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Autobotti di carburante dal Niger in aiuto del Mali ridotto alla fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
30 novembre 2025

Basta file ai distributori di benzina a Bamako. Il Niger è venuto in aiuto al Mali e ha inviato 82 autocisterne di carburante al Paese amico. Entrambi gli Stati e il Burkina Faso hanno fondato AES (Alleanza degli Stati del Sahel) e all’inizio dell’anno sono usciti definitivamente da ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). E’ la prima operazione di AES dall’inizio del blocco degli islamisti di JNIM (Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani, legato a al Qaeda), cominciato i primi di settembre sulle maggiori arterie stradali in Mali.

Niamey – Bamako: arrivano le autocisterne con carburante

Il tragitto che ha dovuto percorrere il convoglio, accompagnato dai militari, non era certo breve: sono quasi 1.400 chilometri che separano Niamey da Bamako. Ma ne è valsa la pena. Gli abitanti di Bamako hanno finalmente un po’ di respiro e le attività possono riprendere a pieno ritmo. Chissà però fino a quando. La gente teme che il blocco di JNIM possa inasprirsi nuovamente.

Da 50 giorni senza combustibile

Se la capitale maliana per il momento è tranquilla (secondo gli analisti la sola capitale necessiterebbe però di almeno 150 cisterne di carburante al giorno), altre città del Paese sono ancora a secco. E’ il caso di Mopti (centro del Mali). Da oltre 50 giorni i residenti sono senza carburante, senza energia elettrica. Nella stessa situazione si trovano altre città nel sud e nel centro del Paese, anche se il governo ha promesso il trasporto di idrocarburi nei centri abitati maggiormente colpiti.

La situazione sarebbe migliorata, secondo un economista maliano, grazie alle procedure di sdoganamento più veloci e nuovi dispositivi di sicurezza in collaborazione con Africa Corps (soldati di ventura russi che hanno sostituito Wagner). Il nuovo contingente è direttamente controllato dal ministero della Difesa di Mosca.

Il governo maliano ha siglato un nuovo accordo con le società di trasporto per velocizzare le questioni amministrative. Secondo le autorità di Bamako, il ritardo delle consegne del carburante sarebbe dovuto soprattutto alle lungaggini burocratiche e a frodi (furto di carburante destinato al mercato nero), piuttosto che al blocco dei jihadisti.

Potenze straniere

Dall’inizio di settembre il governo ha sempre cercato mille scuse per giustificare la mancanza di combustibile. Una volta è colpa della stagione delle piogge, poi degli operatori del settore, dei truffatori e naturalmente nel calderone dei responsabili non mancano le potenze straniere, “sponsor dei terroristi”.

E mentre i bamakesi si godono l’attimo di tregua, l’esercito maliano (FAMa) con Africa Corps continua a seminare morte.

Africa Corps e militari in azione

Contrariamente a Wagner, il nuovo contingente si è mosso con più cautela nell’ex colonia francese. Fino a poco fa ha partecipato a poche operazioni congiunte con l’esercito di Bamako nel sud del Paese. Solo da novembre Africa Corps ha iniziato a collaborare attivamente per quanto riguarda la scorta ai convogli delle autocisterne.

Infatti la giunta militare, capeggiata da Assimi Goïta, e Africa Corps si sono concentrati per lo più sul il controllo delle miniere aurifere, spesso in mano a JNIM e EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara).

Infatti, malgrado il blocco stradale dei jihadisti, a metà novembre l’esercito, sostenuto dai soldati di ventura, ha riconquistato il sito minerario di Intahaka nella regione di Gao (nel nord). Mosca è particolarmente interessato all’oro maliano, visto che recentemente la società russa Yadran ha stretto una partnership con Bamako per la costruzione di una nuova raffineria d’oro nel Paese, che dovrebbe trasformare 200 tonnellate d’oro all’anno.

Silenzio di FAMa

Secondo testimonianze di alcuni abitanti e una organizzazione per i diritti umani locale, raccolte da RFI, nella area di Goundam, regione di Timbuktù, i soldati di Bamako in collaborazione con i russi di Africa Corps avrebbero brutalmente ammazzato 13 persone in una sola giornata. Tra le vittime ci sarebbero anche due donne e due bambine. Alcune abitazioni e negozi sarebbero stati saccheggiati e incendiati. Ovviamente l’esercito maliano è rimasto in religioso silenzio e non ha dato seguito alle domande dei reporter della testata francese.

Africa Corps in Mali

Lo Stato maggiore ha però rivendicato immediatamente la distruzione di un deposito di carburante dei terroristi nella regione di Mopti. Mentre un altro, situato in una base di miliziani, sarebbe stato colpito durante un attacco aereo nella zona di Menaka, nel nord-est del Paese.

Riduzione organico

A fine novembre la Francia ha annunciato una riduzione del proprio personale diplomatico e consolare in Mali. Saranno rimpatriati anche parte degli insegnanti delle scuole francesi di Bamako. Visto lo stato di insicurezza, le ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già evacuato a fine ottobre l’organico non strettamente necessari e le loro famiglie.

