La politica italiana ci ha abituato a sfrenate giravolte, a calcolati contorsionismi e ad abbaglianti sorprese, ma questa volta ha stupito anche chi sembrava assuefatto alle esibizioni da avanspettacolo e ai numeri acrobatici del circo del potere.
Da un lato (primo volteggio), visto l’isolamento cui stava avviandosi a passi lunghi e ben distesi sul piano internazionale, la premier Giorgia Meloni ha deciso di passare dal “prematuro riconoscere la Palestina”, al “possiamo riconoscerla a condizione che”. Bene, ma quali sono le condizioni? Che Hamas liberi gli ostaggi e sia garantita l’esclusione del gruppo palestinese dalla gestione del potere nel futuro Stato palestinese.
Ahmed al Sharaa al Julani, il presidente siriano, con Giorgia Meloni a New York
A me sembra un escamotage per cercare di non prendere una decisione chiara sulla questione, per tacitare gli elettori della destra favorevoli al riconoscimento e per non irritare troppo l’amico e alleato Donald Trump.
Condizioni stravaganti
Le condizioni poste da Giorgia Meloni sono piuttosto stravaganti e mostrano una certa ignoranza, per due motivi. Il primo perché il governo dello Stato di Palestina non è formato da elementi di Hamas, ma dall’Autorità Nazionale Palestinese, il cui presidente è Mohamud Abu Mazen.
Il secondo perché escludere Hamas dalla gestione del potere nello Stato Palestinese è piuttosto complicato. Certo si potrebbe chiedere ai futuri padri costituenti della Palestina di includere una clausola che vieti la ricostituzione di Hamas, magari copiandola pedissequamente da quella presente nella Costituzione italiana che vieta la ricostituzione del partito fascista, ma la Meloni è l’esempio vivente di come quella clausola si possa facilmente aggirare.
Veto su Hamas
Il veto della premier su Hamas è completato da una dichiarazione del suo vice, Matteo Salvini, secondo cui: “Riconoscere oggi lo Stato di Palestina, che in parte è sotto controllo dei tagliagole degli stupratori islamici, è una follia, è un suicidio”.
Giusto: con i tagliagole non si parla e tantomeno si dialoga, almeno finché non vengono riabilitati e quindi possono sedersi nel salotto buono accolti sul tappeto rosso.
Come sta succedendo all’ex tagliagole Ahmed al Sharaa al Julani, il presidente siriano fino a pochi mesi fa affiliato ad Al Qaeda, sulla cui testa, dal 2017 al dicembre scorso, gravava una taglia di 10 milioni di dollari.
Corridoio aereo
Ora al Julani è coccolato da Israele che spera di potergli strappare il permesso di utilizzare un corridoio aereo che permetta ai bombardieri con la stella di Davide di raggiungere l’Iran.
Così, pochi giorni fa l’uomo che giustiziava per strada con un colpo alla testa e con un giudizio sommario le donne accusate di adulterio o di prostituzione, il fanatico islamista che aveva istaurato un regime del terrore basato sulla sharia, la legge islamica, è stato ricevuto da Giorgia Meloni a margine dell’assemblea generale dell’ONU.
Senza turbante
Ha lavato le mani grondanti di sangue e voilà, eccolo senza turbante ma in giacca e cravatta nel salotto buono.
Un trionfo della regola del doppio standard: i nostri amici possono essere massacratori e violare leggi e regole (leggi Netanyahu). Il tutto ovviamente severamente vietato ai nostri nemici che devono invece essere sanzionati (leggi Putin).
Dalla nostra redattrice di moda Luisa Espanet
Milano, 1° ottobre 2025
La pioggia scrosciante non ha frenato la partecipazione massiccia alla serata del Black Carpet Awards 2025, tenutasi al Teatro Manzoni, durante la Milano Fashion Week.
Promossa da Afro Fashion Association (organizzazione no-profit fondata nel 2015 attiva tra l’Italia e l’Africa subsahariana), con il patrocinio del Comune di Milano e il supporto di Camera Nazionale della moda italiana, la manifestazione, alla terza edizione, premia chi si è distinto nel mondo della moda per avere promosso la diversità, l’inclusione e l’equità.
A condurre in modo brillante la serata, interamente “parlata” in inglese con solo qualche flash di italiano, Tamu McPherson, fotografa e creativa di origini giamaicane, con vari incarichi tra cui quello di Ambassador di Bulgari.
Madrina dell’edizione, ma presente solo in video, Naomi Campbell, attivista da anni per la rappresentanza e l’equità nel settore moda, bellissima ma quasi irriconoscibile con lunghi capelli diritti.
Dopo il discorso di apertura di Michelle Francine Ngonmo, fondatrice e CEO di Afro Fashion Association, si è subito passati ai premi, suddivisi per categorie.
Michelle Francine Ngonmo
Il primo Culture a chi nel proprio campo guida l’inclusione, Creativity a chi si distingue per visione e impatto creativo globale. Community a chi genera una trasformazione all’interno della propria comunità. Entrepreneurship per chi rinnova modelli di business esclusivi. Legacy a chi costruisce un’eredità inclusiva e duratura.
Ultimi due premiOne Time Award 2025 dedicato a Koyo Kouoh, direttrice di uno dei più importanti musei di arte africana recentemente scomparsa. E the New Wave che ha visto premiati dieci nuovi talenti della moda.
Tamu McPherson
Grande l’entusiasmo, spesso commossi i premiati, moltissimi gli applausi, anche troppi i fischi e le grida che sovente impedivano di sentire il nome del premiato, pronunciato dopo la fatidica frase “The winner is…”.
Subito, fortunatamente, appariva la scritta sul video, prima che il premiato arrivasse sul palco.
Spaciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni 29 settembre 2025
Lo Stato di Palestina è riconosciuto da 157 Stati dell’ONU su 193, ma solo esclusivamente alle condizioni occidentali: niente esercito, e con la sola autorità politica concessa dall’Occidente. Esattamente come il post colonialismo in Africa.
Il rischio che la Palestina diventi l’ennesimo “Stato fantoccio” governato da esponenti locali corrotti, che hanno la sola funzione di garantire gli interessi delle ex colonie, è altissimo. E l’Autorità Nazionale Palestinese, creata per collaborare con lo Stato occupante contro ogni forma di resistenza all’occupazione, è oggi l’unica forza politica riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Dopo 77 anni di colonialismo, i palestinesi avrebbero così un governo fantoccio, smilitarizzato, senza il loro consenso. E non diventerebbero mai proprietari della terra che gli appartiene.
Con il cambio dell’amministrazione negli Stati Uniti, che da un sionista moderato come Biden è passata all’estremismo di Trump, il progetto coloniale in Medio Oriente ha subito un’accelerazione senza precedenti.
Molti governi occidentali sono stati costretti a recuperare il consenso del popolo a causa di una condotta politica troppo esplicita, facendo però attenzione a mantenere in equilibrio i rapporti con Israele.
Le dichiarazioni a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina, infatti, non hanno nessun impatto pratico sulla fase finale del progetto coloniale.
Emerge però un conflitto tra il sionismo moderato e quello estremista, portati avanti entrambi con lo stesso obiettivo: prendere il totale controllo della terra palestinese, in un modo o nell’altro.
Intervista a una giornalista palestinese
Africa ExPress ha intervistato Rawan Odeh, una reporter di تلفزيون فلسطين Palestine TV che lavora sotto occupazione armata, dentro le mura che circondano la Cisgiordania.
