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Israele ha ammazzato 31 giornalisti in Yemen, ma nessuno ne parla

Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
16 settembre 2025

Trentuno giornalisti yemeniti sono stati uccisi e ventidue feriti nel massiccio attacco missilistico israeliano di inizio settembre, ma la notizia dell’omicidio dei reporter non è stata data da nessun media occidentale di peso, tantomeno italiano.

Sono stati infatti colpite le redazioni di due giornali che si chiamano 26 Settembre e Al-Yemen.

Il primo è considerato portavoce militare, il secondo è il quotidiano più letto del Paese. Il 16 settembre ci sono stati i funerali nella capitale Sanaa e nello Yemen sono stati giorni di lutto e commemorazioni.

Qui due video dell’attacco.

L’Unione dei giornalisti yemeniti ha condannato “l’odioso crimine di guerra commesso dalla brutale aggressione di mercoledì 10 settembre che ha preso di mira espressamente i giornali 26 Settembre e Al-Yemen che hanno sede nella capitale”.

Reazione all’attacco

Lunedì per reazione all’attacco e per dimostrare che i giornalisti sopravissuti non si arrendono il giornale 26 Settembre ha pubblicato il numero n. 2425.

Il governo yemenita ha detto che la comunità internazionale e le Nazioni Unite sono responsabili del loro silenzio e ha chiesto alle ong, alle associazioni che difendono i diritti umani e alla società civile di intraprendere delle azioni e condannare i crimini.

L’attacco al Centro informazione in una zona residenziale di Sanaa

Nel bombardamento del 10 sono state uccise a Sanaa un totale di 46 persone (fonte governo yemenita) e sono state ferite almeno 165 persone, tra cui anche Mansour al-Ansi membro eletto del sindacato dei giornalisti.

Vendetta per un drone

Secondo l’Associated Press l’attacco israeliano è stata una vendetta per un drone degli Houti che aveva raggiunto poche ore prima un areoporto israeliano, quello di Ramon nel sud del paese vicino a Eilat, dove è stata ferita una persona e si sono infranti dei vetri.

Gli Houti rivendicano di aver bucato il sistema difensivo aereo di Israele e dichiarano che l’area del Negev è occupata illegalmente dallo Stato di Israele e chiamano Eilat col nome arabo di Umm al-Rashrash.

Aree residenziali

L’attacco ha colpito aree residenziali, in specifico shara (via) 26 Settembre dove in un palazzo all’angolo con piazza Tahrir c’è il cosidetto Centro stampa dove ha sede anche il “Dipartimento di orientamento morale e informazione”. Anche il Museo nazionale è stato danneggiato.

Il portavoce degli Houti, il Generale Yahya Saree, ha raccontato che il suo gruppo ha inviato otto droni su Israele e che “ci sarà un’escalation militare e non ci tireremo indietro sul nostro supporto a Gaza”.

Aeroporti insicuri

Ha poi aggiunto che gli aeroporti israeliani “non sono sicuri e saranno un target continuo”. Molte compagnie aeree europee hanno sospeso i voli da e per Israele (Tel Aviv) fino al 31 ottobre.

L’attacco conferma ancora una volta l’intento del governo israeliano di colpire i giornalisti in quando osservatori e reporter e testimoni delle guerre in corso.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Vittoria epocale per il Botswana: oro e bronzo nei 400 metri maschili

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
19 settembre 2025

“Avere tre atleti del Botswana in questa finale dimostra che stiamo crescendo: stiamo davvero migliorando come Botswana e come Africa”. Così parlò uno dei “diamanti umani” del Botswana, che ha vinto contro il resto del mondo, grazie, appunto, ai suoi diamanti.

Il motswana Busang Collen Kebinatshipi, medaglia d’oro ai 400 m piani

No, non a quelli di carbonio cristallizzato che costituiscono una delle pietre preziose più pregiate. E che, come ha pubblicato proprio l’altro giorno Africa Express, a causa del crollo dei prezzi sui mercati internazionali sta mettendo in crisi lo stato di salute dei batswana.

Nuovi diamanti

Strane coincidenze: mentre quella che per decenni è stata considerata una manna del cielo si sta ora trasformando in una “maledetta” risorsa, altri diamanti in carne e ossa hanno segnato una data storica per il paese spopolato e desertico, senza sbocco sul mare e la cui capitale, Gaborone, forse pochi conoscono. (Come, forse, non tutti ricordano che il Botswana è la terra dei boscimani e del deserto Kalahari…)

Sotto la pioggia battente, tre giovani atleti  hanno infiammato e illuminato, giovedì 18 settembre, il pubblico dello stadio nazionale di Tokyo nella sesta giornata dei mondiali di Atletica. Nei 400 metri piani maschili ben tre i finalisti del Botswana e due le medaglie conquistate.

Terzetto

Uno del terzetto, appena ventunenne, esile, agile, elegante, si è impadronito imperiosamente (è stato sempre in testa) dell’oro: si chiama Busang Collen Kebinatshipi. Ha segnato un tempo che fa clamore: 43.53, e nelle semifinali aveva fermato i cronometri su 43.61! Fiero di aver fatto entrare la sua nazione nella storia dell’Atletica con questa prima medaglia mondiale, ha lasciato alle sue spalle il trentunenne di Trinidad e Tobago, Jereem Richards, giunto ormai al termine di una brillante carriera.

Un altro proveniente da Gaborone, Bayapo Ndori, 24 anni, ha conquistato la medaglia di bronzo, mentre ai giochi olimpici in Francia aveva ottenuto l’argento nella staffetta 4×400. L’unico rappresentante degli Stati Uniti, Paese abituato a dominare la corsa, Jacory Patterson, 25 anni, si è classificato settimo davanti al terzo connazionale del vincitore, Lee Bhekempilo EPPIE, 26 anni. Quinto è arrivato il sudafricano Zakithi Nene, 27 anni, già detentore del miglior tempo mondiale.

“Questo è il mio primo titolo ed è una sensazione pazzesca – ha commentato con Worldathletics.org Kebinatshipi. “Dopo la semifinale ho iniziato davvero a credere in me stesso. Mi sono detto di partire veloce e di fare meglio che in semifinale. La medaglia è stata solo un bonus. Essere riusciti a stabilire il record nazionale ed essere primo al mondo è fantastico. Ho ancora la staffetta da correre, penso che potremo essere in lizza per l’oro. Avere tre atleti del Botswana in questa finale dimostra che stiamo crescendo: stiamo davvero migliorando come Botswana e come Africa”.

Abbiamo fatto la storia 

Ha aggiunto Bayapo Ndori: “Sì. per l’Africa e il Botswana abbiamo fatto la storia. Il mio obiettivo era finire sul podio, con qualsiasi medaglia. Sono felice, ce l’ho fatta. E penso che in Botswana ci sarà una grande festa.

“Il nostro segreto? Essere disciplinati, studiare i veterani e imparare da loro”. Un primo segnale della nuova vague di sprinter africani era giunto da Parigi con Letsile Tebogo, unico atleta botswano a conquistare una medaglia d’oro olimpica (200 metri). In suo onore era stata coniata la moneta di 50 pula.