Certo, le implicazioni di una tale misura son ben più importanti per Parigi che non per Washington e Londra. Anche se la Francia ha pessimi rapporti con la giunta militare salita al potere nel 2020, ci sono ben 4.300 connazionali iscritti nelle sue liste consolari, tra questi una larga maggioranza di persone con doppia cittadinanza.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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Tra farsa e tragedia un imam di Torino arrestato: libertà d’opinione a rischio anche in Italia

 

L’imam di Torino Mohamed Shahin aveva definito “resistenza” l’attacco del 7 ottobre.
Troppo per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ne ha disposto l’arresto
e il trasferimento nel CPR di Caltanisetta, in attesa della successiva espulsione
in Egitto, dove rischia carcere e torture, essendo un noto dissidente del regime di al-Sisi.
Nel Paese nordafricano è inoltre in vigore, e viene praticata,
la pena di morte. Shahin a Torino ha una moglie e due figli, nati in Italia

Federica D’Alessio
Roma, 29 novembre 2025

Succede il 9 ottobre scorso. Un imam di Torino, partecipando a una manifestazione contro il genocidio a Gaza, dice una serie di cose sul 7 ottobre; non diverse da quelle che hanno già detto migliaia di persone prima di lui, tanto che la Digos, presente sul posto, manco ci fa caso. All’interno di queste cose c’è una frase che gli scappa che è un po’ più forte delle altre, si rende conto pressoché immediatamente che potrà essere usata contro di lui e infatti lo dice subito ai giornali, dal palco stesso: riportatele tutte le mie frasi, non solo quelle che vi fanno comodo per farmi sembrare un sostenitore di Hamas!

 

L’imam di Torino, Mohamed Shahin

Due giornalisti di un giornalino locale, detto La Stampa, nasano che ne può nascere una succosa polemica – non sussistono altre ragioni per trasformare in notizia ciò che notizia non è – e ci fanno un pezzo, interpellano ovviamente la Comunità ebraica locale e a dire il vero persino dentro la Comunità ebraica trovano una certa ritrosia a scagliarsi contro l’imam, pur condannando ovviamente le sue parole, ma dicono “non potete rivolgervi sempre a noi”, insomma è chiaro a chiunque non sia ormai un’analfabeta funzionale che siamo di fronte a un caso montato ad arte.

Appello del vescovo di Pinerolo, Derio Olivero

Il problema è che gli analfabeti funzionali sono milioni, in questo Paese, e stanno nei posti di comando, anche dei giornali.

Una parlamentare di Fratelli d’Italia annusa a sua volta il succoso caso da manuale e ci fa un’interrogazione parlamentare, e che succede?

Il ministro dell’Interno scavalca il potere giudiziario, scavalca anche le leggi, e decide con un atto di imperio che per una sola frase a fronte di tutta una vita vissuta in base a valori più che riconoscibili, un uomo incensurato, mai fautore della minima provocazione, addirittura garante dell’ordine pubblico durante le manifestazioni oltre che del dialogo inter-religioso, è da considerare un pericoloso terrorista partidario di una ideologia antisemita, seppure in alcun modo le frasi del soggetto in questione abbiamo mai neanche lontanamente fatto riferimento all’identità o alla soggettività ebraica.

Con atto amministrativo, lo priva di tutti i diritti politici e della libertà personale, rinchiudendolo in un CPR lontano oltre mille chilometri da casa sua.

La vita di un uomo finisce rovinata, oppositore politico del regime di Al Sisi, l’imam rischia di essere riportato a forza nel territorio in cui non vive più da 20 anni, gettato in pasto ai lupi, nelle braccia di un regime dittatoriale che non aspetta altro che perseguirlo, perché in Italia vige la legge non scritta: “Se non sei un potente, tutto quello che dici potrà essere usato contro di te”.

La prima legge del sistema tribale.

Benvenuti nell’anno 1 del Regime totalitario e neoarcaico italiano.

Federica D’Alessio
https://x.com/federdale?s=21

Mohamed Shahin, “colpirne uno per educarne cento”

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Alla faccia di Giulio Regeni, si rafforza la collaborazione militare Italia – Egitto

Dal Nostro Redattore Difesa
Antonio Mazzeo 
28 novembre 2025

Nonostante gli screzi e le tensioni (più formali che sostanziali) dovute all’irrisolto caso di Giulio Regeni, la collaborazione militare tra Italia ed Egitto prosegue e si rafforza imperterrita. A metà novembre, nell’ambito degli scambi bilaterali di esperienze e conoscenze nel settore dell’artiglieria controaerea, si è conclusa la visita della delegazione di militari appartenenti alla difesa aerea delle forze armate egiziane, con attività dimostrative organizzate dal 17° Reggimento Artiglieria Controaerei “Sforzesca” di stanza a Sabaudia (Latina).

Delegazione egiziana

“Il comandante del Reggimento, colonnello Nicola Capozzolo, ha ricevuto la delegazione e illustrato le capacità esprimibili dalla specialità controaerei dell’esercito”, rende noto lo Stato Maggiore della Difesa.

Visita di una delegazione egiziana al comando artiglieria contraerei

L’attività è proseguita con la visita della caserma “Santa Barbara”, sede del Comando dell’Artiglieria controaerei, dove gli ufficiali egiziani hanno assistito alle attività addestrative dello “Sforzesca”. Successivamente la delegazione nel vicino poligono di tiro di Foce Verde, dove si è svolta un’esercitazione militare con l’impiego di mini e micro aeromobili a pilotaggio remoto.

“La visita si è conclusa con il saluto del generale di brigata Mattia Zuzzi, comandante della specialità controaerei, che ha auspicato l’intensificazione delle attività di cooperazione bilaterale”, spiega lo Stato Maggiore italiano.

La missione degli ufficiali egidiziani nella provincia di Latina è avvenuta alla vigilia di EDEX 2025,una delle più grandi esposizioni di sistemi bellici mai realizzata in africa e nell’area mediorientale.