A destra Rawan Odeh, giornalista palestinese insieme ai suoi colleghi, durante un servizio televisivo a West Bank
Oggi i giornalisti italiani si sentono più liberi di criticare i governi di destra degli Stati Uniti e di Israele, come se i sionisti di sinistra avessero progetti coloniali più moderati e quindi internazionalmente più accettabili. Cosa ne pensi?
Alla fondazione dello Stato di Israele dopo il mandato britannico, l’ONU ha concesso il diritto di insediare terre ebraiche sulla terra dei palestinesi. I proprietari originali sono stati cacciati dai loro villaggi con la collusione e il finanziamento dei Paesi occidentali, compresa l’America. Il processo di sfollamento continua anche ora a spese del mio popolo.
L’Occidente e gli USA, oltre a società private che hanno effettivamente finanziato insediamenti illegali in Cisgiordania, continuano a supportare economicamente Israele nella sua guerra di sterminio a Gaza.
Il cambiamento politico è iniziato con alcuni governi occidentali, come la Spagna, la cui posizione sul genocidio in corso a Gaza è più esplicita. La portata dei crimini che avvengono nella Striscia ha spinto alcuni di questi governi a criticare certe pratiche portate avanti da Israele, senza però definire questi crimini con il loro nome.
Le critiche non hanno impedito a Israele di combattere la sua guerra disumana contro il popolo di Gaza. E allo stesso tempo, è emersa la vera natura del sostegno di questi Stati all’entità israeliana: armi, forniture militari, e interessi economici di molte aziende occidentali che supportano Israele in questo genocidio.
Nonostante le promesse di molti Paesi di riconoscere lo Stato di Palestina, attualmente in Cisgiordania è in corso lo sfollamento di palestinesi più intensivo dalla guerra della Nakba del 1967. Ed è stato registrato il numero più alto di attacchi da parte dei coloni.
L’Autorità Palestinese collabora con Israele, Hamas ha interessi politici che vanno oltre la Palestina, e le voci degli ebrei antisionisti sono spesso più censurate di quelle dei palestinesi perché distruggono il racconto coloniale dall’interno. E’ sufficiente semplificare la narrazione giornalistica per liberare veramente la Palestina?
Non credo sia possibile semplificare la narrazione palestinese, ma può essere scomposta in frammenti. Ciò che sta accadendo non può essere descritto come una partita di calcio tra due squadre: è più complicato di così. Se chiedi a qualsiasi palestinese o giornalista come me, ti daranno la stessa risposta.
In altre parole, possiamo discutere delle azioni e degli eventi quotidiani perpetrati dall’esercito di occupazione, tra cui demolizioni di case, attacchi dei coloni, incendi di ulivi, chiusura dei posti di blocco e molto altro ancora.
Israele sta facendo tutto il possibile per prendere più terra e spostare i palestinesi. E ci renderà la vita sempre più difficile per indurci a fuggire dalle nostre case. Tuttavia, il nostro amore per la Palestina è più grande.
Per quanto riguarda i giornalisti palestinesi, stiamo cercando di dimostrare la verità e far vedere la realtà al mondo. Non recitiamo il ruolo della vittima. Noi abbiamo una responsabilità maggiore nel mostrare la sofferenza, aiutare le famiglie e pubblicare le immagini. Lo dobbiamo fare nonostante i pericoli, la detenzione, le ferite o il martirio.
La professione giornalistica in Palestina è diventata un reato per lo Stato di Israele, perché non vogliono che pubblichiamo la verità. E vogliono uccidere qualsiasi speranza per l’istituzione di uno Stato palestinese.
La mancanza di informazioni nei notiziari occidentali fa sì che non vengano menzionate molte notizie sulla Cisgiordania, nel frattempo Israele continua a commettere tutte queste atrocità. Il 7 ottobre è stato un pretesto per rendere la nostra vita impossibile su questa terra.
È come una guerra silenziosa qui a West Bank. E noi, giornalisti palestinesi, stiamo cercando di diffondere le informazioni per cercare di fermare Israele.
Cosa significa fare la giornalista sotto occupazione armata?
Il vero giornalismo oggi significa trasmettere la verità in modo semplice e senza pregiudizi, comunicando le notizie, trasmettendo la sofferenza e la difficile realtà quotidiana del nostro popolo.
Significa continuare a farlo senza fermarsi, e comunicare ciò che accade in Cisgiordania. Dagli sgomberi alla distruzione delle abitazioni, agli attacchi dei coloni. E persino a Gaza, alla luce dell’assedio, delle stragi quotidiane e della fame che attualmente è la più alta al mondo.
Nessuno può fare tutto ciò se non c’è un sostegno significativo, specialmente a Gaza. Pertanto, gli sforzi devono essere intensificati, sia dai media palestinesi che da quelli internazionali, per cercare di trasmettere la verità e fermare Israele dai suoi piani per impedire la realizzazione dei due Stati.
Il vero giornalista continua a coprire tutti gli eventi così come sono, costantemente. Ci sono momenti in cui il giornalista deve prendere posizioni reali. E non deve esserci nessuna spettacolarizzazione della realtà o occultamento di una parte della verità, né prendere parte delle notizie senza una preconoscenza degli eventi completi.
Il giornalista deve essere imparziale nell’uso di alcune frasi e termini giornalistici che riducono l’importanza degli eventi e deve comprendere le radici della causa palestinese. Ci chiediamo però se il mondo libero ci vede come il resto dell’umanità, e non come numeri o tendenze, ma come la storia della sofferenza palestinese. Ci domandiamo se riconosce l’importanza delle persone che hanno influenzato non solo Gaza, ma la società di tutto il mondo. E che avevano ancora molto da offrire in questa vita e alla Palestina.
Come Odeh al-Hazeleen di Masafer Yatta, ucciso da un colono israeliano all’interno di un centro culturale per bambini. Anche questo assassino non è stato punito. Mentre 21 degli abitanti del villaggio, che avevano partecipato al film “No the Other Land”, sono stati arrestati la notte stessa dell’omicidio di Odeh.
Se l’umanità è ciò che muove il mondo, occorre una posizione netta e realistica più forte per fermare l’uccisione del mio popolo.
Se un giorno lo Stato di Palestina verrà riconosciuto, chi lo governerà? L’Autorità Palestinese collabora con Israele e non ha il consenso dei palestinesi. Per Hamas invece è difficile ottenere il riconoscimento degli Stati occidentali. C’è quindi un altro partito politico che può presentarsi alle elezioni?
Noi, come popolo palestinese, siamo gli unici che hanno il diritto di scegliere i leader che ci rappresentano, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono, sia essa Hamas, Fatah, il Fronte Popolare, o altre forze indipendenti. Nessun Paese al mondo dovrebbe imporre restrizioni o una leadership a coloro che rappresentano la Palestina.
Perché Israele sceglie i propri leader, nonostante la maggior parte dei suoi ministri siano criminali di guerra condannati dall’Unione Europea? A proposito, il governo di Israele è sempre di estrema destra.
Vorrei anche capire quanto sia difficile denunciare la corruzione dei vostri politici.