Ora l’ondata sta diventando impetuosa e lo ha ribadito Kebinatshipi, ha davanti a sè un decennio splendente come l’oro, se non proprio come i… diamanti.

Costantino Muscau                       
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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In Botswana è crollato il mercato dei diamanti: niente più farmaci negli ospedali

 

Eritrea 18 settembre 2001: inizio della feroce dittatura di Isaias Aferworki

Africa ExPress
18 settembre 2025

Molti giovani e giovanissimi che oggi fuggono sempre più numerosi dal regime di Isaias Aferworki non erano ancora nati il 18 settembre 2001, una data che però è e resterà impressa per sempre in tutti gli eritrei.

Tale giorno segna l’inizio della dittatura, la fine della democrazia nella ex colonia italiana. Isaias, combattente per la libertà nella guerra di liberazione, ha trasformato il Paese in un regime infernale.

Arrestati dissidenti

All’alba de 18 settembre 2001, le forze di sicurezza del presidente-dittatore hanno fatto irruzione con blitz simultanei nelle abitazioni di 11 dissidenti, quasi tutti sorpresi nel sonno.

Tutti dirigenti FPLE

Non erano persone qualsiasi. Erano tutti ministri, ex ministri, veterani della rivoluzione, ex compagni di lotta dell’attuale presidente, al potere da oltre 30 anni. La loro colpa? In una lettera aperta, pubblicata nel marzo 2001, un gruppo di alti funzionari governativi, poi noto come G-15, aveva accusato Isaias Aferworki di abusare dei propri poteri e di diventare sempre più autocratico. Avevano chiesto l’attuazione della Costituzione e libere elezioni.

Nessun processo equo

Gli 11 sono stati messi tutti a tacere. Sbattuti in putride galere, senza capi d’accusa formali e nessuno di loro ha mai goduto di un diritto fondamentale: un equo processo. Gli speciali tribunali militari non ammettono la presenza di avvocati difensori, dettano la sentenza che viene immediatamente applicata, senza possibilità di appello. E oggi, dopo 24 anni, di molti non si sa se siano ancora vivi o già morti.

Nel corso degli anni gli ex amici del presidente non hanno mai potuto avere contatti con l’esterno; hanno vissuto nel più completo isolamento. Solo rare volte alcune notizie arrivano all’esterno tramite i carcerieri che li hanno incontrati durante la prigionia.

Nuovi arresti

Pochi giorni dopo l’arresto degli alti quadri politici, tra il 21 e il 23 settembre gli uomini del governo proseguono con fermi di giornalisti e editori che hanno avuto l’audacia di sollevare perplessità per i dissidenti sbattuti in galera. Tutti sono ancora oggi in attesa di processi equi, ovviamente mai voluti per evitare che durante i dibattimenti si arrivasse alla verità.

In questi anni, alcuni dei detenuti arbitrariamente sono morti. Nel 2018 è deceduto Haile Woldetensae, detto Duro, ministro degli Esteri fino al 2001, altri tre “dissidenti” del G15 lo hanno preceduto anni prima: Mohamoud Sherifo (ministro degli Interni), Ogboe Abraha (ministro degli Affari Sociali) e Seyoum Ogbamichael.

Vietato criticare 

Poco più di una anno fa è morto un altro ex ministro, Berhane Abrehe. Non faceva parte del G15, è stato arrestato nel settembre 2018, dopo aver pubblicato le sue dure e mirate osservazioni al regime. Berhane è stato ministro delle Finanze dal 2001 al 2012.

Anche lui, come molti altri eritrei è stato sbattuto in galera senza un reale capo di accusa e quindi senza un equo processo. Il figlio Ephrem vive all’estero. E’ scappato anni fa dall’Eritrea, Paese che ormai da molti viene definito una prigione a cielo aperto.

UNHRC rinnova mandato

Basti pensare che il Consiglio dei Diritti Umani (UNHRC), organismo delle Nazioni Unite, ha bocciato a stragrande maggioranza la mozione di Asmara per porre fine al mandato di un esperto indipendente, incaricato di indagare sulle possibili violazioni dei diritti fondamentali nel Paese.

Il Consiglio non solo ha rigettato la richiesta dell’Eritrea, ma ha esteso per un altro anno il mandato dell’esperto indipendente dell’ONU, il sudanese Mohamed Abdelsalam Babiker, professore associato di diritto internazionale presso l’università di Khartoum e fondatore e direttore del Centro per i diritti umani dell’ateneo.

L’oppressione continua

Nel suo ultimo rapporto l’esperto ha spiegato che Il Paese non ha mostrato progressi significativi in tutti questi anni”. Ha poi sottolineato che molti abusi sono legati al servizio militare/civile indeterminato, al quale è quasi impossibile sottrarsi.

La relazione evidenzia anche la mancanza di libertà di espressione, di associazione, di riunione, di religione e il diritto di partecipare agli affari pubblici sono di fatto inesistenti. Vengono concessi solo previa approvazione del governo e a coloro che si allineano alle posizioni delle autorità. Nel 2024, l’Eritrea è stata classificata come il peggior Paese per la libertà di stampa a livello globale e rimane l’unico Stato africano senza media privati.

Anche la libertà di religione resta illusoria. Basti pensare che ad aprile 2025, 64 testimoni di Geova e tra 300 e 500 cristiani evangelici, erano in galera, senza accuse e processo.

La lista degli abusi dei diritti umani in Eritrea è lunga, per non parlare dei giovani che, dopo essere fuggiti, se rispediti in patria, vengono buttati in carcere o arruolati a forza. Sono state riportate anche numerose sparizioni.

Tutte bugie, lo Stato provvede a tutto

Eppure il 25 luglio 2025 Rai3 ha trasmesso un reportage di Francesca Ronchin e Salomon Mebrahtu intitolato “ La grande bugia – Eritrea andata e ritorno”. La giornalista ha anche intervistato Yemane Gebrehab. Il consigliere politico del dittatore sostiene che nel suo Paese vengono raccontato solo bugie. “Qui nessuno muore di fame. Lo Stato provvede al sostentamento di tutti gli abitanti”.

La nostra premier, Giorgia Meloni e Isaias Aferworki, presidente eritreo

Nel filmato vengono intervistate alcune persone, residenti e eritrei venuti in vacanza dall’estero. Chi ha parlato ai microfoni dei giornalisti, sostiene che si può ritornare in Eritrea senza problemi. Forse hanno dimenticano che fine fanno coloro che vengono rimpatriati forzatamente.

Nessun accenno alla chiusura della scuola italiana. Lo storico istituto, fondata nel 1903, ha terminato il suo lungo iter di formazione di giovani eritrei nel settembre 2020. Eppure nel documentario non mancano gli elogi a Asmara, soprannominata “La piccola Roma”, riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO dal 2017.

Africa ExPress
@africexp
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Morto cieco in carcere l’eroe “Duro”: credeva in un’Eritrea democratica sbattuto in galera

Arrestato ad Asmara l’ex ministro dell’Economia Berhane Abrehe

In Botswana è crollato il mercato dei diamanti: niente più farmaci negli ospedali

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
17 settembre 2025

“La catena di approvvigionamento medico gestita dai magazzini centrali è fallita. Questo fallimento ha causato una grave interruzione nelle forniture sanitarie in tutto il Paese”. Sono le dichiarazioni alla nazione alla fine di agosto in televisione del presidente del Botswana, Duma Boko, sulla mancanza dei farmaci.

