzi PG-7VR.

Pourquoi Israël a publié des vidéos de tunnels présumés du Hezbollah au Liban-Sud

Siccome nei video si vede anche una casa che viene distrutta, secondo il gruppo di indagini giornalistiche olandese Bellingcat, alcuni video sono stati girati alcuni mesi fa, quello della casa a febbraio. La deduzione viene fatta comparando immagini satellitari e anche visionando la presenza o meno di umidità per terra.

Certo si deduce che dal 7 ottobre dell’anno scorso, l’esercito israeliano ha fatto diverse incursioni in territorio libanese sequestrando armi e apparati e setacciando i villaggi di confine, senza che le incursioni siano finite nelle prime pagine dei media.

Secondo i chimici libanesi, Israele avrebbe usato bombe all’uranio impoverito per colpire edifici a Beirut

Per il resto mentre Israele ricorda le 1200 vittime dello spietato, disumano e terribile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e i 250 ostaggi (un centinaio ancora nelle mani di Hamas a Gaza), su Beirut continuano a piovere bombe: secondo i chimici libanesi sarebbero state sparate anche ordigni all’uranio impoverito sugli edifici della capitale, a dispetto dei trattati internazionali che prevedono che questo tipo di esplosivi non vengano usati in zone abitate.

Inoltre nella città di Yaroun, nel sud del Libano, secondo quanto verificato dall’agenzia indipendente Ambamed è stata distrutta una moschea.

Hezbollah ha risposto colpendo una casa nella città di Haifa che non veniva raggiunta dalle bombe provenienti dal Libano da vent’anni. Intanto Hamas dalla Striscia sta lanciando missili su Tel Aviv. A Gaza e in Cisgiordania si continua a morire di guerra.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Migranti africani intrappolati e abbandonati nel Libano in fiamme

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
9 ottobre 2024

Fatima, una ragazza proveniente dalla Sierra Leone, ha buttato un cambio di vestiti in una busta di plastica ed è scappata verso la capitale con suo cugino, dopo che un bomba israeliana ha colpito la casa del loro datore di lavoro in Libano. Il padrone è morto sul colpo. Non ha fatto in tempo a rivelare dove teneva i passaporti dei suoi impiegati.

Bombardamenti israeliani in Libano

Fatima e il cugino lavoravano come colf stranieri, e ancora oggi, in Libano questa categoria di impiegati è esclusa dai diritti dei lavoratori. Ai collaboratori domestici viene ancora applicato la Kafala, che vincola la residenza legale alla relazione contrattuale con chi li ha assunti. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro. Se un dipendente rifiuta, decide di abbandonare l’abitazione senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.

Un sistema che equivale a una forma di moderna schiavitù. Per poter lasciare il Paese, tale meccanismo prevede un visto di uscita, per ottenerlo il datore di lavoro deve dare il suo benestare. La kafala è ancora in vigore in diversi Paesi arabi, compreso il Libano.

Ora Fatima e il cugino sono senza passaporto, senza visto di uscita. Si trovano soli nella capitale Beirut, non conoscono l’arabo, disperati, non sanno come tornare a casa. Secondo quanto riportato da AP, il ministero degli Esteri di Freetown sta cercando di capire quanti connazionali si trovino attualmente nel Paese dei cedri per poter emettere certificati di viaggio provvisori per riportarli a casa.

Impresa non semplice, visto che molte compagnie aeree hanno ridotto, o addirittura sospeso temporaneamente i collegamenti con Beirut.

La triste vicenda di Fatima e del cugino è simile a decine di migliaia di altri lavoratori domestici che attualmente si trovano in Libano, Paese dove oggi tutti cercano di mettersi in salvo dalle aggressioni israeliane. Per i lavoratori di origine africana è difficile trovare un rifugio sicuro. Molti di loro sono stati abbandonati dai loro datori di lavoro con l’inasprimento del conflitto e, oltre tutto, senza documenti non possono nemmeno accedere al servizio sanitario statale o a altri prestazioni governative.

Secondo il governo di Beirut, attualmente 1,2 milioni di libanesi hanno abbandonato le proprie abitazioni, ma non ci sono dati affidabili sul numero di stranieri che potrebbero essere stati colpiti dalla crisi in corso. In base alle stime di OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti), in Libano risiedono oltre 175.000 persone provenienti da 98 Paesi. Questi numeri, tuttavia, riflettono solo la situazione precedente all’attuale conflitto tra Israele e gli Hezbollah sostenuti dall’Iran.