Credo che la corruzione politica esista nella maggior parte dei Paesi del mondo e non è una novità, ma alla luce dell’occupazione e dell’incapacità dell’Autorità Palestinese di estendere il suo controllo su qualsiasi parte dei territori palestinesi, diventa difficile affrontare questa questione. Specialmente se consideriamo le restrizioni imposte da Israele all’ANP, la confisca dei suoi fondi e l’impossibilità dell’Autorità di fornire gli stipendi ai dipendenti per mesi.
Per noi raffigura solo una presenza di agenti di polizia che mantengono la sicurezza sociale, nient’altro, e un’entità che ci rappresenta davanti al mondo esterno. Tuttavia, siamo un popolo che vive sotto occupazione e non abbiamo una vera entità indipendente sul terreno. L’Autorità è simbolica.
Inoltre, noi, come popolo, stiamo attualmente affrontando il più grande sfollamento di palestinesi in Cisgiordania dal 1967 (la Guerra della Nakba). Uno trasferimento forzato di circa 60.000 persone fino ad oggi.
Più di 22 nuovi insediamenti illegali stanno per essere costruiti sulla nostra terra, sorvegliati dai gate israeliani, di fronte a tutte le città e i villaggi palestinesi. In questo modo ci stanno isolando all’interno di prigioni a cielo aperto, controllate dai militari israeliani posizionati all’ingresso di ogni checkpoint.
Stanno cambiando significativamente la mappa della Cisgiordania.
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 28 settembre 2025
Anche il governo dell’Aia ha deciso di deportare in Africa i rifugiati la cui domanda d’asilo è stata respinta o il cui permesso di soggiorno non è stato rinnovato. Dunque, forti degli accordi escogitati dall’amministrazione Trump, il governo dei Paesi Bassi ha siglato una lettera di intenti in tal senso con l’Uganda.
David van Weel,ministro degli Esteri olandese ha incontrato il suo omologo ugandese, Odongo Jeje Abubakhar, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso in questi giorni a New York.
Kampala pronta a “ospitare”
Kampala è disposta a accogliere le persone senza permesso di soggiorno che non possono essere rispedite direttamente o volontariamente nel proprio Paese di origine in tempi brevi dalle autorità olandesi. I richiedenti asilo saranno presi in carico dall’Uganda prima di essere mandati definitivamente a casa propria.
Olanda espelle rifugiati verso l’Uganda
In un prossimo futuro Olanda e Uganda approfondiranno ulteriormente gli accordi delineati nella lettera di intenti. Nel Paese africano è persino previsto un centro di transito per un numero limitato di deportati dai Paesi Bassi.
Piano ideato un anno fa
Secondo quanto riportato dal giornale online Dutchnews l’idea delle deportazioni verso l’Uganda è stata avanzata per la prima volta dall’allora ministro del Commercio estero, Reinette Klever, lo scorso ottobre appena tornata da un viaggio nel Paese dell’Africa centro-orientale. La Klever ha poi informato il primo ministro Dick Schoof del controverso piano, descritto come “innovativo”.
Kampala ha siglato un intesa anche con Washington. Secondo una dichiarazione ufficiale dell’Uganda, l’accordo già entrato in vigore qualche settimana fa, non include le persone con precedenti penali e minori non accompagnati.
Leggi draconiane contro omosessuali
Bisogna chiedersi cosa succede ai deportati omosessuali non appena metteranno piede in Uganda dove, le draconiane leggi anti LGBTQ (acronimo per persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer), sono considerate le più repressive al mondo.
Uganda: basta silenzio sulle torture
Va sottolineato che dall’inizio dell’anno Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, ha bloccato le registrazioni dei richiedenti asilo eritrei, che fuggono sempre più numerosi dalla loro patria. Se tra i futuri deportati dai Paesi Bassi ci dovessero essere anche cittadini della nostra ex colonia, la loro sorte potrebbe essere incerta.
Ipoteticamente potrebbero essere costretti a tornare a casa, dove certamente non gli attende un tappeto rosso. Come persone fragili e vulnerabili sarebbero anche soggetti a cadere nelle mani di trafficanti di esseri umani per evitare di essere deportati in Eritrea.
In Uganda la comunità eritrea è piuttosto numerosa. Molti vi risiedono da decenni e alcuni hanno stretti legami con il regime di Asmara: sono spie.
Piano deportazione di Londra fallito
Un piano simile a quello dell’Olanda, definito “innovativo” dal primo ministro Schoof, era già stato proposto dalla Gran Bretagna nel 2022. Londra aveva persino siglato un accordo con Kigali per il trasferimento di profughi entrati “illegalmente”. L’allora primo ministro britannico, Boris Johnson, aveva promesso al presidente ruandese, Paul Kagame, oltre 140 milioni di euro, per finanziare accoglienza, integrazione, formazione professionale e istruzione dei deportati.
L’intesa era poi stata bloccata dalla Corte suprema del Regno Unito nel 2023 e con l’arrivo al potere di Keir Starmer, primo ministro dal luglio 2024, era stata addirittura accantonata.
Trend deportazioni
Da alcuni anni anche la Danimarca ha inasprito le sue politiche migratorie. E già nel 2023 aveva preso in considerazione la possibilità di trasferire profughi, la cui richiesta di asilo era stata respinta, in un Paese terzo, come il Ruanda. Il piano era poi stata aspramente criticato dalla Commissione contro le Torture dell’ONU, in quanto non ritenuta una nazione sicura per i rifugiati.
Alcuni anni fa anche in Germania alcuni partiti di destra avevano avanzato la possibilità di inviare profughi non in regola verso il Ruanda. Finora nulla di fatto. Ma proprio poche ore fa il ministro degli Interni di Berlino, Alexander Dobrindt della CSU (Partito Cristiano Sociale in Baviera) ha dichiarato che spera di arrivare entro quest’anno a un accordo con Damasco per espellere dapprima i siriani che si sono macchiati di crimini e successivamente quelli senza permesso di soggiorno. Insomma anche in Germania non è decaduta l’idea di liberarsi dei rifugiati.
Ghana spedisce “ospiti” in Togo
Recentemente l’amministrazione Trump ha spedito in Africa diversi profughi indesiderati negli USA. Anche il Ghana ne ha “accolti” 14 che sono arrivati il 6 settembre. In base a quanto riferito dai loro avvocati, 11 di loro avrebbero trascorso due settimane in un campo militare vicino ad Accra, sei di loro sono poi stati condotti oltre il confine con il Togo. Solamente tre sarebbero originari di questo Paese.
Il presidente ghanese John Mahama
I migranti sono stati deportati dopo aver intentato una causa contro le autorità del Ghana, chiedendo il loro rilascio immediato e per evitare di essere rimpatriati in Paesi dove avrebbero potuto trovarsi in pericolo.
In un primo momento il presidente ghaniano, John Mahama, aveva dichiarato che tra i deportati c’erano parecchi nigeriani, che avrebbero già raggiunto il loro Paese d’origine.
Tribunale dell’ECOWAS
L’avvocato Oliver Barker-Vormawor, socio anziano dello studio legale Merton & Everett di Accra e uno dei legali che rappresentano i deportati, ha specificato che la questione sarà portata davanti al tribunale dell’organismo regionale ECOWAS (Comunità Economica Degli Stati dell’Africa Occidentale), con il coinvolgimento di avvocati statunitensi, tra cui l’American Civil Liberties Union.