Nel suo discorso Boko ha annunciato che il ministero delle finanze aveva approvato 250 milioni di pula (circa 16 milioni di euro) in sussidi urgenti. Sarà l’esercito a gestire la distribuzione di emergenza dei farmaci dalla capitale, Gaborone, alle aree remote del Paese.

Mappa del Botswana
Mappa dell’Africa meridionale (Courtesy Google Maps)

Finiti i farmaci

Il mese scorso il ministero della Salute, in un comunicato, aveva annunciato un debito di 1 miliardo di pula (quasi 64 milioni di euro) verso strutture sanitarie e fornitori privati. I medicinali per curare ipertensione, cancro, diabete, tubercolosi, patologie oculari, asma, salute sessuale e riproduttiva e disturbi mentali stavano finendo.

I motivi che hanno portato all’emergenza sanitaria nel Paese, secondo il capo dello Stato, sono vari. I prezzi di acquisto gonfiati dei medicinali e perdite, sprechi e danni causati dai sistemi di distribuzione e la corruzione.

Il Botswana vive di diamanti e turismo. Con un territorio semidesertico grande il doppio dell’Italia, ha quasi 2,3 milioni di abitanti ed è il maggior produttore di diamanti del pianeta. Dopo il Sudafrica è tra i Paesi con il livello di benessere più elevato dell’Africa sub-saharaiana e i suoi cittadini hanno un reddito pro-capite di circa 7.000 euro (2024). Come fa ad avere una crisi di queste proporzioni e alti livelli di disoccupazione?

La tempesta perfetta

Cosa c’entra la crisi della Sanità pubblica con i diamanti? Il maggior fornitore di diamanti del pianeta non dovrebbe essere un Paese ricchissimo? Teoricamente sì, ma l’industria dei diamanti artificiali ha messo in crisi quella diamantifera mondiale, compresa quella del Botswana.

Questo brillante dai mille riflessi, creato artificialmente, costa fino al 40 per cento in meno del diamante naturale. Le pietre sintetiche stanno quindi sottraendo mercato ai diamanti naturali. Una crisi che ha messo sotto pressione l’economia del Paese sudafricano. I diamanti contribuiscono, infatti, per l’80 per cento delle esportazioni e per quasi un terzo delle entrate fiscali.

Botswana diamanti
Diamanti, il Botswana è il maggior produttore del pianeta

Nuova generazione al potere

Duma Boko, 56 anni, laureato in giurisprudenza ad Harvard, eletto presidente nell’ottobre 2024, è il rappresentante della nuova generazione di politici. Con il suo partito, Umbrella for Democratic Change (UDC), dopo 58 anni, ha spodestato il Botswana Democratic Party (BDP) di Mokgweetsi Masisi. L’ UDC, ha ottenuto 36 seggi su 61 ma si trova a dover risolvere parecchi problemi.

Primo fra tutti la disoccupazione che arriva al 27 per cento. La sfida maggiore è risolvere la disoccupazione giovanile: la popolazione sotto i 35 anni, ha un tasso che supera il 40 per cento. Sono coloro che hanno votato l’UDC e contano su Duma che ha promesso 400 mila posti di lavoro entro i prossimi 5 anni.

Debswana Jwaneng Mine miniera diamanti Botswana
Botswana, la miniera di diamanti Debswana Jwaneng Mine (Courtesy Google Maps)

Diversificare l’economia

La crisi dell’industria diamantifera ha confermato che è necessaria la diversificazione economica. Nei piani di Duma ci sono progetti per aumentare la partecipazione statale nelle vendite diamantifere e l’acquisto di quote maggiorate su De Beers oltre a investimenti in altri settori.

Tra i programmi del neo presidente c’è anche anche la creazione di partnership internazionali. Ma secondo gli osservatori, per stabilizzare la grave situazione attuale sono necessarie riforme nella governance del settore statale e una gestione trasparente del denaro pubblico.

Duma Boko sembra avere tutti i numeri per risolvere i problemi del Paese e ha l’appoggio dei giovani. Vediamo cosa avrà ottenuto alla fine del suo mandato.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

X (ex Twitter):
@sand_pin
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Bracconieri in azione in Botswana: i rinoceronti rischiano l’estinzione per il ricco mercato delle corna in Cina

Botswana, elicottero della polizia spara su boscimani che cacciano e precipita

Un’istantanea fantastica in Botswana: un coccodrillo prende il sole sulla schiena di un ippopotamo

Botswana, giudice vieta di seppellire anziano boscimano nella terra degli avi

Dura accusa delle Nazioni Unite: “A Gaza è genocidio”

Spaciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
16 settembre 2025

Dopo 77 anni di colonialismo, un numero di vittime incalcolabili, e più di 65 mila morti dal 7 ottobre 2023, la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est e Israele (Coi), ha presentato il rapporto che definisce “genocidio” la violenta e aggressiva politica israeliana a Gaza e Cisgiordania.

“Le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nei confronti della popolazione palestinese di Gaza”, hanno dichiarato i commissari durante la 60ª sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

La commissione ONU conferma quello che scriviamo da due anni: abbiamo parlato dei crimini di Hamas. Ma nessun crimine, per quanto grave, giustifica uno sterminio di massa o un genocidio.

“Esistono motivi ragionevoli per affermare che le forze e le autorità israeliane hanno commesso quattro atti proibiti dalla Convenzione sul genocidio, ossia: uccidere membri del gruppo, infliggere loro gravi danni fisici o mentali, imporre deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale, imporre misure volte a impedire le nascite”, denuncia la Commissione di inchiesta.

La reazione ai crimini del 7 ottobre non può essere la pulizia etnica. Rispondere all’atrocità con un massacro significa calpestare il diritto internazionale e abbandonare gli stessi valori della convenzione sul genocidio, creati per proteggere tutti senza discriminazioni.

Nessuno potrà dire di non sapere

Grazie ai giornalisti palestinesi, oggi il mondo ha a disposizione prove inconfutabili che condannano Israele: “Le autorità e le forze israeliane hanno avuto e continuano ad avere l’intento genocidario di distruggere, in tutto o in parte, la popolazione palestinese della Striscia di Gaza”, si legge nel rapporto.

L’impunità con cui i ministri del governo sionista hanno pubblicamente ammesso il loro progetto coloniale “costituiscono testimonianze dirette dell’intento genocidario, mentre il modello di condotta delle forze israeliane fornisce prove indirette sufficienti a farne derivare come unica deduzione ragionevole l’esistenza di tale intento”, afferma l’Onu.

La politica colonialista genocidaria sta cancellando anche quello che rimane di West Bank. Lo stesso intento di distruggere il popolo occupato potrebbe estendersi “al resto del Territorio palestinese, ossia alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est”, riporta il documento.

Questa non è una guerra. Un esercito occupante che cancella dalla faccia della terra una popolazione intera si chiama genocidio.