EDEX 2025, Cairo

La kermesse è prevista dall’1 al 4 dicembre al Cairo e sarà inaugurata dal presidente Abdel Fattah Al Sisi, Comandante supremo delle forze armate egiziane.

Ad EDEX 2025 parteciperanno le maggiori aziende del comparto militare industriale italiano. Tra gli espositori “eccellenti” spiccano le holding a capitale statale Fincantieri SpA (gold sponsor di EDEX 2025) e Leonardo SpA (leading brand dell’esposizione). Ci sono poi ELT Group (Elettronica SpA di Roma), C.E.I.A. SpA di Arezzo, Panaro di Modena e il maggiore consorzio europeo produttore di sistemi missilistici, MBDA (platinum sponsor), di cui Leonardo controlla il 25% del capitale azionario.

Ministro Difesa al Cairo

Il 2025 ha segnato il rafforzamento delle relazioni militari industriali tra Italia ed Egitto. Il 30 e 31 luglio il ministro della Difesa Guido Crosetto ha effettuato una visita ufficiale nello Stato nord africano, incontrando il presidente Abdel Fattah Al-Sisi e il ministro della Difesa e Comandante in capo delle forze armate, generale Mageed Saqr.

Dall’1 al 10 settembre, nelle acque antistanti la città di Alessandria si è svolta invece Bright Star 25, una grande esercitazione militare cui hanno partecipato le forze armate di 43 Paesi, 30 in qualità di osservatori e 13 impegnati direttamente nell’esercitazione: tra questi spiccano Stati Uniti, Egitto, Arabia Saudita, Qatar, Grecia, Cipro ed Italia.

Bright Star 25

A Bright Star 25, la marina militare italiana ha schierato l’unità d’assalto anfibio multiruolo “Trieste”, la fregata missilistica Fremm “Fasan”, nave ammiraglia dell’operazione Mediterraneo Sicuro e alcune unità della Brigata “San Marco” di Brindisi.

Le attività della Bright Star sono state condotte in due fasi: la prima, dall’1 al 6 settembre, in porto ad Alessandria d’Egitto, con incontri e conferenze su temi come la guerra elettronica, la cyber security, le attività anfibie, le procedure di abbordaggio, le minacce asimmetriche.

La seconda fase ha preso il via il 7 settembre con quattro giorni di intense attività addestrative in mare aperto con simulazioni di lotta anfibia, anti-aerea e subacquea, Electronic Warfare Exercise, prove di tiro in poligono.

Antonio Mazzeo
amazzeo61@gmail.com

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Colpo di Stato in Guinea Bissau: militari al potere

Africa ExPress
Bissau 26 novembre 2025

Fino a poche ore fa non era chiaro se i putschisti che hanno preso il potere in Guinea Bissau avessero il sostegno di tutte le forze armate e se avessero il controllo su tutto il Paese.

Ora tutti i dubbi sono svaniti. Nella giornata odierna, il generale Horta N’Tam (fino a poche ore fa è stato capo maggiore dell’esercito), ha prestato giuramento come presidente di transizione della Guinea-Bissau dopo un colpo di Stato organizzato appena chiusi i seggi della tornata elettorale di domenica scorsa.

Transizione di un anno

Durante una breve e sobria cerimonia, senza inno nazionale, in una sala conferenze all’interno del quartier generale dell’esercito vicino al porto della capitale Bissau, i rappresentanti dei tre corpi militari – esercito, aeronautica e marina – hanno nominato ufficialmente il nuovo presidente.

Horta N’Tam, il nuovo presidente di transizione della Guine Bissau

Il nuovo capo di Stato ha chiarito che il golpe era necessario per sventare un complotto architettato dai “narcotrafficanti”. Ha poi aggiunto che la transizione durerà un anno, con inizio immediato. Da ieri sera tutto il Paese è sotto controllo dei militari.

Subito dopo l’insediamento del nuovo presidente sono state riaperte tutte le frontiere ed è stato tolto il coprifuoco notturno imposto mercoledì. Ma i militari hanno vietato manifestazioni, marce di protesta e scioperi.

Nel Paese la corruzione è endemica. Occupa il 158° posto su 180 Paesi nel 2024, secondo l’indice di percezione della corruzione dell’ONG Transparency International. Questo malcostume, l’instabilità politica e la povertà hanno favorito l’insediamento di narcotrafficanti che utilizzano la Guinea Bissau come zona di transito della cocaina tra l’America Latina e l’Europa.

Il Paese è tra i più poveri al mondo: il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. L’aspettativa di vita è di 64 anni.

Ecco i fatti di ieri

Durante la giornata di ieri un gruppo di alti ufficiali ha annunciato alla TV di Stato di aver preso il totale controllo del Paese. I putchisti hanno dichiarato di aver arrestato il presidente in carica, Umaro Sissoko Embalo e di aver ordinato la sospensione del processo elettorale fino a nuovo ordine. I golpisti si sono autoproclamati Alto Comando Militare per il Ripristino dell’Ordine.

Sono seguite le dichiarazioni di rito dopo ogni golpe, come chiusura delle frontiere, dello spazio aereo e un coprifuoco notturno. Secondo quanto riferito poco fa da al Jazeera, internet sta per essere bloccato.

Strade bloccate

In una telefonata a France 24, Embalo ha detto ai reporter dell’emittente francese di essere stato deposto, precisando di trovarsi attualmente nel quartier generale dello Stato maggiore. Oltre al presidente uscente è stato arrestato anche Domingos Simoes Pereira, leader di PAIGC (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde), maggiore partito dell’opposizione.