Rendere pubblico accordo
È stata inoltre presentata una mozione per obbligare il governo del Ghana a rendere pubblico l’accordo con gli Stati Uniti e a sospenderne l’attuazione fino alla sua ratifica in Parlamento
Il ministro degli Esteri ghanese, Samuel Okudzeto Ablakwa, ha replicato che il suo governo non ha alcun obbligo di rendere pubblico il memorandum d’intesa con Washington. E la settimana scorsa Ablakwa ha annunciato che presto gli USA deporteranno altre 40 persone in Ghana. In cambio gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro sulle restrizioni dei visti imposti quest’estate ai ghaniani.
dal quotidiano qatariota Al-Watan
Doha, 26 settembre 2025
Sua Eccellenza lo sceicco Khalifa bin Hamad bin Khalifa Al Thani, Ministro dell’Interno e Comandante della Forza di Sicurezza Interna (Lekhwiya), ha incontrato sua eccellenza Matteo Piantedosi, Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana, attualmente in visita nel Paese.
Durante l’incontro i due, hanno esaminato le relazioni di cooperazione tra i due Paesi in materia di sicurezza e le modalità per rafforzarle e svilupparle. Hanno inoltre discusso di una serie di argomenti di interesse comune.
Giochi invernali
L’incontro ha anche visto la firma di un accordo di cooperazione per la sicurezza dei Giochi Olimpici Invernali di Cortina 2026, firmando un accordo per la partecipazione delle forze qatariote ala competizione che sarà ospitati dall’Italia nel febbraio del prossimo anno. È stato informato sulle ultime tecnologie utilizzate nel campo della guida.
Il ministro Piantedosi riceve la Smith & Wesson in regalo dalo sceicco Khalifa bin Hamad bin Khalifa Al Thani
Durante l’incontro, sua eccellenza ha donato al suo omologo italiano una pistola Smith & Wesson come souvenir, prodotta nel 1957 e considerata parte del ricordo del lavoro di polizia nello Stato del Qatar.
Il Centro di Comando Nazionale (NCC) ha ricevuto sua eccellenza Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno dell’amichevole Repubblica Italiana, attualmente in visita nel Paese.
Ultime tecnologie
Sua eccellenza è stato accompagnato durante la visita da sua eccellenza lo Sceicco Nayef bin Faleh bin Saud Al Thani, sottosegretario aggiunto del Ministero dell’Interno per gli Affari di Sicurezza, dove sua eccellenza è stata informata sulle ultime tecnologie e sui sistemi avanzati utilizzati nei settori del comando e controllo, della gestione delle crisi e delle emergenze.
Il Qatar partecipa a una riunione dei direttori della pubblica sicurezza del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Lo Stato del Qatar ha partecipato alla sesta riunione dei direttori della pubblica sicurezza dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), tenutasi presso la sede del Segretariato Generale a Riyadh.
Raccomandazioni appropriate
La delegazione del Ministero dell’Interno alla riunione era guidata dal maggior generale Mohammed Jassim Al Sulaiti, direttore generale della Pubblica Sicurezza.
Nel corso della riunione sono stati discussi diversi argomenti all’ordine del giorno e sono state formulate raccomandazioni appropriate che contribuiscono a sostenere e rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza congiunta tra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo.
Al-Watan
Vuoi contattare Africa ExPress?
Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43
Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
25 settembre 2025
Tra 94 biciclette, 700 borracce, mille gel, pezzi di ricambio, il campione Remco Evenepoel e i suoi compagni della squadra belga in partenza da Bruxelles per il Ruanda, che ospita il primo campionato mondiale di ciclismo in terra africana, solo una persona non ha trovato posto: Stijn Vercruysse, giornalista dell’emittente pubblica fiamminga VRT. Al banco del check-in, il 18 settembre, gli è stato negato l’imbarco. Perchè?
Escluso giornalista belga
La spiegazione l’ha data il ministro degli Esteri ruandese in persona, Olivier Jean Patrick Nduhungirehe, 50 anni: “Non è un è un giornalista sportivo. Aveva dichiarato ai media belgi di avere programmato di produrre un reportage critico sul Paese ospitante, che in definitiva è un regime molto autoritario”.
Ruanda: mondiali di ciclismo su strada
Come si possono collegare queste intenzioni politiche a una competizione ciclistica internazionale? “La VRT ha compiuto un rozzo tentativo di inganno – ha continuato il ministro – perché ha chiesto l’accreditamento per un giornalista politico noto per le sue ‘posizioni sistematicamente ostili nei confronti del Ruanda’ per coprire quello che è un evento sportivo”. Insomma: nella lista nera perchè andava fuori…strada.
“Quando lo sport entra nella stanza, la politica esce dalla finestra”: ha scritto qualche giorno dopo una delle voci del regime ruandese, il Taarifa.rw
Durante il ventennio fascista alle pareti delle osterie era appeso il cartello: ”Non si bestemmia, non si sputa per terra e non si parla di politica”. Fatti i debiti cambiamenti, vale anche per il Ruanda, intento a celebrare un suo evento epocale: è la prima nazione africana a ospitare, dal 21 al 28 settembre, i Campionati del mondo di ciclismo su strada.
Silenziare critiche
Sulle bestemmie e sugli sputi, non abbiamo prove inconfutabili. Sul fatto che il fruscio delle due ruote mondiali tenti di coprire le urla del silenzio di un genocidio e di silenziare voci critiche, c’è poco da dubitare.
E’ noto che il Ruanda non gode di buona stampa. Nel World Press Freedom Index, l’indice che misura la libertà di stampa nel mondo, il piccolo Paese centrafricano (poco più vasto della Sicilia) si classifica al 146° posto. Ma in politica la situazione è ancora più grave.
UE condanna arresto oppositrice
Otto giorni prima, l’11 settembre, il Parlamento europeo aveva condannato duramente l’arresto, avvenuto il 19 giugno, di Victoire Ingabire Umuhoza, 56 anni, storica leader dell’opposizione politica e presidente del partito DALFA-Umurinzi “per la partecipazione a una sessione di formazione sulle strategie pacifiche per resistere all’autoritarismo”.
Victoire Ingabire Umuhoza, oppositrice del regime ruandese
L’Assemblea di Strasburgo aveva espresso profonda preoccupazione per “i ricorrenti abusi nei confronti di partiti ed esponenti dell’opposizione, giornalisti, attori della società civile e dissidenti, in violazione degli obblighi internazionali in materia di diritti umani che incombono al Ruanda”.
Qualcuno si è preoccupato della sorte di questa donna già imprigionata per 6 anni, poi graziata e poi di nuovo incarcerata con l’accusa ridicola e impossibilitata a difendersi? Quattro giorni dopo ne ha parlato, sdegnosamente, il Parlamento ruandese “respingendo le interferenze nel sistema giudiziario di uno stato sovrano”.
I media mondiali hanno quasi tutti taciuto, soprattutto quelli sportivi (lo sport prima di tutto!). E il popolo ruandese? Il Popolo, come canterebbe Guccini “nei convitti e in piazza lascia i dolori”. Il carnevale ciclistico impazza.
Eh sì perchè il Rwanda Development Board (RDB) ha annunciato che “durante il periodo del campionato tutte le attività commerciali, dai centri commerciali e ristoranti ai bar e locali notturni, potranno chiudere alle 4 del mattino. L’obiettivo è di accogliere migliaia di atleti, tifosi e visitatori, sostenere il settore dell’ospitalità e gestire il flusso di traffico irregolare previsto per tutti i giorni dell’evento”.