Valentina Vergani Gavoni
X: @africexp
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Qatar: “Basta svendere la nostra dignità. Fermiamo Israele”

Spaciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
16 settembre 2025

Il delirio di onnipotenza, che guida le politiche colonialiste di Israele e Stati Uniti, sta destabilizzando l’equilibrio geopolitico mondiale. L’impunità con cui viene applicata la legge del più forte contro il più debole, nonostante gli interessi economici in questione, sta però generando un effetto boomerang.

Come riporta il quotidiano qatariota Al Arab, Doha risponde all’aggressione israeliana invocando una resistenza internazionale al tentativo di egemonia militare sionista.

“Gli Stati del Golfo e il Consiglio di Cooperazione devono prendere misure immediate e pratiche: rescindere gli accordi di sicurezza con Tel Aviv, ritirare gli ambasciatori, imporre sanzioni economiche e diplomatiche e chiudere lo spazio aereo e i porti a qualsiasi attività israeliana. Questo non è un gioco politico, ma una lotta per il destino. Procrastinare è un crimine di per sé”, si legge nell’articolo.

Quotidiano del Qatar “Al Arab” del 14 settembre 2025

L’appello è rivolto a tutti i Paesi: “Il mondo è chiamato a condannare esplicitamente e ad adottare misure concrete”. Per il Qatar occorre “una chiara dichiarazione esecutiva, che includa misure tangibili, che isolino questa entità sionista politicamente, economicamente e diplomaticamente fino a quando non ritiri le sue politiche terroristiche. Il conflitto non è più limitato a Gaza; anzi, si è esteso”, riporta il quotidiano Al Arab.

“La storia lo richiede a gran voce ora. Il popolo non può più tollerare umiliazioni e degradazioni, e la rabbia sta montando nelle strade. Nessuna condanna senza azione, nessuna dichiarazione senza attuazione, a meno che non vengano prese decisioni coraggiose e convincenti a livello diplomatico, economico e politico”.

No alla corruzione

È ormai evidente a tutti che nessuno ha davvero la forza, o il potere, di fermare il genocidio ma “la salvezza risiede nelle nazioni che sanno stare al fianco del loro popolo e non svendere la loro dignità”. Parole, tradotte in italiano da Africa ExPress, che sembrano essere un messaggio esplicito rivolto a chi per anni ha preferito preservare i propri interessi economici a discapito di quelli dei cittadini.

“La solidarietà globale senza precedenti con il Qatar riflette la sua posizione regionale. La comunità internazionale ha dimostrato un sostegno senza precedenti di fronte alla palese aggressione israeliana che ha recentemente preso di mira le sedi residenziali di diversi leader di Hamas a Doha – afferma l’autorità qatariota e aggiunge – Questo attacco costituisce un precedente pericoloso e un importante punto di svolta non solo per la causa palestinese, ma anche per gli sviluppi politici dell’intera regione”.

Il supporto del mondo intero all’emirato “costituisce anche una chiara condanna delle pratiche criminali dell’entità israeliana, che violano ripetutamente il diritto internazionale e minano gli sforzi di pace nella regione”, come riportato dal quotidiano.

Rivelazioni sull’attacco a Doha

Il quotidiano israeliano Daderech riporta nuove informazioni sull’operazione militare di Israele: “Il Wall Street Journal ha rivelato nuovi dettagli sullo storico attacco al Qatar, apparentemente fallito, in merito all’utilizzo di missili balistici aviotrasportati lanciati da caccia per cercare di colpire l’obiettivo senza entrare nello spazio aereo dei paesi arabi. Secondo un articolo del quotidiano, basato su fonti americane, otto F-15 e quattro aerei stealth F-35 si sono diretti verso il Mar Rosso, a sud anziché a est, in direzione del Qatar, e da lì hanno lanciato missili balistici aviotrasportati che hanno sorvolato i cieli dell’Arabia Saudita”.

Quotidiano israeliano “Daderech” del 14 settembre 2025

Lanciando i missili dal Mar Rosso “Israele voleva evitare accuse di violazione dello spazio aereo saudita. I funzionari sauditi hanno condannato l’attacco, senza però commentare ufficialmente il fatto che i missili abbiano sorvolato il suo territorio”, riporta il quotidiano israeliano Daderech.

Fratture interne

Alcune fonti hanno riferito al Washington Post che “il capo del Mossad, Dadi Barnea, si è opposto all’assassinio di importanti figure di Hamas in Qatar per diverse ragioni, tra cui il fatto che un’azione del genere avrebbe potuto causare una frattura nei rapporti tra lui e la sua organizzazione”.

“Il Mossad non era pronto a condurre l’operazione sul campo”, ha detto un israeliano al quotidiano americano, aggiungendo che l’agenzia vedeva il Qatar come un importante mediatore.

USA unico vero alleato

In un’intervista al sito web saudita Elaaf, il ministro dell’Energia e membro del gabinetto politico e di sicurezza israeliano Eli Cohen ha dichiarato: “Posso dire che Israele e gli Stati Uniti si sono sicuramente coordinati. Gli Stati Uniti sono il nostro più grande alleato. Gli Stati Uniti sono un fattore molto importante, soprattutto il presidente Trump, che promuove la stabilità in Medio Oriente. Durante i suoi mandati, sia quello precedente che quello attuale, la portata delle guerre è stata minore e non ho dubbi che nuovi accordi di pace saranno firmati durante il suo attuale mandato”, riporta il giornale.

Gli è stato nuovamente chiesto se gli Stati Uniti fossero stati informati in anticipo dell’operazione e ha risposto: “Ci sono cose che non possono essere discusse in dettaglio. Diciamo che hanno ricevuto un’informativa generale. Non abbiamo detto loro: ‘Lo faremo ora’ – ha poi continuato affermando che – il Qatar sta danneggiando la stabilità regionale. In Medio Oriente, esiste una base comune tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Israele e altri Paesi che desiderano stabilità e prosperità. Il Qatar è un Paese legato ai Fratelli Musulmani. Non è solo un nemico di Israele, ma un nemico dell’intero asse islamico moderato”.

 

Valentina Vergani Gavoni
X: @africexp
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Pioggia dorata per Tanzania e Kenya ai mondiali di Tokio

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
15 settembre 2025

Sotto il cielo pallido di un’alba soffocante, a Tokyo, è brillata la prima stella dell’atletica tanzaniana. Al termine di una delle maratone dal finale più incredibile della storia, per la prima volta si è coperto d’oro Alphonce Felix Simbu, nato 33 anni fa a Singida, città di circa 100 mila abitanti della Tanzania Centrale, con popolazione principalmente di etnia Nyaturu.

C’è voluto il fotofinish per determinare il vincitore, che per soli 3 centesimi di secondo, dopo  42,195 km di corsa,  è entrato nella storia del suo Paese.

Prima vittoria tanzaniana

Mai un tanzaniano si era aggiudicato l’oro nella maratona maschile. È avvenuto nella notte italiana fra il 14 e il 15 settembre, ai “Campionati mondiali di atletica leggera di Tokyo 25”, (in svolgimento dal 13 al 21 settembre), terzo giorno d’oro per i corridori africani, ma anche con una debacle.