Una giovane keniota ha rivelato ai reporter dell’emittente tedesca Deutesche Welle: “A questa gente non importa nulla di noi, ci considerano solamente come macchine da lavoro. Ai miei amici è stato negato l’ingresso nei centri di accoglienza perché non sono libanesi. Siamo bloccati. Non c’è via d’uscita”.

Funzionari delle Nazioni Unite hanno denunciato che la maggior parte dei 900 rifugi governativi per gli sfollati sono ormai al massimo della loro capienza.

Libano: migranti africani abbandonati

Anche Mathieu Luciano, responsabile  di OIM in Libano, ha confermato che migliaia di lavoratrici domestiche migranti sono state abbandonate dai loro datori di lavoro. “Le loro possibilità di accoglienza sono molto limitate”, ha specificato il funzionario di OIM.

Mentre Dara Foi’Elle della ONG libanese  Migrant Workers’ Action, ha sottolineato che molte ragazze migranti lavoravano come domestiche per famiglie della classe media nel Libano meridionale, regione bombardata nelle ultime settimane da Israele nella sua lotta contro Hezbollah. L’esponente della ONG ritiene che le organizzazioni internazionali dovrebbero farsi carico del problema e predisporre quanto prima rifugi anche per i lavoratori stranieri.

Intanto il governo del Kenya sostiene di aver incoraggiato già a luglio i propri connazionali residenti in Libano di registrarsi per essere evacuati. Ma a Nairobi il Dipartimento di Stato per gli Affari della Diaspora (SDDA) ha dichiarato di aver ricevuto solamente 3.500 richieste, e queste soprattutto negli ultimi giorni. Tale cifra rappresenta solo un ottavo di tutti i kenioti che si trovano nel Paese. Alcuni migranti sostengono di aver inoltrato la domanda di rimpatrio già mesi fa ma di non aver ottenuto alcun riscontro.

Abuja ha annunciato di voler rimpatriare non solo i quasi 2.000 nigeriani che si trovano nel Paese mediorientale, ma anche i libanesi con doppia nazionalità. Alkasim Abdulkadir, portavoce del ministero degli Esteri, ha spiegato che il suo governo ha noleggiato un aereo C-130 per evacuarli e riportarli in Nigeria. Un protocollo di partenza è già in atto. Ora si attende il nullaosta delle autorità di Beirut.

Il ministero degli Esteri etiopico ha comunicato martedì che, in risposta al peggioramento della situazione in Libano, sono già stati evacuati 51 connazionali. Inoltre è stato formato un comitato speciale per facilitare i rimpatri, dando priorità a donne e minori.

Il consolato starebbe anche cercando di trasferire i propri cittadini rimasti ancora nel Paese in luoghi più sicuri finchè a quando non saranno effettuate altre evacuazioni.

Libano: Università americana a Beirut

Ma in Libano ci sono anche una novantina di studenti africani, che grazie a una borsa di studio del Scholarship Programm di Mastercard Foundation frequentano l’università americana di Beirut (AUB). I giovani provengono per lo più dal Camerun, Zimbabwe e Uganda. Alcuni hanno già ricevuto il loro biglietto per tornare a casa, il passaporto e soldi in contanti per piccole spese. Il conflitto limita anche il loro corso di studi, che non potrebbero continuare nel proprio Paese, come lo ha spiegato un ragazza camerunense, che sta per diplomarsi in radiologia.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
@RIPRODUZIONE RISERVATA

https://www.africa-express.info/2020/04/25/libano-ragazza-nigeriana-messa-in-vendita-su-internet-dal-suo-datore-di-lavoro/

https://www.africa-express.info/2020/11/13/coronavirus-libano-crisi-economica-costringe-colf-africane-licenziate-a-vivere-in-strada/

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Gaza un anno dopo: il terrore che non ha scosso le coscienze

EDITORIALE
Dalla Nostra Inviata Speciale
Federica Iezzi
di ritorno da Dayr al-Balah (Striscia di Gaza), 07 ottobre 2024

La ragione per cui Israele è in grado di compiere un genocidio e i leader occidentali sono in grado di sostenerlo attivamente, è perché l’impero mediatico mondiale usa costantemente i suoi pugni, in grande favore di Israele.

Cosa stiamo aspettando? L’attesa è tutta concentrata su quell’immagine capace di rompere la complicità, di scuotere le coscienze, di mettere un punto. Quell’immagine così sconcertante che niente sarà più negoziabile. Qual è? Un bambino amputato? Un corpo fatto a pezzi? Una ragazza senza vita buttata sul lato di un edificio? Stiamo ancora aspettando.