Paese più sicuro del continente
Ovviamente, nel Paese più sicuro dell’Africa, come si definisce, “nonostante l’estensione degli orari, le regole esistenti rimangono in vigore. Le attività commerciali devono mantenere il rumore al di sotto dei 55 decibel durante la notte, evitare di servire alcolici ai minori di 18 anni e rifiutare il servizio ai clienti visibilmente ubriachi”.
“Questo cambiamento di orario segna una svolta – riconoscono ufficialmente le autorità – dopo due anni di turbolenze innescate dal coprifuoco imposto nel settembre 2023, quando il governo limitò la vita notturna alle ore 1 nei giorni feriali e alle 2 nei fine settimana. Quello che era iniziato come un tentativo di controllare l’inquinamento acustico si trasformò in una crisi sociale ed economica”.
Cronaca locale
Comunque, le cronache locali sono diventate quasi liriche nel descrivere i mondiali della bicicletta per la prima volta sbarcati nel Continente nero in 103 anni di storia dell’evento sportivo:
“La cerimonia di apertura mostra lo scintillante centro congressi di Kigali, la folla che sventola bandiere e i volontari sorridenti. I commentatori elogiano il Ruanda come modello di progresso. Kigali profuma di strade appena asfaltate e caffè tostato. Il percorso di gara si estende dal cuore di Kigali fino ai sobborghi verdeggianti, un nastro di asfalto pulito e liscio che si snoda tra colline d’alta quota. Gli spettatori – famiglie, studenti e anziani – si allineano lungo il percorso sventolando bandiere e cantando mentre i corridori sfrecciano. Al tramonto, la festa non si ferma. Kigali si illumina di luci al neon e risate. La musica risuona; il profumo degli spiedini alla griglia si mescola all’aroma del caffè appena fatto e della birra locale.
Dalle vivaci strade di Remera agli angoli più affollati di Kicukiro, dai cori degli stadi che riecheggiano per Nyamirambo alle terrazze dei caffè di Kacyiru, la città pulsa di energia”.
Tutto (o quasi) vero, come si è potuto vedere anche dalle immagini televisive.
Sportwashing
Il successo di immagine è innegabile. La vetrina mondiale è stata abilmente costruita e lucidata dal sempiterno presidente Paul Kagame (in carica dal 2000!), un maestro nell’usare lo sportwashing, ovvero l’uso dello sport per migliorare l’immagine, sporca o sfocata, del governo e della nazione.
Sono quasi 800 i ciclisti (769 per la precisione, 27 italiani) provenienti da 108 Paesi che si stanno sfidando lungo le celebrate mille colline del Ruanda. Ben 36 sono gli Stati africani orgogliosamente presenti al grande evento planetario e questo è un merito da riconoscere: il ciclismo in molte parti è in forte crescita; in altri, come la Tunisia, le cicliste sono appena una decina! (lo ha ricordato una giovane atleta magrebina, Alma Abroud, parlando con RFI).
Il duello tra Remco Evenepoel e Tadej Pogacar, già visto domenica 21 settembre, si ripeterà il 28 nella gara in linea, la più importante. Gli organizzatori calcolano che il pubblico mondiale su schermi grandi e piccoli sia di 300 milioni di persone. Nel sito ufficiale proclamano che si tratta di uno dei mondiali più duri della storia per quanto riguarda la corsa dei professionisti (267,5 km con 5.475 mt di dislivello.
Grandi nomi assenti
Nessuna parola sul fatto che tanti altri nomi di primo piano del ciclismo mondiale (a cominciare da Jonas Vingegaard) abbiano deciso di stare a casa adducendo ragioni climatiche, ambientali, finanziarie (per un comune mortale il viaggio in Ruanda di una settimana costa non meno di 5 mila euro).
Guerra in Congo-K
Ci si dimentica, però di quanto dichiarato a luglio, Els Hertogen, 49 anni, direttrice dell’organizzazione umanitaria belga 11.11.11: “Un campionato mondiale di ciclismo su strada in Ruanda, mentre cadaveri cadono a terra nel Congo orientale, la gente si nasconde e le famiglie vivono nella paura mortale? Mentre lo stesso Ruanda ha reciso ogni rapporto diplomatico con il Belgio ed espelle i difensori dei diritti umani? “
Quasi nessuno, neppure gli stranieri che vivono a Kigali (come è stato confermato ad Africa Express) osano fare il minimo cenno critico, anche sulle chat, al clima asfissiante che si respira nel Paese
E chi si ricorda dell’Umuganda? E’ la giornata di lavoro obbligatoria alla quale tutte le persone tra i 18 e i 65 anni devono sottostare l’ultimo sabato del mese. Diverse le attività imposte dal governo e pare accettate con entusiasmo (!) dalla popolazione: smaltire i rifiuti, asfaltare le strade, aiutare i più bisognosi…
Povertà nelle zone rurali
Che devono essere tanti. Come ha confermato nell’intervista a Ettore Giovannelli su Rai 2 (domenica 21 settembre), un giovane italiano, Enrico, bolognese, che vive e lavora a Kigali per una società di consulenza: “Collaboriamo spesso con il governo per valutare ciò che funziona e non funziona nel Paese, che è molto aperto all’innovazione e allo sviluppo. Purtroppo esiste un divario profondo: nella capitale il livello di vita è alto. Fuori, la maggior parte della popolazione mangia una volta al giorno, se le va bene”. (Kigali ha 1 milione e 200 mila abitanti, circa, il Rwanda poco più di 14 milioni, ndr)
La vittoria di Evenepoel, nel primo giorno di gare, dopo il doppio oro olimpico a Parigi e il podio al Tour de France del 2024, è stata scientificamente sfruttata dal Potere. “Il linguaggio dello sport – velocità, resistenza, trionfo – trascende confini e controversie, offrendo un raro scorcio di unità. Tifosi ruandesi e ospiti erano fianco a fianco, uniti dallo spettacolo della gara e dall’emozione pura della competizione”. Insomma, vogliamoci tutti bene, nel nome della bici. Niente politica per carità. Quando entra lo sport, la politica deve starne fuori. Almeno in certi Paesi.
Speciale per Africa ExPress e Senza Bavaglio Eric Salerno
24 settembre 2025
“Nei miei 20 anni di esperienza come avvocato esperto di media, ho sempre considerato gli Stati Uniti il punto di riferimento per la libertà di stampa, un modello ammirato dai giornalisti di tutto il mondo”, ha scritto giorni fa sul Guardian, Kai Falkenberg consulente legale dell’importante giornale. Il primo emendamento della Costituzione americana, finora considerato da tutte le democrazie un modello da seguire, garantisce oltre alla libertà di religione, e di parola, quella fondamentale di stampa.
Nemmeno il Congresso può emanare leggi che limitino queste libertà. Trump sta provando di aggirare la Costituzione con sistemi che vanno da assurde cause miliardarie ai giornali che non si mettono in ginocchio di fronte a proclami come quello recentemente emanato dal Dipartimento della Difesa (da lui cambiato in Dipartimento della Guerra).
Revoca del pass
I giornalisti che seguono il Pentagono, secondo le nuove disposizioni, dovranno promettere che non raccoglieranno alcuna informazione – anche non classificata – che non sia stata espressamente autorizzata per il rilascio, e revocherà le credenziali della stampa di coloro che non obbediscono. Ossia solo possedere informazioni riservate, secondo le nuove regole, sarebbe motivo di revocare il pass stampa di un giornalista.