Nella giornata di oggi Embalo è stato liberato. Attualmente si trova in Senegal, dove è stato trasferito con un aereo noleggiato da ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale).

Colpo di Stato in Guinea Bissau: 26 novembre 2025

Fernando Dias, il principale sfidante di Embalo alle elezioni, ha fatto sapere di essere libero e al sicuro dopo che alcuni uomini armati hanno cercato di arrestarlo.

Verso le 12.00 ora locale si sono sentiti degli spari nei pressi del palazzo presidenziale. Subito dopo i militari hanno chiuso le strade principali che portano alla residenza della massima carica dello Stato e le vie d’accesso verso il ministero degli Interni e verso l’edificio che ospita la Commissione elettorale nazionale.

Annuncio golpe da capo guardia presidenziale

L’annuncio del golpe è stato dato da Denis N’Canha. L’ufficiale era a capo della guardia presidenziale. Invece di proteggere Embalo, lo ha mandato in galera.

Solo un mese fa l’esercito della Guinea Bissau aveva annunciato di aver sventato un “tentativo di sovversione dell’ordine costituzionale e di aver arrestato diversi ufficiali”. 

Domenica scorsa si sono tenute le presidenziali nella ex colonia portoghese, i risultati del vincitore erano attesi per giovedì, 26 novembre. Martedì, Fernando Dias da Costa, candidato indipendente, ha dichiarato di aver vinto le elezioni.

Mentre Oscar Barbosa, portavoce della campagna elettorale di Embalo, ha sostenuto che il presidente uscente sarebbe il vero vincitore. Entrambi i candidati hanno dichiarato di aver conquistato la poltrona più ambita del Paese giorni prima che uscissero i risultati ufficiali.

La legittimità delle elezioni di domenica è stata messa in discussione da diversi gruppi della società civile e altri osservatori dopo che PAIGC è stato escluso dalla tornata elettorale.

Condanna di ONU, UA e ECOWAS

Immediate le razioni dell’ONU e delle Organizzazione regionali – Unione Africana e ECOWAS.

Il segretario generale, Antonio Guterres ha condannato il golpe, chiedendo l’immediato ritorno all’ordine costituzionale.

In una dichiarazione congiunta UA e ECOWAS hanno espresso la loro preoccupazione per quanto sta accadendo in Guinea Bissa e hanno dichiarato che anche alcuni funzionari della Commissione elettorale sono stati arrestati, chiedendo il loro immediato rilascio.

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Sudafricani intrappolati nella guerra Russia-Ucraina

Africa ExPress
Pretoria, 25 novembre 2025

Duduzile Zuma-Sambudla, una delle figlie dell’ex presidente sudafricano Jacob Zuma, e deputata del partito Umkhonto we Sizwe (MK) è accusata di aver arruolato con falsi pretesti 17 giovani sudafricani e di averli inviati a combattere per conto della Russia.

Implicata figlia di Zuma

Nkosazana Bonganini Zuma-Mncube (altra figlia di Zuma da madre diversa) ha denunciato che la sorella avrebbe consegnato i giovani sudafricani a dei mercenari russi per combattere in Ucraina. Sostiene che i giovani sarebbero stati all’oscuro di essere stati arruolati e di non dato il loro consenso. In pratica sono stati catapultati in guerra, costretti a scontrarsi con soldati ucraini.

Duduzile Zuma-Sambudla, una delle figlie dell’ex presidente sudafricano Jacob Zuma

In un breve comunicato rilasciato sabato scorso, Nkosazana Bonganini Zuma-Mncube ha scritto di aver esposto una denuncia contro la sorellastra. Il fatto è stato confermato dalla polizia sudafricana.

Maretta in famiglia, visto che anche 8 dei 17 giovani sarebbero parenti dei Zuma. Tutti sarebbero andati in Russia con la promessa che laggiù avrebbero ricevuto un addestramento militare adeguato. Sarebbero poi riusciti a trovare lavoro come guardie del corpo in seno al partito MK.

In base a quanto riferito dalla stampa sudafricana, nella querela la donna ha pure accusato un uomo, molto vicino al padre. Tale personaggio sarebbe comandante delle reclute e presente sul fronte russo.

Ora spetta alla polizia sudafricana investigare se le accuse corrispondono ai fatti.

SOS al governo

All’inizio del mese di novembre la presidenza sudafricana aveva già ricevuto richieste d’aiuto di 17 connazionali (di un’età compresa tra i 20 e 39 anni) che si sono arruolati nelle forze mercenarie nel conflitto tra Russia e Ucraina. Gli uomini sarebbero intrappolati nella regione del Donbas. Allora non era ancora chiaro per quale parte implicata nel conflitto stessero combattendo.

Mercenari sudafricani combattono con i russi nel Donbas

Senza autorizzazione esplicita di Pretoria, lavorare o combattere come mercenari per conto di un altro governo è illegale in Sudafrica.

Attratti da lauti guadagni

Il portavoce del governo Pretoria, Vincent Magwenya, aveva spiegato all’inizio del mese che il Sudafrica starebbe lavorando tramite “canali diplomatici” per garantire il ritorno dei giovani. Aveva poi aggiunto che sicuramente si sarebbero arruolati per i lauti guadagni promessi.

Il Sudafrica ha un tasso di disoccupazione superiore al 30 per cento e, secondo alcuni analisti, tale percentuale è ancora più elevata tra i giovani, rendendoli dunque inclini a reclutamenti da parte di stranieri.