Alphonce Felix Simbu, tanzaniano, medaglia d’oro ai mondiali di atletica a Tokio

“Oggi è festa in Tanzania”, ha commentato il neo iridato. “Abbiamo scritto una nuova storia come Paese. Era il mio sogno. Sono in pace. Occorre disciplina, allenamento e non arrendersi mai. Dopo il 2017 ho cercato di vincere un’altra medaglia, ma non ci sono riuscito. L’anno scorso Parigi è stata una sfida e quest’anno mi sono detto: farò del mio meglio. Ho fatto diversi tipi di allenamento in diverse condizioni meteorologiche.”

Auguri presidenziali

E a fare meglio lo aveva sollecitato perfino la più alta carica dello Stato. “Congratulazioni, con la tua vittoria in 2 ore 9 minuti e 48 secondi hai scritto un nuovo capitolo nella nostra storia. Quando in aprile avevi conquistato l’argento alla maratona di Boston, ti avevo sollecitato a fare di più, ora ce l’hai fatta. Sei un esempio per chi ti segue, continua così”, ha subito scritto su Instagram Samia Suluhu Hassan, 65 anni, la presidentessa della Repubblica Unita di Tanzania (carica che ricopre dal 2021, dopo la morte di Jhon Magufuli).

In effetti, un successo così risicato non si era mai visto, tanto che al secondo classificato, il tedesco Amanol Petros, è stato attribuito lo stesso tempo del vincitore.

Bronzo per l’Italia

Doveroso ricordare anche la fenomenale prestazione del terzo arrivato, il nostro Iliass Aouani, 29 anni, ingegnere italiano con sangue marocchino, che ha riportato l’Italia sul podio dopo 22 anni nella maratona mondiale. Questa maratona in effetti è stata durissima anche per il clima umido e soffocante della capitale giapponese con gli atleti che si rinfrescavano con ghiaccio e spugne, passandosele anche l’un l’altro.

Basti dire che di 88 concorrenti ben 22 non sono giunti al traguardo. Entrambe le maratone alle ore 00:30 italiane, le ore 7:30 locali, con un anticipo di 30 minuti rispetto all’orario originale a causa delle infauste previsioni meteo : 28 gradi.

La donna più veloce è keniana

Nonostante tutto, anche la gara femminile si è conclusa con uno sprint mozzafiato.

La keniana Peres Jepchirchir vincitrice della maratona femminile a Tokio

A spuntarla è stata, per appena 2 secondi, la keniana Peres Jepchirchir, 31 anni, campionessa olimpica di Tokyo 2020, che ha chiuso in 2h 24’ 43” conquistando il suo primo titolo mondiale sulla distanza. Battuta la primatista del mondo l’etiope Tigist Assefa, (2h24’45”), proprio come le era accaduto alle Olimpiadi di Parigi 2024. Per lei, seconda amarissima delusione consecutiva.

E’ stato comunque uno spettacolo emozionante vedere le due donne che dopo aver duellato per quasi 42 km sono entrate insieme nello Stadio Nazionale del Giappone, impegnate fino allo spasimo in un testa a testa per il titolo iridato.

Ennesimo successo

“Sono tanto felice. Faceva così caldo. Ma ce l’ho fatta. Non è stato facile. Quando sono entrata allo stadio, ho ricevuto molta energia dai tifosi. A 100 metri, quando ho visto il traguardo, mi sono detta: proviamo a vedere se riesco a vincere. Ringrazio Dio di esserci riuscita”, ha raccontato Jepchirchir.

Per lei si tratta dell’ennesimo grande successo. Dopo il titolo olimpico ’20, tre campionati del mondo di mezza maratona, e dopo aver primeggiato  a Londra, Boston e NY (3 cosiddette major), arriva anche il suggello di questo titolo. “Oro, oro, tutto fu oro, oro pieno, oro zecchino, oro bello, oro giallo”, ha scritto Carlo Emilio Gadda.

Piedi alati

La sete dell’oro delle kenyane dai piedi alati si è saziata ancora con un’altra corsa durissima: i 10mila metri, la prima finale su pista sviluppatasi il 13 settembre. Ad aggiungere metallo pregiato al suo già prezioso bottino in carriera è stata Beatrice Chebet, 25 anni, dominatrice in 30:37:68.

La Chebet è campionessa dei 5 e 10 mila metri, detentrice del primato mondiale sulle medesime distanze. Ora mira a fare la doppietta a Tokyo sui 5 km il 20 settembre. Ed è tanto più soddisfatta, in quanto in quel di Nairobi non festeggiavano un trionfo simile sui 10 mila dal 2015! Intanto intasca sia il premio del successo (70mila dollari per l’oro) sia i 3 milioni di scellini (oltre 23 mila dollari) promessi dal Governo.

Supersconfitta etiope

Anche in questa competizione, però, a starle alle calcagna è stata l’italiana Nadia Battocletti, 25 anni, campionessa europea, ormai entrata nell’Olimpo delle grandi runner.

La supersconfitta è stata l’etiope di Macallè, Gudaf Tsegay, 28 anni, che detiene il record del mondo sui 5 mila, non in grado di difendere il titolo conquistato due anni fa. Si è dovuta accontentare del bronzo.

Medaglia d’oro per il francese Jimmy Gressier sui 10.000 metri

Però… però – come si dice – ogni medaglia ha il suo rovescio. E un memorabile rovescio per lo sport africano si è verificato nei 10 mila metri maschili. Una sconfitta sonante, la terza in tanti decenni di dominio assoluto, inflitta dal francese Jimmy Gressier, 28 anni, che ha sorpreso tutti arrivando primo in 28:55.77.

A poca distanza dal traguardo, Gressier è emerso dal gruppo e ha beffato per un pelo (28:55.83), l’etiope Yomif Kejelcha, suo coetaneo. Terzo lo svedese Andreas Almgren, solo quarto il kenyano Ishmael Rokitto, 20 anni, e sesto il più titolato etiope Selemon Barega, 25, campione olimpico proprio a Tokio 5 anni fa. Ishamel, originario di Baringo, è uno dei giovani emergenti sulle lunghe e medie distanze, ma che non trascura gli studi. Per arrivare in classe entro le 6, speso parte di casa alle 4 del mattino e si fa strada con la luce di una torcia.

Per i corridori che vengono dagli altipiani dell’Africa una sconfitta su cui riflettere. Ora la vecchia Europa fa concorrenza anche nei pascoli un tempo a lei vietati.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il Sahel nella morsa dei terroristi

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
14 settembre 2025

Nel Sahel si sta scatenando l’inferno. Gli attacchi dei jihadisti si susseguono in Mali, Niger e Burkina Faso. Anche il nord del Benin, poco distante dalla frontiera con il Niger, non è stato risparmiato dai sanguinari terroristi, che cercano di espandersi nei Paesi del Golfo di Guinea.

I tre Stati dell’Alleanza per il Sahel (AES, Burkina Faso,Mali,Niger) non riescono a fermare gli estremisti islamici e molti territori sono ancora fuori dal controllo dei governi centrali. Come sempre in questi casi, la popolazione civile paga il prezzo più alto delle incursioni dei gruppi armati.