Le reazioni del mondo della stampa sono state immediate. Per Mike Balsamo, presidente del National Press Club si tratta di “…un assalto diretto al giornalismo indipendente nel settore in cui il controllo indipendente conta più dell’esercito degli Stati Uniti”.
Balsamo ha continuato: “Per generazioni, i giornalisti del Pentagono hanno fornito al pubblico informazioni vitali su come si combattono le guerre, su come vengono spesi i dollari della difesa e su come vengono prese decisioni che mettono a rischio le vite americane. Quel lavoro è stato possibile solo perché i giornalisti potevano cercare i fatti senza bisogno del permesso del governo”.
Quando non è sufficiente, i nemici della democrazia ricorrono ad armi più tradizionali: Dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas al sud di Israele fino all’agosto 2025, almeno 246 reporter sono stati uccisi dalle forze israeliane. Sono cifre di fonte palestinese in gran parte confermate da reti televisive o radiofoniche che avevano trasmesso i loro filmati e i loro racconti dalle zone di guerra.
Mondo agonizzante
Il mondo della carta stampata è agonizzante. Le cifre salvano, di poco, le versioni in rete dei quotidiani più importanti sia in Italia che nel resto del mondo. I giornalisti – come i tipografi qualche anno fa per colpa delle trasformazioni tecnologiche, sono le prime vittime insieme con il grande pubblico che vuole sapere, cercare di capire le realtà dei loro Paesi e del sistema globale che incide sempre di più sul nostro mondo, spesso in modo negativo.
Il progresso, prima radio poi televisione accoppiato ai social che imperversano, sta accelerando la fine della figura stessa del giornalista. Il tempo materiale per capire prima di raccontare è da anni drammaticamente calato. Siamo passati nel giro di una generazione da quando l’inviato di un giornale andava, osservava, cercava di capire e poi al ritorno in redazione aveva il tempo di ragionare prima di scrivere.
Tempi velocizzati e soldi disponibili sempre più ridotti hanno trasformato il giornalista in una specie di twitter per un pubblico sempre meno disponibile a seguire gli approfondimenti. Crollano le vendite dei quotidiani, anche quelli più importanti. Crollano anche il numero delle persone che cercano di seguire e capire attraverso radio e TV.
Le fake news, le notizie false propagate per influenzare il vasto pubblico, sono sempre meno contrastate da chi, per missione, si dedica a raccontare fatti prima di presentare analisi e conclusioni. Il mitico slogan del New York Times che leggevo da ragazzo a New York, “All the news that’s fit to print”, è sempre meno credibile. Era stato creato l’allora proprietario Adolph S. Ochs nel 1896/1897 per dichiarare l’impegno del suo giornale verso un giornalismo equo, imparziale e di alta qualità, distinguendolo dal sensazionalismo del “giornalismo scandalistico” dell’epoca.
Diritti di stampa
“Dopo un secolo di graduale espansione dei diritti di stampa negli Stati Uniti, il Paese sta vivendo il primo significativo e prolungato declino della libertà di stampa nella storia moderna, e il ritorno di Donald Trump alla presidenza sta aggravando notevolmente la situazione”, si legge nel World Press Freedom Index 2025.
In 160 dei 180 Paesi valutati, le testate giornalistiche raggiungono la stabilità finanziaria “con difficoltà” o “per niente”. Nella classifica globale della libertà di stampa l’Italia è scesa al 49° posto su 180 Paesi, perdendo tre posizioni rispetto all’anno precedente e attestandosi come peggior risultato tra i Paesi dell’Europa occidentale. La classifica globale della libertà di stampa nel 2025 ha raggiunto un minimo storico.
Speciale per Africa ExPress Giovanni Verga
Beirut, 23 settembre 2025
Non c’è pace in Libano. A oltre un mese dall’inizio dell’operazione di disarmo di Hezbollah e delle altre milizie armate decisa dal governo, la situazione nel Paese è più che mai incerta e confusa.
La consegna delle armi è iniziata in alcuni campi profughi e prosegue lentamente, ma le resistenze sono ancora molto forti.
Libano: inizio disarmo deciso dal governo
A Dahiyeh, il popoloso e reietto sobborgo sciita a sud di Beirut roccaforte del Partito di Dio, dove si deciderà buona parte delle sorti dell’operazione, si vive un’atmosfera di rabbia e di resistenza.
Bombe da 2000 libbre
Sono quegli stessi sobborghi su cui lo scorso ottobre piovvero bombe da 2000 libbre per annientare le basi di Hezbollah: qui non solo non si parla di ricostruzione, ma le violazioni della tregua sono all’odine del giorno. E’ un quartiere enorme e popolatissimo eppure è una città fantasma, con file di edifici sventrati, quasi nessun servizio pubblico, pochissime attività commerciali, e una vita quotidiana nella paura.
Beirut: sobborgo filo Hezbollah di Dahiyeh
Rana Ali Mahdi, responsabile del Social Development Center “Eid Al Adha” di Bourj al-Barajne, uno dei molti quartieri di Dahiyeh dove c’è uno dei più grandi campi profughi palestinesi del Libano, spiega che in quell’area grande come due o tre medie città italiane, non esiste un qualsiasi spazio pubblico o un servizio sociale funzionante.
Psicosi attacchi improvvisi
Ma oltre alla mancanza di condizioni minime di vita c’è la psicosi dell’attacco improvviso: “Quando è arrivato l’ultimo grande raid tre mesi fa – racconta Rana – sui nostri cellulari è arrivata la chiamata di un portavoce dell’esercito israeliano che avvisava di sgomberare immediatamente alcuni palazzi. La gente in massa si è riversata per strada. A piedi, in scooter (in tre o quattro con bambini) o in auto hanno raggiunto la vicina superstrada, che collega all’aeroporto di Beirut, già più volte bersagliata da quando era partita la prima offensiva nella capitale”.
Poco meno di un’ora dopo è arrivato l’attacco, devastante. Alla fine della serata il bilancio era di 270 appartamenti distrutti, nove edifici polverizzati, 71 altri danneggiati oltre a 177 attività commerciali.
“E’ una strategia voluta per prostrare la popolazione e obbligarci ad andarcene – spiega ancora -. Non ci danno più di 20 o 30 minuti prima di iniziare a bombardare. Chi vive qui non ha il tempo di scappare. Come si può fuggire da casa propria, con i familiari, le proprie cose, i propri beni in meno di un’ora, sapendo che al ritorno si potrebbe ritrovare tutto in macerie?”.
Beirut, sobborgo di Dahiyeh
E’ un fatto che da ottobre scorso migliaia di persone hanno dovuto lasciare le loro case. Per dove? C’è chi va da parenti in zone sicure come Mount Lebanon o in rifugi che sono stati allestiti da volontari. Ben pochi infatti hanno denaro per affittare una stanza.
Indebolire resistenza
Rana, come quasi tutti qui, sostiene che gli obiettivi degli attacchi siano un pretesto. ”Noi crediamo che vengano lanciati questi raid all’improvviso per fiaccare la nostra resistenza, tenendoci nel timore continuo di perdere tutto. Anche se la tua casa non viene colpita, tu e tutto il quartiere ti senti destabilizzato”.