Africane in fabbriche di armi russe

Lo scorso agosto, il governo sudafricano aveva lanciato un appello alle giovani donne di non cadere nella trappola di eventuali opportunità di lavoro all’estero, promosse sui social media, in particolare in Russia.

Grazie a un’indagine della BBC è stato scoperto che alcune giovani donne sono state assoldate e portate nella zona di Alabuga, nella Repubblica autonoma del Tatarstan in Russia, per lavorare in una fabbrica di droni.

Si stima che oltre 1.000 donne siano state reclutate in Africa e in Asia meridionale per lavorare nelle fabbriche di armi nell’area Alabuga.

Tempo fa l’Ucraina aveva dichiarato di detenere cittadini di vari Paesi africani in campi di prigionia.

Ma anche Kiev è stata accusata di aver tentato di reclutare cittadini stranieri.

Nel 2022, il ministero degli Esteri del Senegal aveva persino convocato l’ambasciatore di Kiev per chiedere la rimozione di un post pubblicato dalla rappresentanza ucraina a Dakar su Facebook, volto all’arruolamento di giovani senegalesi.

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Aumentano i giovani africani prigionieri di guerra in Ucraina

Milioni di dollari di Trump a eSwatini e Guinea Equatoriale per disfarsi dei rifugiati

Africa ExPress
24 novembre 2025

ESwatini, piccolo Paese dell’Africa meridionale, governata da Mswati III, l’ultimo monarca assoluto del continente (e forse del mondo) ha ricevuto 5,1 milioni di dollari dagli Stati Uniti. La somma è stata versata al monarca perché accolga cittadini di Paesi terzi espulsi dall’amministrazione Trump. Un accordo in tal senso è stato siglato dalle parti a maggio a Mbabane.

Finora gli USA hanno spedito nel piccolo regno almeno 15 “persone indesiderate”. Le prime cinque sono arrivate nel luglio di quest’anno, le altre 10, invece, sono state trasferite a ottobre. I deportati sono a tutt’oggi nelle galere di eSwatini.

Spediti in galera

A luglio la portavoce del dipartimento di Sicurezza nazionale, Tricia McLaughlin, aveva precisato che i detenuti portati forzatamente nelle carceri del Paese dell’Africa meridionale provengono da Vietnam, Giamaica, Cuba, Yemen e Filippine. Erano stati condannati negli USA per svariati crimini gravi.

Infine aveva sottolineato: “Sono individui talmente barbari, che nemmeno i loro Paesi di origine li hanno voluti accogliere”. Nel frattempo però un jamaicano è stato trasferito nel suo Paese di origine.

Ministro finanze conferma

Washington, pur di disfarsi dei rifugiati, ha aperto il portafoglio. La conferma del versamento dei 5,1 milioni di dollari è arrivata dal ministro delle Finanze, Neal Rijkenberg, il quale però ha precisato di non conoscere ulteriori dettagli, in quanto la transazione è stata gestita dal primo ministro.

USA deporta rifugiati alla volta di eSwatini, (ex Swaziland)

Human Rights Watch ha dichiarato già a settembre di aver visionato una copia dell’accordo secondo cui il piccolo regno sarebbe disposto a accettare fino a un massimo di 160 deportati dagli USA. La somma è stata elargita per potenziare la “capacità di gestione delle frontiere e delle migrazioni” del Paese.

USA alla ricerca di Paesi consenzienti

Oltre a eSwatini, altri governi africani, come Sud Sudan, Ghana e Ruanda hanno accettato “migranti indesiderati” dagli USA.

Il diritto internazionale vieta il trasferimento di migranti irregolari verso nazioni in cui rischiano la tortura o l’esecuzione. Intanto Washington sta lavorando per espandere le deportazioni verso altri Paesi.

Soldi anche al regime di Obiang

Intanto Washington non ha esitato a inviare 7,5 milioni di dollari alla Guinea Equatoriale, uno dei regimi più repressivi e corrotti al mondo.

La senatrice democratica della Commissione Affari Esteri del Senato, Jeanne Shaheen, ha affermato che l’amministrazione Trump ha versato l’ingente somma al governo della Guinea Equatoriale nell’ambito di un’iniziativa volta a espellere alcune persone verso il Paese dell’Africa occidentale.

Senatrice USA denuncia

In una lettera inviata al segretario di Stato Marco Rubio, la senatrice ha sottolineato che “il versamento piuttosto insolito, a uno dei governi più corrotti al mondo, solleva serie preoccupazioni circa l’uso responsabile e trasparente del denaro dei contribuenti americani”.

Teodor Obiang, presidente della Guinea Equatoriale

La somma destinata a Malabo sarebbe infatti stata prelevata da un fondo, istituito dal Congresso per rispondere alle crisi umanitarie. La senatrice ha messo in dubbio che il denaro sia stato utilizzato appropriatamente in questo ambito.

Interessi economici

Oltre alle espulsioni, gli Stati Uniti stanno cercando di contrastare l’influenza cinese in Guinea Equatoriale e di promuovere gli interessi commerciali americani nel settore petrolifero e del gas nel Paese.

Nonostante le ricchezze provenienti da petrolio e gas, oltre il 70 per cento dei quasi 2 milioni equatoguineani vive in condizioni di povertà. Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, al potere dal 1979, è il presidente più longevo dell’Africa e non esita a usare la forza per restare al potere.