Colpito anche il Benin

Pochi giorni fa è stato attaccato dapprima il commissariato di Kalalé (che dista oltre 600 chilometri da Cotonou, in Benin). Subito dopo gli uomini armati hanno preso di mira il centro sanitario. Non si registrano vittime, ma secondo testimoni oculari, sono stati rapiti alcuni operatori. Finora l’aggressione non è stata rivendicata da nessuno dei gruppi terroristi attivi nell’area.

Niger: militari uccisi

A Tillabéri, nell’ovest del Niger, nella zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger) l’esercito di Niamey questa settimana ha subito parecchie perdite. Miliziani di EIGS (Stato Islamico del grande Sahara) hanno attaccato una postazione militare di FAN (Forze Armate Nigerine) vicino all’aeroporto, uccidendo 12 soldati.

Niger

I terroristi hanno aggredito anche la periferia della città, dove ha perso la vita un pastore. Infine i sanguinari estremisti hanno parzialmente raso al suolo un campo per sfollati, poco distante dal centro abitato. Il bilancio delle vittime è stato pesante: 27 militari morti, tra cui 15 della guardia nazionale. Quest’ultimi sono caduti in un’imboscata mentre stavano inseguendo i miliziani di EIGS.

Opposizioni contro giunta militare nigerina

La popolazione civile non ne può più. Recentemente sono nati due raggruppamenti. Il CDN, (Cadre de lutte contre les dérives du Niger), al quale hanno aderito personalità della società civile, giornalisti, giuristi, ricercatori, che coraggiosamente si oppongono alle autorità militari al potere.

CDN chiede elezioni libere, la riabilitazione dei partiti politici e la liberazione del presidente Mohamed Bazoum (agli arresti domiciliari  dal colpo di Stato militare del 2023) e, tra l’altro, hanno anche denunciato i continui attacchi dei terroristi.

Video dell'attacco oggi alle autocisterne Mali

Anzi, CDN ha puntato direttamente il dito contro i militari. Nel corso della prima conferenza stampa tenutasi il 12 settembre scorso, il loro portavoce ha fatto sapere che durante le ultime gravissime incursioni, il capo di Stato maggiore dell’esercito si trovava addirittura a Tillaberi, ma ciò non è bastato a organizzare la reazione dei governativi.

“Ciò dimostra il totale scompiglio delle nostre truppe. La situazione nel Paese è critica – ha sostenuto il rappresentante di CDN -. Prima del putsch militare del 26 luglio 2023 il Niger godeva di una certa stabilità. Ora, invece, la popolazione è abbandonata a sé stessa, in preda ai jihadisti”.

Mentre l’altro gruppo, il G25, è composto da oppositori della società civile e dei media. Anche questa nuova organizzazione chiede la scarcerazione di Bazoum, eletto democraticamente, e il ritorno dell’ordine costituzionale e quant’altro. I membri hanno denunciato la mancanza di interventi mirati al terrorismo, visto che le aggressioni dei gruppi estremisti sono ormai all’ordine del giorno. E hanno chiesto una maggiore protezione dei civili.

Proteggere i civili

Human Rights Watch, nel suo rapporto del 10 settembre scorso ha denunciato l’intensificarsi delle aggressioni dei miliziani di EIGS a Tillabéri. La ONG ha documentato che da marzo a giugno i terroristi hanno ucciso in 5 diverse incursioni nella regione, 127 persone. HRW ha chiesto alle autorità di Niamey una maggiore tutela dei civili.

Terroristi in azione nel Sahel

Anche il Burkina Faso non è immune dalle offensive dei jihadisti. Lunedì è stata attaccata una postazione militare a Tangaye, nella regione del Sahel, nel nord del Paese. Tre soldati sono stati uccisi e i miliziani di JNIM (Gruppo di Sostegno dell’Islam e dei Musulmani, legato ad al-Qaeda), che hanno rivendicato l’assalto, si sono impossessati di droni, armi, motociclette e di altro materiale.

Pochi giorni prima sono stati ammazzati altri due militari a un checkpoint nella periferia di Fada N’Gourma (nell est), preso di mira dai miliziani.

JNIM scatenato in Mali

Se in Niger e Burkina Faso la situazione è preoccupante, in Mali è a dir poco disastrosa. Da settimane e settimane JNIM ha intensificato le incursioni nella regione di Ségou (nel centro del Paese), costringendo migliaia di persone alla fuga. A metà agosto i terroristi hanno attaccato una caserma militare a Farabougou (Ségou). Da allora la città è sotto controllo degli estremisti. Il governo non ha rilasciato nessun bollettino ufficiale sul bilancio delle vittime, ma i jihadisti sostengono di aver ucciso 21 soldati e diversi civili.

Non è la prima volta che Farabougou è sotto assedio. Nel 2020, poco dopo essere saliti al potere, i golpisti avevano dichiarato di aver posto fine all’occupazione jihadista, grazie all’operazione Farabougoukalafia di FAMa (esercito maliano).

Il 3 settembre le autorità di Bamako hanno esteso il coprifuoco notturno per un altro mese nella regione di Ségou. Tale misura è in atto da giugno, proprio a causa delle insistenti incursioni di JNIM. Anche a Kayes (nella parte occidentale al confine con il Senegal) e Sikasso (nel estremo sud) è stato imposto il coprifuoco notturno per questioni di sicurezza.

Città sotto assedio

Una settimana fa JNIM ha attaccato anche il commissariato di Mopti (al centro del Paese) e lunedì mattina un centro di addestramento dell’esercito vicino a Ségou.

Il Timbuktu Institute, centro di ricerca con sede a Dakar, pochi giorni fa ha pubblicato uno studio che analizza la nuova strategia di JNIM, definita jihad economica.

Intercettati camion e corriere

L’analisi precisa che quasi l’80 per cento dell’oro maliano, la principale risorsa del Paese, viene prodotto nella regione di Kayes. L’istituto di ricerca ha sottolineato che il 30 per cento delle importazioni terrestri maliane, in particolare carburante e cereali, transita sulla strada nazionale 1, via di collegamento tra il porto di Dakar e Bamako, passando per Kayes.

Mali: militari in azione a Kayes

I miliziani legati a al Qaeda da dieci giorni hanno imposto blocchi stradali a Kayes e Noro per impedire le importazioni di carburante. Da allora i terroristi hanno intercettato camion e corriere e distrutto persino alcuni mezzi. Diversi passeggeri e camionisti sono stati presi in ostaggio, i più sono poi stati rilasciati.

Strade controllate dai terroristi

Nei giorni scorsi FAMa ha dichiarato di aver intensificato gli attacchi aerei nella regione di Kayes, pur non ammettendo che JNIM abbia bloccato le strade nell’area. In un comunicato trasmesso sulle reti TV governative l’8 settembre, il portavoce dell’esercito sostiene che il vero problema di accesso alle vie di comunicazione siano le piogge abbondanti e non i terroristi. Secondo le autorità l’interruzione del traffico sarebbe semplicemente un’invenzione dei media stranieri.

Bamako invia rinforzi

Ovviamente le autorità di Bamako hanno assicurato di aver inviato rinforzi ovunque. E infine ha anche dispiegato pattuglie per “mettere in sicurezza” le arterie stradali. Dal 10 settembre l’esercito maliano ha garantito le scorte alle autocisterne provenienti dal Senegal.