Dahiyeh è da decenni una spina nel fianco di Israele. Proprio qui una ventina d’anni fa è nata la strategia israeliana nota come “Dottrina Dahiyeh “, applicata costantemente da allora in vari scenari di guerra, che prevede di adottare deliberatamente una “forza sproporzionata” contro obiettivi civili con l’intento di spingere la popolazione a rivoltarsi contro Hezbollah o ad andarsene.
Una tattica di “combattimento asimmetrico”, motivato da un nemico che non ha un vero e proprio esercito regolare ma che è profondamente radicato all’interno della popolazione civile. Tuttavia sembra che i risultati siano opposti: ogni volta che la città viene colpita in questo modo, il sostegno ai combattenti aumenta, tanto che quando il quartiere fu quasi raso al suolo nel 2006 il consenso salì alle stelle, e alle ultime elezioni amministrative di maggio il Partito di Dio ha avuto un notevole successo, qui e nel sud del Libano martellato dai bombardamenti.
Famiglie allo stremo
“Quelli che sono rimasti – commenta Rana – tengono costantemente sotto occhio il contatto del portavoce dell’esercito su X o sul telefono. Noi qui subiamo la doppia pressione della tattica israeliana per esasperarci e del collasso dell’economia che ha vanificato i risparmi e portato ad un’inflazione a due zeri”.
Le famiglie sono allo stremo, ma nonostante la perdita del senso di sicurezza e le voragini lasciate dai palazzi bombardati, gli abitanti di Dahiyeh sembrano determinati a non cedere. “Lo stress economico e la mancanza di sicurezza ci hanno prostrato, ma non ce ne andiamo – dicono Mariam Ballout e Khaldieh Al Khatib, due madri del quartiere -. Il nostro problema principale sono i bambini, che non hanno le condizioni minime per crescere e crearsi un futuro. Sono colpiti in ogni campo, familiare, sociale, scolastico, amicale.
Quelli rimasti senza casa per i bombardamenti devono aiutare i genitori e portare qualche soldo per sopravvivere. E in questa situazione di certo non possono arrivare aiuti o sostegno da parte del governo, legati alla consegna delle armi. Il disarmo di Hezbollah è stato messo in capo all’esercito libanese, ma noi non crediamo che ci riuscirà”.
Anche le organizzazioni religiose non sciite hanno molti timori. Padre Jihad Krayem, francescano della Custodia di Terrasanta in Libano nel centrale quartiere di Asharief, dove all’opposto di Dahiyeh c’è un fervore di cantieri e un commercio vivace, ha visto tutte le fasi del declino del Libano negli ultimi decenni e non vede una soluzione vicina.
Aerei e droni a bassa quota
“L’impegno di consegnare le armi, previsto già dalla tregua in cambio della fine delle incursioni, è poco credibile. Qui a Beirut noi sentiamo ogni giorno droni e anche aerei militari che sorvolano a bassa quota, contrariamente a quanto stabilito dagli accordi. Ma c’è un’altra lezione che tanti non hanno dimenticato, e che riporta indietro agli anni più bui del Libano”, spiega il religioso.
“La consegna delle armi da parte delle milizie sciite – è il suo pensiero – dovrebbe avvenire spontaneamente, non essere imposta dalle forze armate come accadde nel 1975 con i miliziani dei campi palestinesi. Ma dev’essere chiaro che non è realizzabile il piano israeliano di voler estirpare con la forza il partito di Dio da questi quartieri. Quasi tutte le famiglie lì hanno un familiare, un fratello, un figlio in qualche modo legato a Hezbollah, e centinaia sono morti. La popolazione non si sente protetta dallo Stato, in queste condizioni continuerà a volersi difendere da sé”.
Speciale Per Africa ExPress Paolo Sbacchi
22 Settembre 2025
Se ancora qualcuno, ingenuamente, spera che Trump possa contribuire alla fine del genocidio a Gaza o all’occupazione illegale in Cisgiordania, coltiva una fatua illusione. Un coacervo di ragioni economiche, politiche e familiari, avvalorate dai esternazioni di Trump o figure a lui referenti, rendono ad oggi assolutamente impossibile l’avverarsi di tale auspicio di pacificazione. Ecco le ragioni che dimostrano quanto Trump sia un ferreo sostenitore di Netanyahu.
Interessi elettorali
L’attuale presidente USA a fine 2024 ha dichiarato: “Se volete che Israele sopravviva dovete votare Donald Trump. Siete sotto attacco come mai prima. Io sono il presidente più pro-Israele, Kamala Harris invece è anti-Israele”.
L’ultima campagna elettorale di Trump è stata finanziata dalla miliardaria israeliana Miriam Adelson, la quinta donna più ricca degli USA, per 100 milioni di dollari mentre nella campagna del 2016 i coniugi Adelson finanziarono Trump per 25 milioni di dollari.
Interessi militari
Uno dei primi atti firmati dal neoeletto presidente americano a fine gennaio 2025 è stato quello di revocare il blocco, imposto alcuni mesi prima da Biden, sulla fornitura a Israele delle super-bombe da 2.000 libbre (900 kg).
Il 5 febbraio 2025 Netanyahu è stato il primo leader straniero a visitare la Casa Bianca dall’inizio del secondo mandato di Trump e lo ha così ringraziato così: “Sei il nostro più grande amico” .
Il padre del genero di Trump, Charles Kushner, ospitava a casa propria l’amico di famiglia Netanyahu in occasione dei suoi viaggi negli USA, ancor prima che divenisse primo ministro.
A gennaio 2025 il neo nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, ha dichiarato alla radio dell’esercito israeliano che “Trump appoggerà il governo israeliano nell‘annessione degli insediamenti in Cisgiordania.”
La nuova ambasciatrice degli USA all’ONU, Elise Stefanik, ha affermato che Tel Aviv ha un “diritto biblico sull’intera Cisgiordania” e che “gli Stati Uniti devono stare incondizionatamente con Israele all’Onu”.
Progetti imprenditoriali
A febbraio 2025 Trump ha dichiarato: “Mi impegno ad acquistare e controllare Gaza” precisando che la vorrebbe trasformare nella “riviera del Medio Oriente” e che “I palestinesi non avranno diritto a ritornare perché avranno alloggi migliori”.
Il Jerusalem Post il 3 maggio 2024 pubblicava online la visione di Netanyahu a Gaza al 2035, che poi si rivelerà condivisa con Trump, così immaginata:
Gaza pullula di lussuosi grattacieli, ferrovie, corsi d’acqua, campi solari e stazioni di estrazione del gas dal giacimento marino “Gaza Marine” ubicato nella porzione di mare, che gli accordi di Oslo hanno assegnato alla Palestina.
E’ impossibile poi non citare l’osceno video creato dal presidente degli Stati Uniti con l’intelligenza artificiale (in inglese AI)che lo raffigura a Gaza flirtare con una ballerina del ventre seminuda e sorseggiare un cocktail al fianco del primo ministro israeliano, distesi in costume da bagno su due sdraio. E come sfondo i nuovi lussuosi grattacieli costruiti sulle macerie della terra palestinese.
Infine a fine agosto anche la ministra della scienza israeliana realizza un nuovo video con l’AI dove si vedono Trump e Netanyahu passeggiare con le mogli sul lungomare di Gaza, privo di palestinesi, ai piedi di una scintillante “Trump Tower”.
Relazioni economiche
A gennaio 2025 il genero di Trump Gerard Kuschner, ebreo di famiglia, viene ricevuto a Tel Aviv da Netanyahu e diventa primo azionista di un colosso israeliano Phoenix Financial Ltd attivo nei finanziamenti immobiliari nei territori occupati.