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Trump non demorde: migranti deportati a eSwatini (ex Swaziland)

Cooperazione militare Russia-Guinea Equatoriale: sbarcati i primi istruttori a Malabo

USA deporta profughi africani indesiderati dell’Africa in Ghana

Progetto TERRA: Italia, ONU e UE stanziano 110 milioni di euro in settore agroalimentare sostenibile in Africa

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
22 novembre 2025

Si chiama TERRA, acronimo di “Transforming and Empowering Resilient and Responsible Agribusiness” (Trasformare e potenziare un’agricoltura resiliente e responsabile).

È un progetto promosso da FAO (Organizzazione ONU per l’alimentazione e l’agricoltura, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Unione Europea (UE) intende aiutare i Paesi del Nord Africa, Africa sub-sahariana e Turchia.

Micro, piccole e medie imprese

Presentato a Roma l’11 novembre scorso, TERRA ha come target le micro, piccole e medie imprese agroalimentari private (MSME) e cooperative nei paesi beneficiari. 

Le MSME, nei Paesi a basso è medio reddito, hanno difficoltà a ottenere credito dalle banche locali.

Progetto TERRA
Contadine in Africa

Il settore agroalimentare è considerato a rischio a causa dei cambiamenti climatici e continuo aumento dei prezzi delle materie prime.

La FAO conferma che agricoltura, silvicoltura e pesca sono fondamentali per la produzione di cibo e per la creazione di posti di lavoro. Contribuiscono, infatti, al 17 per cento del prodotto interno lordo dell’Africa sub-sahariana e rappresentano un settore importante da finanziare.

Centodieci milioni

L’accordo tra CDP, UE e FAO prevede un fondo fino a 110 milioni di euro e fino a cinque milioni per l’assistenza tecnica. La possibilità di ottenere il finanziamento scade nel maggio 2028 e viene erogato come prestito alle aziende che investono in agricoltura sostenibile.

Per il momento non sono menzionati i Paesi che possono ottenere il prestito. Il sostegno economico è diretto alle istituzioni finanziarie africane che erogheranno il prestito alle MSME locali.

Assistenza mirata

“Il nostro ruolo sarà quello di fare leva sull’expertise tecnica della FAO nei settori dell’alimentazione, dell’agricoltura e della finanza – ha dichiarato QU Dongyu, direttore generale della FAO -. Lo facciamo per sostenere le istituzioni finanziarie locali attraverso un’assistenza mirata”.

Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti: “L’accordo di partenariato firmato tra CDP e FAO rappresenta un passo fondamentale per l’attuazione del programma TERRA”.

“Sostenuto dalla garanzia dell’UE nell’ambito dell’EFSD+ (Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile plus, ndr) e parte della strategia Global Gateway, TERRA consentirà a CDP di mobilitare nuove risorse finanziarie per ampliare l’accesso al credito lungo la catena del valore agroalimentare – conclude Scannapieco”.

 

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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Piano Mattei per l’Africa: asso pigliatutto per quattro privati in agricoltura, energia e innovazione tecnologica

Attacchi continui e blocco economico: il Mali nella morsa dei jihadisti

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 novembre 2025

JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei Musulmani), formazione creata nel marzo 2017, che raggruppa diverse sigle della galassia dei terroristi del Sahel, dai primi di settembre tiene sotto scacco la giunta militare del Mali.

Leader del JNIM è il 67enne Iyad Ag Ghaly, ex diplomatico maliano (è stato consigliere culturale di Bamako a Gedda, Arabia Saudita) e vecchia figura indipendentista tuareg. Diventato in seguito capo jihadista, Iyad ha fondato Ansar Dine, in italiano ausiliari della religione (islamica).

Uomo più ricercato del Sahel 

Da tempo l’uomo più ricercato in tutto il Sahel, è sotto sanzioni delle Nazioni Unite ed è iscritto nella lista americana dei terroristi. Su di lui pende anche un mandato d’arresto, spiccato dalla Corte Penale Internazionale (CPI), per crimini di guerra e contro l’umanità.

Iyad Ag Ghaly, fondatore e leader di JNIM

Secondo molti ricercatori, il Sahel è diventato l’epicentro dell’espansione jihadista in Africa e l’avanzata dei terroristi legati ad al Qaeda sembra inarrestabile. Appare come frutto di una strategia ben ponderata e pazientemente attuata. A suo tempo né i militari francesi, né ora tantomeno i golpisti, al potere in Mali, Niger e Burkina Faso (che pure sono aiutati dai mercenari russi), sono riusciti a fermare i miliziani di JNIM.

Il nuovo contingente di soldati di ventura è direttamente controllato dal ministero della Difesa di Mosca. Ma in pratica hanno cambiato solo la divisa. Anzi, meglio solamente lo scudetto sul braccio.

Sotto la guida di Iyad Ag Ghaly, il raggruppamento terrorista sta mettendo in ginocchio il governo di Bamako a causa dei blocchi stradali che impediscono il passaggio di autocisterne per il rifornimento di carburante destinato alla capitale e altre zone del Paese.

I miliziani continuano a attaccare i convogli provenienti per lo più dal Senegal e dalla Costa d’Avorio. Settimanalmente solo 200-300 autobotti, raggiungono Bamako, contro le 1.200 precedenti al blocco jihadista.

Attacchi a postazioni militari

L’attività dei terroristi non si ferma ai blocchi stradali. Settimana scorsa JNIM ha fatto sapere di aver lanciato razzi a tre postazioni militari dell’esercito maliano (FAMa) e di Africa Corps a Kidal. Le autorità di Bamako, come spesso succede, non hanno rilasciato nessun commento in merito.