Il sindacato degli autotrasportatori ha chiesto tali provvedimenti anche per Zégoua, area al confine con la Costa d’Avorio, perché anche lì i grossi mezzi di trasporto sarebbero bloccati.

JNIM attacco a autocisterne accompagnate da FAMa tra tra Kaniéra e Lakamané.
Nuvole di fumo dopo le esplosioni

Mentre scriviamo sono arrivate segnalazioni su X che oggi JNIM avrebbe condotto un complesso agguato contro un convoglio scortato dalla FAMa a tra Kaniéra e Lakamané.

 

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Benin accusa Burkina Faso e Niger, non controllano le frontiere e i jihadisti attaccano

Petrolio e gas: il saccheggio israeliano delle ricchezze palestinesi coinvolge anche l’ENI

Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
di ritorno da Gaza, 13 settembre 2025

Nell’ottobre 2024, il colosso italiano Eni ha siglato un’intesa con l’inglese Ithaca Energy, di proprietà dell’israeliana Delek Group, una delle principali compagnie energetiche di Tel Aviv.

Nel 2023, Ithaca ha trasferito oltre 350 milioni di dollari a Delek Group, complice delle violazioni dei diritti del popolo palestinese.

Lista nera

Dal 2020, Delek Group è inserito nella lista nera delle Nazioni Unite per il sostegno agli insediamenti illegali e all’uso commerciale delle risorse naturali palestinesi. Delek Group ha stretti legami con l’esercito israeliano, dotando i veicoli delle Forze di Difesa Israeliane di rifornimenti.

Giacimento Leviathan [photo credit The Washington Institute]
Tutto nasce dall’assegnazione di licenze, da parte del ministero dell’energia israeliano, a sei società per l’esplorazione di gas naturale al largo della costa mediterranea del Paese, con il fasullo obiettivo di creare maggiore concorrenza e diversificare i fornitori.

L’assegnazione delle licenze ha incluso un primo gruppo guidato dall’italiana Eni (ENI.MI), insieme a Dana Petroleum e all’israeliana Ratio Energies (RATIp.TA), che esplorerà un’area a ovest dell’enorme giacimento Leviathan.

E un secondo gruppo, che coinvolge la compagnia petrolifera nazionale dell’Azerbaijan SOCAR, insieme a BP (BP.L) e all’israeliana NewMed (NWMDp.TA), che esplorerà un’area a nord di Leviathan.

In particolare, il 62% della Zona G, il 5% della Zona H e il 73% della Zona E – dove le licenze sono state rilasciate o messe a gara – rientrano nei confini marittimi, dichiarati dal governo palestinese nel 2019, ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).

Stato sovrano

Israele, non avendo ratificato l’UNCLOS e non riconoscendo la Palestina come stato sovrano, contesta queste rivendicazioni, applicando invece il proprio diritto interno. Questa azione è stata descritta dai gruppi palestinesi per i diritti umani come un’annessione de facto/de jure e una chiara violazione del diritto internazionale.

In ogni caso Israele, in quanto potenza occupante, non può sfruttare risorse naturali nei territori occupati a proprio vantaggio [art. 55 – Convenzione dell’Aia, 1907].

Con un precedente giuridico recente (2018), in cui la Corte di Giustizia UE ha stabilito che accordi simili nel Sahara Occidentale – occupato dal Marocco – sono illegittimi, oggi l’esplorazione di gas naturale nel giacimento Leviathan viola il diritto del popolo palestinese a gestire le proprie risorse, protetto dal diritto internazionale.

Organizzazioni per i diritti umani (Al-Haq, Al Mezan, PCHR e Adalah) hanno inviato diffide a Eni e alle altre compagnie, avvertendo che le attività nel giacimento Leviathan potrebbero configurarsi come complicità in crimini di guerra.

Studio legale

Lo studio legale internazionale Foley Hoag ha sottolineato il rischio di azioni legali presso la Corte Penale Internazionale, già indagante su crimini nei Territori Palestinesi Occupati.

Leviathan – e principalmente il bacino Gaza Marine ad esso connesso – colloca la guerra a Gaza in un piano occidentale più ampio, volto a promuovere le esportazioni di gas israeliano attraverso il nuovo corridoio IMEC (India-Middle East-Europe Economic Corridor), che parte dall’India, attraversa poi il Golfo e Israele, per raggiungere l’Europa.

Cos’è Gaza Marine? Scoperto nel 2000 dalla compagnia British Gas, il giacimento offshore di Gaza Marine dispone di riserve stimate in 32 miliardi di metri cubi di gas naturale.

La British Gas ha venduto Gaza Marine alla Dutch Shell nel 2016, che a sua volta l’ha restituita all’Autorità Palestinese nel 2018. Ma nel 2023 lo Stato israeliano ha cambiato posizione, dando il suo accordo preliminare al progetto di sfruttamento nel mare di Gaza, concluso tra Israele stesso, l’Autorità Palestinese e un consorzio egiziano, di cui fa parte la società pubblica egiziana di gas EGAS.

Riserve stimate

Così Gaza Marine e Meged, un giacimento petrolifero in Cisgiordania – con riserve stimate di 1,5 miliardi di barili – sono stati paralizzati dalla guerra.

È vero le giustificazioni per il conflitto israelo-palestinese si trovano altrove e non dovrebbero essere ridotte alla competizione per modeste risorse offshore. Detto questo, gli ostacoli israeliani allo sviluppo del giacimento di Gaza Marine sono stati una caratteristica costante sin dalla sua scoperta nel 2000 e fanno parte di una politica volta a mantenere un controllo unilaterale.

Il giacimento di gas di Gaza Marine, nonostante il suo vitale potenziale economico per il popolo palestinese, è profondamente coinvolto in conflitti geopolitici, legali e militari. Sebbene il diritto internazionale riconosca i palestinesi come legittimi proprietari del giacimento, la traiettoria storica del suo sviluppo dimostra che la competizione per le risorse naturali trascende le considerazioni legali, essendo plasmata dall’equilibrio di potere e dagli interessi strategici regionali.

Giacimento offshore

Importanti scoperte offshore, tra cui il giacimento Leviathan, che contiene circa 22 trilioni di piedi cubi di gas, hanno attratto grandi esploratori di petrolio e gas, come il gigante energetico statunitense Chevron, a collaborare con aziende locali.

Nel 2020, Israele ha iniziato a distribuire gas naturale in Egitto dal giacimento Leviathan. Nel giugno dello scorso anno, Israele, Egitto e Unione Europea hanno firmato un memorandum d’intesa che potrebbe consentire a Israele di esportare per la prima volta il suo gas naturale verso l’Europa.

La scoperta nel 2010 del giacimento di gas Leviathan ha trasformato Israele da importatore a esportatore di risorse energetiche. Insieme a Zohr in Egitto, scoperto da Eni, Leviathan è uno dei principali giacimenti di gas del Mediterraneo e, data la sua posizione, è in grado di fornire gas all’Europa meridionale.