L’inviato speciale USA per il medio oriente, Seve Witkoff, prima della seconda elezione di Trump si è recato in Cisgiordania per inaugurare una colonia illegale israeliana sui territori occupati della Cisgiordania. Profeticamente sulla facciata di una casa della nuova colonia illegale campeggiava la scritta “We’ll make Israel great again.”
Trump ha sanzionato a febbraio 2025 tutti i componenti della Corte Penale Internazionale dell’Aia in quanto avevano osato emettere il 21 novembre 2024 un mandato di cattura internazionale contro l’amico Netanyahu per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza.
A marzo 2025 Marco Rubio ha annunciato l’espulsione dagli USA di 300 studenti stranieri nell’ambito del programma “Catch and Revoke” finalizzato ad espellere coloro che hanno semplicemente partecipato a manifestazioni a favore della Palestina.
A maggio 2025 per volere di Trump e Netanyahu è stata creata la Gaza Humanitarian Foundation imposta da Israele come unica distributrice degli aiuti nella striscia di Gaza. Dopo poche settimane, e centinaia di gazawi assassinati in fila per ricevere cibo, l’ONU e decine di ONG hanno accusato la GHF di essere un’arma di pressione politica e militare.
La “Riviera di Gaza”
Il genero di Trump Gerard Kuschner e l’ex premier Tony Blair il 28 agosto 2025 hanno presentato in un incontro riservato con il presidente USA alla Casa Bianca, presenti anche l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff e Marco Rubio, le loro idee sul dopoguerra a Gaza ovvero i dettagli del piano “Aurora” che prevede la ricostruzione nella Striscia di una lussuosa Gaza-riviera previa deportazione di tutti i gazawi.
Trump ha sanzionato, alla stregua dei peggiori terroristi, anche la nostra Francesca Albanese rea di aver scritto il rapporto intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, evidenziando il ruolo complice che 44 major “entità aziendali” mondiali hanno nel sostenere il progetto coloniale israeliano di sfollamento e occupazione.
A fine agosto Trump ha revocato ai membri dell’OLP e dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) i visti per partecipare all’assemblea dell’ONU di settembre come ritorsione agli annunci di alcuni Stati europei di riconoscere la Palestina in quell’occasione.
Da ricordare infine che nel 2020 Trump ha promosso la stipula degli Accordi di Abramo per “aprire” i rapporti tra Israele e alcuni Stati arabi tra cui gli Emirati Arabi.
Con una cerimonia solenne il 17 luglio scorso l’esercito francese ha ritirato le ultime truppe dal Senegal, colonizzata nel 1626 e indipendente dal 1960.
Parigi ha chiuso così la sua permanenza militare nell’Africa occidentale e centrale – dove negli ultimi decenni il suo aiuto è stato richiesto per contrastare vari gruppi jihadisti – ma, bon gré mal gré, ha lasciato definitivamente tutte le basi in Mali nel 2022, e inseguito anche nel Burkina Faso, Niger, Ciad, Costa d’Avorio e Gabon dove la base francese è stata riconvertita in un campo cogestito per la formazione.
Questi Paesi resteranno partner della République ma alla pari.
Il ridimensionamento della presenza francese non è che una fase del continuo mutamento che vede l’Africa tutt’altro che immune da forme di neocolonialismo e, in aggiunta, arena di giochi politici lontani migliaia di chilometri.
Potenze straniere
Piccole e grandi potenze straniere con nuove modalità di “investimento” restano infatti dipendenti dalle ingenti materie prime del continente africano per il proprio fabbisogno commerciale, economico, energetico.
In ballo ci sono l’accesso alle terre rare, l’influenza diplomatica nei voti all’ONU, commesse per infrastrutture strategiche, un mercato che nel 2050 conterà due miliardi e mezzo di africani. Dall’interesse economico a quello geopolitico il passo è breve, anzi brevissimo, e viceversa.
Parlare delle vicende e dei tanti conflitti africani sarebbe quindi naturale se non doveroso, come ha sottolineato Massimo Alberizzi giorni fa paragonando la insufficiente copertura mediatica delle guerre africane rispetto a quella riservata a Gaza.
Pestare i piedi
Ma significherebbe anche pestare i piedi a grandi, piccole e medie potenze con le quali l’Italia e l’Europa intrecciano interessi vitali.
Quando nel 2019 l’allora ministro degli affari esteri Luigi Di Maio e l’allora deputata di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni sollevarono la questione del franco CFA – a cambio fisso con l’euro e oggi rimpiazzato dall’ECO – come causa dell’impoverimento dei Paesi africani e quindi alla base dell’immigrazione sulle nostre coste, ci fu una levata di scudi.
In questi ultimi anni la Francia ha dovuto reimpostare la sua strategia in Africa: se ci riuscirà o se il sistema del Francafrique, comunque sopravvissuto dietro le quinte delle dichiarazioni ufficiali sulla fine del colonialismo, sia al tramonto come sostiene qualcuno, lo si vedrà.
Oltre alla Francia e alla Cina – attiva sul versante delle infrastrutture assicurandosi la fedeltà commerciale dei beneficiari –, la Russia, presente coi mercenari della ex Wagner disponibili per la sicurezza sia dei governi che delle opere di estrazione, avrebbe in Africa un terreno di confronto aggiuntivo alla guerra con l’Ucraina che, scrive Giulio Albanese, si sta impegnando coi Paesi africani per sfidare il predominio russo sia sul piano diplomatico sia, dove possibile, su quello militare.
Intanto nel continente africano si stanno affacciando nuovi protagonisti come gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran e l’India.
Trent’anni di guerra in Somalia
La guerra civile in Somalia, che dura da trent’anni, è a sua volta teatro di interessi di Paesi quali la Cina, l’Egitto e la Turchia e di manovre geopolitiche, di giochi di influenze.
Le guerre che hanno sconvolto (e sconvolgono ancora) la Repubblica Democratica del Congo dagli anni ’90, hanno sempre avuto due denominatori comuni: le motivazioni etniche sì ma anche il possesso delle risorse, e sullo sfondo Stati Uniti, Francia e Cina.
La RDC continua a rappresentare una tragedia umanitaria di dimensioni enormi, come il Darfur e altri focolai di guerra tra fame, morti e sfollati, uguali, ugualissimi a quelli di Gaza e non meno degni di attenzione, parimenti accompagnati da implicazioni che ci riguardano.
Piano Mattei
Per ultimo il Piano Mattei, che oltre al contrasto al terrorismo pone come obiettivo, in subordine alla migrazione dall’Africa, la questione dell’approvvigionamento energetico, ancora più urgente dopo il niet europeo al gas russo.
Fare dell’Italia, grazie alla presenza consolidata dell’ENI in Africa, un hub energetico di raccordo tra il continente africano e l’Europa, è l’obiettivo che porterebbe l’Italia ben oltre la cooperazione allo sviluppo assegnandole un ruolo di rilievo in Africa e, forse nell’ambito di un recuperato multilateralismo in politica estera, all’interno dell’Unione Europea.
Una partita tutta da giocare sui versanti di qua e di là del Mediterraneo, dove i giornalisti dovrebbero ficcherei il naso, come hanno fatto nelle prigioni libiche, perché l’informazione non ha zone franche.
Emanuela Ulivi
Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.