Blocco delle autocisterne in Mali

Uccisi civili con droni

Quasi contemporaneamente FAMa ha attaccato la regione di Timbuktu con droni, uccidendo 13 civili, tra questi anche sette bambini. La notizia dell’aggressione ai civili è stata data da Mohamed Elmaouloud Ramadane, portavoce di FLA (Fronte di Liberazione dell’Azawad, movimento al quale aderiscono per lo più i tuareg, ndr). Il governo maliano però li considera terroristi come i jihadisti di JNIM e quelli EIGS (Stato Islamico del Grande Sahara). Con la differenza sostanziale però, che questi ribelli tuareg combattono per la propria libertà e non per conquistare e occupare nuovi territori.

In seguito agli attacchi, parecchie famiglie hanno lasciato i loro villaggi e sono fuggiti in Mauritania.

Massacri residenti

Human Rights Watch (HRW) ha invece denunciato altri massacri nei confronti di civili in due villaggi nella regione di Ségou (centro-meridionale del Paese, a poco più di 230 chilometri dalla capitale). I fatti sono accaduti a ottobre.

Secondo quanto riportato dalla ONG in un recente rapporto, i militari, accompagnati dai cacciatori Dozo (gruppo di autodifesa per contrastare i terroristi di JNIM nella zona, ndr), durante la prima incursione del 2 ottobre a Kamona, sarebbero stati uccisi oltre 20 uomini. Una vera e propria esecuzione di massa.

Mentre il 13 dello stesso mese i militar, sempre accompagnati dai Dozo, sarebbero entrati nel villaggio di Ballé, dove avrebbero ammazzato 10 residenti, tra questi anche una donna.

Parecchi villaggi della zona sono sotto il controllo di JNIM, dunque le autorità di Bamako, in base a quanto riportato dagli abitanti, non fanno differenza tra i civili residenti e i terroristi. Eppure nel caso di Kamona, i miliziani avevano già lasciato il villaggio ben prima dell’arrivo dei militari e dei cacciatori Dozo.

Fuga nei Paesi confinanti

E proprio a causa della crescente insicurezza nel sud del Paese, dove si moltiplicano gli scontri tra dozo e i jihadisti. I cacciatori compensano l’assenza di FAMa in alcune zone. Per questo motivo molti abitanti stanno lasciando le proprie case e cercano protezione in Costa d’Avorio.

Maliani in fuga per la crescente insicurezza

Il governo ivoriano ha annunciato di aver intensificato i controlli alle frontiere nel nord del Paese, dove da settembre continuano a affluire rifugiati in fuga dagli attacchi di JNIM.

Da diverso tempo in Mali sono aumentati anche i sequestri di persona. Secondo ACLED (Osservatorio imparziale sui conflitti), nel corso degli ultimi sei mesi sarebbero stati preso in ostaggio da JNIM almeno 22 stranieri, qualcuno parla addirittura di 26.

Sequestri di stranieri

I cittadini stranieri sono stati catturati per lo più nel sud del Mali, in siti industriali e minerari. Si tratta di persone di nazionalità cinese, indiana, egiziana, emiratina, iraniana, serba, croata e bosniaca. Alcuni sono già stati liberati dietro riscatti da capogiro. Ovviamente si tratta di risorse indispensabili per finanziare le attività dei terroristi. Ma non solo. E’ una nuova strategia di JNIM per dissuadere di investire in attività nel Mali.

Secondo quanto riportato da France 24 e altri quotidiani internazionali, per la liberazione di Joumaa ben Maktoum al-Maktoum, generale in pensione emiratino, membro della famiglia reale di Dubai, sarebbero stati pagati 50 milioni di dollari a JNIM. L’ex ostaggio era attivo nel commercio dell’oro nella ex colonia francese. Insieme a lui sono state rilasciate altre due persone, inizialmente presentate come connazionali del generale in pensione. Ma in realtà uno è pachistano, mentre il secondo è un impiegato iraniano.

All’ingente somma di riscatto vanno aggiunti altri 20 milioni di dollari per la fornitura ai jihadisti di materiale bellico. Trattative in tal senso sarebbero tutt’ora in corso.

Va ricordato che anche EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha sequestrato 12 persone negli ultimi mesi: in Niger, Burkina Faso e Algeria. Tra loro anche due anziane donne a Agadez (Niger), una austriaca e l’altra svizzera, e un uomo di nazionalità statunitense.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes

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Mozambico: in una settimana 100.000 sfollati in fuga dai jihadisti

Africa ExPress
20 novembre 2025

Case e scuole bruciate, proprietà saccheggiate e civili uccisi, feriti o rapiti. La denuncia di ciò che sta accadendo nel nord del Mozambico arriva dalle agenzie delle Nazioni Unite. Gli attacchi jihadisti dello Stato Islamico in Mozambico (IS-Moz, ex Al Sunnah wa-Jammà) affiliato all’ISIS, si moltiplicano.

sfollati mappa della guerra in Mozambico
Mappa della guerra nel nord Mozambico (Courtesy OCHA)

L’ONU denuncia l’aumento degli sfollati che in una settimana hanno superato le 100.000 persone. Dopo Cabo Delgado, nelle ultime settimane diventa sempre più pressante la presenza dei tagliagole islamisti anche nella provincia confinante di Nampula.

Secondo testimonianze locali, lo scorso 10 novembre, gruppi jihadisti hanno attraversato il fiume Lurio, linea di confine con Cabo Delgado. Hanno attaccato il villaggio di Cucune, nel distretto di Memba, nella provincia di Nampula.