L’importanza della scoperta di Leviathan va ben oltre l’aspetto economico: è evidente che Tel Aviv ha un interesse strategico nella riduzione della dipendenza di Egitto e Giordania dall’influenza delle monarchie arabe del Golfo Persico.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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La stampa del Medio Oriente: Israele e Stati Uniti hanno pianificato l’attacco contro i leader di Hamas a Doha

Spaciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
12 settembre 2025

Continua la strategia militare israeliana che mira a uccidere i simboli politici della resistenza palestinese

Non è sufficiente, per lo Stato di Israele, bombardare Gaza ed eliminare fisicamente i civili. Non si limita a disintegrare palazzi, case, scuole e ospedali. Il nemico più pericoloso, quello che probabilmente gli fa più paura, è l’ideologia.

L’attacco di Netanyahu al Qatar mostra al mondo intero che non esiste diritto internazionale in grado di arrestare la sua guerra di espansione territoriale. Il messaggio ora è chiaro ed esplicito: “Quello che facciamo ai palestinesi lo possiamo fare a tutti”.

L’attacco del 9 settembre 2025 a Doha in Qatar, contro i leader di Hamas, è l’ennesima prova di forza che Israele e gli Stati Uniti d’America hanno voluto manifestare alla comunità internazionale. Ma non solo. Consapevoli dell’impunità che tutela le loro azioni criminali, si prendono gioco di tutti.

Rumore delle esplosioni

Il quotidiano qatariota “Al Sharq” riporta le dichiarazioni di Mohammed Al-Ansari, consigliere del primo ministro e portavoce ufficiale del ministero degli Esteri: “Le autorità del Qatar hanno ricevuto una chiamata americana mentre sentivamo il rumore delle esplosioni. Le affermazioni secondo cui il Qatar sarebbe stato informato in anticipo dell’attacco sono false”.

Quotidiano del Qatar “Al Sharq” del 10 settembre 2025

In un post sulla piattaforma X il ministro ha dichiarato: “Ciò che circola è falso. Sua eccellenza lo sceicco, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, ha osservato che l’attacco è avvenuto alle 15:40, mentre la prima chiamata dagli Stati Uniti è stata ricevuta alle 16:00. La comunicazione, effettuata da un funzionario americano, è avvenuta mentre si sentiva il rombo delle esplosioni provocate dalle bombe israeliane a Doha”.

Suhail al-Hindi, membro dell’ufficio politico del Qatar, ha confermato che “la leadership del movimento è sopravvissuta al vile tentativo di assassinio, sottolineando che l’attentato è avvenuto durante una riunione del team negoziale per discutere la proposta americana”.

Trump complice di Netanyahu

In un’intervista ad “Al Jazeera”, Suhail al-Hindi ha ritenuto “l’amministrazione statunitense responsabile dell’attacco”. Ha sostenuto poi che “i bombardamenti israeliani abbiano preso di mira ogni essere umano. Il mondo libero deve far sentire la propria voce”.

“Non c’è dubbio che Netanyahu e il suo governo non vogliano raggiungere alcun accordo e che stiano deliberatamente cercando di ostacolare ogni opportunità e gli sforzi internazionali, senza riguardo per la vita dei loro colleghi negoziatori – ha dichiarato un portavoce gi Hamas, aggiungendo – I media ebraici hanno riferito che circa 15 aerei da guerra hanno partecipato all’attacco terroristico e che più di 10 bombe aeree hanno colpito l’edificio preso di mira”.

Il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani ha attaccato: “Netanyahu è un canaglia e l’attacco israeliano è terrorismo di Stato” si legge nell’articolo pubblicato dal quotidiano “Al Sharq”.

Arroganza continua

“Ci sono attori farabutti che praticano una continua arroganza politica in questa Regione e violano la sovranità dei Paesi che la abitano”, ha sottolineato il premier.

Sul quotidiano israeliano “Shaharit” si legge: “L’attacco è stato approvato solo dal gabinetto ristretto e gli Stati Uniti ne sono stati informati in anticipo”. Ed è falso – secondo quello che riporta il giornale – che il Qatar fosse a conoscenza di quello che sarebbe successo.

Quotidiano israeliano Shaharit del 10 settembre 2025

“Il nemico israeliano ha usato un’arma che il radar non poteva rilevare”, ha poi rivelato il primo ministro qatariota.

“Dopo gli attacchi omicidi a Gerusalemme e Gaza, il premier Netanyahu ha incaricato tutte le agenzie di sicurezza di prepararsi alla possibilità di contrastare i leader di Hamas”, riporta la dichiarazione congiunta del capo del governo israeliano e del suo ministro della Difesa Israel Katz.

Operazione premeditata

Il capo di Stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, circa una settimana fa, aveva già dichiarato che avrebbero raggiunto i leader di Hamas all’estero. “Prima dell’attacco, sono state adottate misure per ridurre al minimo i danni agli astanti, incluso l’uso di armi di precisione e di ulteriori informazioni di intelligence” si legge nell’articolo che Africa ExPress ha tradotto dalla lingua ebraica.

“Israele ha affermato che l’operazione è stata coordinata in anticipo con gli Stati Uniti, grazie alla loro base in Qatar, la più grande in Medio Oriente”. L’ufficio di Netanyahu si è però preso tutto il merito dell’attacco: “Israele l’ha avviato, Israele l’ha condotto e Israele se ne assume la piena responsabilità”.

Il quotidiano israeliano “The Heraldmail” pubblica in lingua ebraica la pianificazione di questa operazione. “Un mese di preparativi e procedure di battaglia segrete”.

Quotidiano israeliano The Heraldmail del 10 settembre 2025

La decisione di eliminare i leader di Hamas in Qatar è stata presa già un mese fa e, secondo due fonti israeliane che hanno parlato con la CNN, la pianificazione ha subito un’accelerazione nelle ultime settimane. “E’ stata avviata una procedura di battaglia segreta che prevedeva quasi due giorni di discussioni preparatorie e, una volta alla settimana, si riunivano alti funzionari dello Shin Bet, dell’intelligence militare e della divisione operazioni dello Stato Maggiore dell’IDF”.

Anche questo quotidiano israeliano conferma che “l’attacco è stato coordinato in anticipo con gli Stati Uniti e approvato dal gabinetto ristretto, ma tenuto nascosto al gabinetto più ampio. Il capo di Stato maggiore, Eyal Zamir, e il comandante dell’Aeronautica militare, Tomer Bari, hanno supervisionato personalmente l’operazione, data la delicatezza derivante dalla vicinanza dell’obiettivo ai sistemi di difesa aerea iraniani”

Aggressione tossica

Il parlamentare israeliano Ofer Kassif di Hadash ha condannato fermamente l’attacco: “Bombardare Doha è come bombardare i rapiti. L’attacco alla capitale del Qatar, in collaborazione con gli Stati Uniti, è stata un’aggressione tossica – riporta il quotidiano -. L’opinione pubblica israeliana deve svegliarsi: intensificare il genocidio, oltre a essere un crimine contro l’umanità, non porterà sicurezza o libertà ai rapiti, ma solo più lutto e dolore a tutti noi”.

“La comunità internazionale – conclude il deputato – deve intervenire con urgenza per fermare la continuazione dello sterminio. Salvate il popolo palestinese e il popolo israeliano dal governo genocida”.

 

Africa ExPress
X: @africexp
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