Al-Mawasi, Striscia di Gaza [photo credit Al-Jazeera]
La disumanizzazione è un prerequisito della maggior parte delle forme di violenza. Ben prima che venga sganciata una bomba.

Il corpo di un palestinese è una cosa patteggiabile. Un bambino diventa un minore. I morti diventano presunti. I palestinesi di Gaza scompaiono in numeri così alti che diventa impossibile immaginare i loro nomi o le loro canzoni preferite.

Gli articoli della stampa internazionale sono stati praticamente copie carbone dei comunicati dell’esercito israeliano. Le crepe nel consenso filo-israeliano, che aveva cominciato a dare spazio alla realtà palestinese e a parole come occupazione o apartheid, sono scomparse da un giorno all’altro, testimoniando la fragilità di esili vittorie retoriche.

L’insidiosa macchina tattica israeliana continua a indurre disperazione, indebolimento e intorpidimento: bombardamenti incessanti, blocco degli aiuti, continuo spostamento di civili in infiniti ordini di evacuazione, disumanizzando i palestinesi attraverso la politica e la narrativa. Gaza è considerata il posto più pericoloso in cui essere bambini. Gaza ha il più alto numero di bambini amputati nella storia. Gaza è il posto più letale per un giornalista. Gaza è diventata uno dei luoghi più inabitabili del pianeta.

Ciò di cui i sistemi oppressivi non si rendono conto è che impegnarsi nella disumanizzazione – nel pensiero, nella parola, nell’azione, nella politica – è un esercizio lento e isolante.

Il punto di saturazione si avvicina pericolosamente. E’ lì dove la psiche collettiva si ritrae o si normalizza, dove la metrica dell’orrore comincia a cambiare. Cos’è un altro bambino morto di fronte a ventimila? Il traguardo dell’accettabile si è mosso a una velocità vertiginosa.

Nel frattempo, non esiste alcuna risposta palestinese all’aggressione israeliana che sia accettabile. La resistenza non violenta palestinese – che si è scontrata quasi sempre con la violenza israeliana – è delegittimata o ignorata. I movimenti di boicottaggio sono etichettati come oltraggiosi. I manifestanti dei campus, per lo più pacifici e guidati da studenti, sono stati definiti addirittura pericolosi.

Tutti sembrano più pronti a strappare il diritto internazionale e le istituzioni che lo sostengono piuttosto che a imporlo contro Israele. Tutti denunciano come antisemitismo le proteste di massa contro il genocidio, piuttosto che denunciare il genocidio stesso.

Il 7 ottobre, l’assalto a sorpresa del braccio armato di Hamas, non è stato solo un attacco contro Israele. L’evasione di un piccolo gruppo di combattenti armati, da una delle prigioni più grandi e fortificate mai costruite, è stata anche un attacco scioccante all’autocompiacimento delle élite occidentali, alla loro convinzione che l’ordine mondiale – che avevano costruito con la forza – non fosse più né permanente né inviolabile.

Proprio come è successo con gli israeliani, l’attacco di Hamas ha rapidamente smascherato il piccolo fascista contenuto all’interno della politica, dei media, dell’élite religiosa occidentale, che aveva trascorso una vita fingendo di essere il guardiano di una missione civilizzatrice occidentale, illuminata, umanitaria e liberale.

Una linea rossa che non è una linea rossa è, in definitiva, un permesso. Perché la verità è che qualsiasi violazione del diritto internazionale equivale a una rottura che non dovrebbe allarmare solo i palestinesi, ma ogni entità e individuo parte integrante della società.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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Israele si è cacciata in un vicolo cieco

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Elezioni in Mozambico: i quattro candidati alla presidenza della Repubblica e il gas di Cabo Delgado

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
7 ottobre 2024

Tra qualche giorno, il 9 ottobre, il Mozambico torna alle urne per eleggere il capo dello Stato. Dei 28 milioni di abitanti, 17 milioni andranno a votare per il nuovo presidente della Repubblica.

Sarà uno scontro duro e questa volta il FRELIMO rischia di perdere dopo quasi cinque decenni al potere. Il “partito stato” è accusato di brogli elettorali. Brogli confermati anche alle ultime amministrative dell’ottobre 2023 dal tribunale di Maputo, la capitale, ed altri tribunali distrettuali.

Sono quattro i candidati che potranno sostituire il presidente Filipe Nyusi, che ha terminato il secondo mandato: Daniel Chapo, Ossufo Momade, Venancio Mondlane e Lutero Simango.