Un breve post su X, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), si legge; “La violenza nel nord del Mozambico #Mozambique si è estesa a Nampula, costringendo altre famiglie ad abbandonare le proprie case”.

L’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR), IOM, UNICEF e Programma mondiale per l’alimentazione (PAM) stanno assistendo le persone colpite attraverso il Programma di risposta congiunta, fornendo supporto, protezione, riparo, igiene e cibo.

Dal 1° ottobre 2017, inizio degli attacchi jihadisti nel nord del Mozambico, secondo Cabo Ligado, sito associato ad ACLED, (ONG che monitora le guerre, ndr) risultano 2.077 attacchi. Ci sono stati 6.316 morti dei quali 2.670 civili.

Africa ExPress
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Torna l’incubo jihadista in Mozambico: attentati e attacchi (morti e feriti) nelle zone controllate dalle truppe ruandesi

Gli attacchi dell’esercito e dei ruandesi non fermano i jihadisti in Mozambico

 

Stati Uniti, in lista nera i tagliagole di ISIS-Mozambico e ISIS-Congo “terroristi globali”

Illusione o realtà? Ennesimo accordo per arrivare alla pace in Congo-K

Africa ExPress
Kinshasa, 16 novembre 2025

Dopo mesi di trattative, il governo di Kinshasa e il gruppo politico-militare M23/AFC hanno finalmente siglato un nuovo accordo di massima per tracciare le varie fasi che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) portare la pace nell’est della Repubblica Democratica del Congo.

Hanno già provato varie volte senza successo. Gli interessi in gioco sono parecchi e ingenti. Dietro alle forze in campo (governo e ribelli), che fungono da attori sul palcoscenico, ci sono i registi e i burattinai. Stati Uniti, Russia, Cina ma anche Europa (divisa, come al solito, in tanti rivoli in lite tra loro) e Paesi minori diciamo”debuttanti” come Sudafrica e India. Ognuno gioca la sua partita grande o piccola che sia.

In questa gran confusione non è facile trovare una quadra. C’è sempre qualcuno scontento che protesta e imbraccia il fucile.

Doha, Qatar, cerimonia firma accordo quadro:
a sinistra Sumbu Sita Mambu, alto rappresentante del presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi, e Benjamin Mbonimpa, segretario esecutivo di M23

In questo scenario (sconfortante e inquietante) si deve collocare l’ultimo documento firmato sabato scorso a Doha da Sumbu Sita Mambu, alto rappresentante del presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi, e Benjamin Mbonimpa, segretario esecutivo dei ribelli dell’M23. Alla cerimonia hanno assistito il mediatore qatariota e facilitatori di Washington e dell’Unione Africana.

Il gruppo armato M23 prende il nome da un accordo firmato il 23 marzo 2009 dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi. La formazione ha ripreso le ostilità nel primo trimestre del 2022 ed è sostenuta dal vicino Ruanda. L’M23 fa parte di una coalizione politico militare più grande l’ Alleanza del Fiume Congo, fondata il 15 dicembre 2023 in Kenya della quale fanno parte  diversi gruppi minori.

Migliaia di morti in 3 anni

Questo accordo quadro non cambierà immediatamente l’attuale situazione nel Paese. Il documento detta le “regole del gioco” per arrivare a un patto di pace, per porre fine ai combattimenti tra le parti nell’est della ex colonia belga. Gli scontri tra M23/AFC e l’esercito congolese, ripresi all’inizio del 2022, hanno causato migliaia di morti e costretto a decine di migliaia di persone a fuggire dalle proprie case.

L’atto riprende anche due protocolli già siglati durante le lunghe trattative: quello relativo al meccanismo di verifica del cessate il fuoco e quello riguardante allo scambio dei prigionieri.

Colloqui proseguiranno

Nel documento non sono presenti clausole vincolanti, viene precisato che le discussioni devono proseguire, ad esempio, per ripristinare l’autorità dello Stato nelle zone ora sotto controllo di M23/AFC. Va ricordato che dall’inizio dell’anno i ribelli, sostenuti da Kigali, hanno occupato i capoluoghi del Nord Kivu, Goma, e del Sud Kivu, Bukavu.

Sfollati nel Congo-K vicino a Goma, Nord-Kivu

Altre questioni da affrontare durante i prossimi colloqui, che dovrebbero riprendere tra due settimane, sono il ritorno degli sfollati e rifugiati che hanno chiesto protezione nei Paesi limitrofi. Le parti dovranno affrontare anche problemi riguardanti la sicurezza, l’accesso agli aiuti umanitari e quello relativo alla riconciliazione. Cioè quasi tutto.

Via per la pace lunga

Un responsabile di M23/AFC ha confessato ai reporter di RFI che l’attuazione dei primi protocolli firmati non è ancora effettiva. “La strada da percorrere sarà ancora lunga”, ha poi aggiunto.

Mohammed bin Abdulaziz Al-Khulaifi, ministro degli Esteri del Qatar, ha affermato che l’ultimo accordo rafforza il processo volto a “trovare soluzioni pacifiche attraverso il dialogo e la comprensione” per ristabilire la calma nella Repubblica Democratica del Congo.

Boulos cauto

Mentre Massad Boulos, consigliere per l’Africa della Casa Bianca, ritiene che il documento siglato sabato scorso, sia il primo passo verso un accordo di pace definitivo che dovrà essere costruito sulla base di nuovi negoziati.

Africa ExPress
@africexp
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Congo-K: si discute di pace, ma la guerra non si ferma