Mozambico elezioni 2024
Mozambico elezioni 2024, manifestazioni elettorali

Ecco i candidati alla presidenza

Daniel Chapo, 47 anni, è l’aspirante alla presidenza per il FRELIMO (Fronte di liberazione del Mozambico). È il partito al potere dal 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo. Chapo è stato governatore di Inhambane per otto anni, fino al maggio scorso, quando la Commissione politica del Frelimo lo ha nominato segretario generale ad interim.

È avvocato, è stato presentatore in emittenti radio e tv e docente di diritto costituzionale. Gode dell’appoggio di Graça Machel, vedova del primo presidente, Samora Machel, e poi moglie di Nelson Mandela.

La RENAMO (Resistenza nazionale mozambicana), secondo partito del Paese, si presenta con Ossufo Momade presidente del partito dal 2019. Momade, 63 anni, è famoso per l’abbraccio a Filipe Nyusi dopo il terzo accordo che prevedeva il disarmo della “giunta militare RENAMO”, ala armata del partito.

Venâncio Mondlane, 50 anni, invece è uscito dalla RENAMO perché non è stata accettala la sua candidatura alla presidenza. Ha creato un nuovo partito: Podemos (Possiamo).

Nelle ultime amministrative si era presentato come primo cittadino della municipalità di Maputo. La vittoria è stata data al FRELIMO, nonostante la conferma di brogli del tribunale di Maputo e la richiesta della società civile riconteggiare i voti. Mondlane conta molto sul consenso dei giovani, molto attenti ai brogli dopo le esperienze negative delle passate elezioni.

Il quarto candidato è Lutero Simango, 64 anni, del Movimento democratico del Mozambico (MDM), terzo partito del paese.

La vera sfida

Ma la vera sfida, secondo gli osservatori, è tra Daniel Chapo e Venancio Mondlane. Tra il “vecchio” e il “nuovo”. Il potere cinquantennale del FRELIMO condito da corruzione, brogli elettorali e lo scandalo del “debito occulto” (Tuna bonds) hanno portato inflazione e povertà a milioni di persone. E Mondlane cavalca la rabbia dei giovani e dei milioni di nuovi poveri.

Mozambico elezioni 2024
Mozambico elezioni presidenziali 2024, Venancio Mondlane e Daniel Chapo

Nel frattempo negli ultimi anni si è ristretto lo spazio delle libertà individuali e dei media con un aumento dell’autoritarismo. Continuano le minacce ai giornalisti, e nella classifica di Reporters sans frontieres (RSF) il Mozambico scende al 105° posto (103° nel 2023).

Secondo RSF “ La maggior parte delle inserzioni pubblicitarie (nei media ndr) è affidata a grandi aziende statali ereditate dall’economia ipercentralizzata dell’era comunista. Ciò facilita una grande ingerenza nelle decisioni editoriali dei media, sia statali che privati, che hanno poca libertà di critica nei confronti del presidente”.

Il forziere di Cabo Delgado

Nonostante l’intervento delle truppe SADC e dell’esercito ruandese i cantieri di gas naturale di TotalEnergies dal 2021 sono sempre chiusi a causa dell’assedio jihadista a Palma. È un progetto da 20 miliardi di USD. L’unica azienda che riesce a estrarre il gas e liquefarlo (GNL-LNG) è l’italiana ENI. Il gigante petrolifero lavora, infatti, off-shore con la Coral Sul FLNG, liquidificatore galleggiante di gas naturale.

Da febbraio 2024 sono ripresi gli attacchi jihadisti a Cabo Delgado. Terminata la missione militare SADC (SAMIM) rimangono 4.000 soldati ruandesi che cercano di fermare gli attacchi di ISIS-Mozambico e proteggere i cantieri TotalEnergies. Compito che i militari mozambicani non sono ancora in grado di difendere nonostante la formazione militare di Stati Uniti e Unione Europea.

L’opposizione intanto accusa il FRELIMO di essere la causa di tutti i problemi del Paese. Forse, con i voti dei giovani, Mondlane e il nuovo partito Podemos potrebbero dare nuova energia al Mozambico.

Mozambico elezioni 2024 osservatori Moe Ue
Mozambico elezioni 2024 Osservatori Moe Ue

La Missione di Osservazione Elettorale UE

Per garantire la correttezza delle elezioni, la Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione Europea (Moe Ue), su invito delle autorità mozambicane, come nel 2019, ha inviato nel Paese una squadra di 170 osservatori. Provengono da 24 Paesi europei, Italia compresa, tra questi anche Svizzera e Norvegia e perfino dal Canada. Rimarranno nel Paese africano fino alla conclusione del processo elettorale che prevede la possibilità di un secondo turno.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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