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Rai, bufera su Incoronata Boccia: “Candidiamo Hamas all’Oscar”. Tra sdegno e richieste urgenti di chiarimento

Speciale per Africa ExPress e Senza Bavaglio
Cristina Merlino
Milano, 13 ottobre 2025

Ci sono parole che, una volta pronunciate, lasciano sbigottiti. Un silenzio carico di incredulità e profondo imbarazzo. È quello che sta accadendo dopo l’intervento di Incoronata Boccia, direttrice dell’Ufficio Stampa Rai, durante il convegno “La storia stravolta e il futuro da costruire”, organizzato a Roma da Ucei e Cnel.

Le sue dichiarazioni hanno generato un’ondata di sdegno che attraversa il mondo politico, sindacale e della società civile. Boccia ha affermato: “Proporrei che oggi da questa tavola rotonda possa emergere una candidatura ad Hamas. La vogliamo candidare all’Oscar per la migliore regia?” .

Parole che, dopo mesi di un conflitto devastante e mentre si conta ancora il numero delle vittime, suonano come una provocazione insostenibile.

Anche a lui come Trump niente Nobel per la pace…

Non è tutto. La dirigente Rai ha anche sostenuto che “non esiste una sola prova che l’esercito israeliano abbia mitragliato civili inermi”, parlando di “vergogna del giornalismo” nei confronti di chi documenta diversamente i fatti.

Quando il ruolo istituzionale amplifica la responsabilità

Ciò che amplifica l’indignazione non è solo il contenuto delle affermazioni, ma chi le ha pronunciate. Non un commentatore qualunque, ma la responsabile dell’Ufficio Stampa della Rai: il servizio pubblico che tutti i cittadini contribuiscono a finanziare e che dovrebbe incarnare equilibrio, rigore e rispetto della complessità della realtà.

Incoronata Boccia imbraccia il fucile. Per scherzo?

Sebbene sia stato recentemente siglato un accordo di cessate il fuoco, le ferite del conflitto restano profonde: Gaza è ridotta a un cumulo di macerie, migliaia di civili — bambini compresi — hanno perso la vita, e intere comunità sono state distrutte. In questo contesto, dichiarazioni come quelle di Boccia suonano come uno schiaffo alla sofferenza umana e ai principi stessi del giornalismo.

La signora Boccia si è dimenticata le 67 mila vittime della Striscia di Gaza (l4000 al giorno da inizio 2025- dati ISPI), i 187 giornalisti e operatori media uccisi secondo l’International Federation of Journalists (IFJ). Un milione e 900 mila persone costrette a lasciare la Striscia. Ma non solo, carestia, violenze e bambini morti sotto le bombe e per mancanza di cure e di medici.

Richieste di intervento immediato

Incoronata “Cora” Boccia, moglie di Ignazio Artizzu, caporedattore Rai Sardegna in quota alla coalizione di destraCiò che amplifica l’indignazione non è solo il contenuto delle affermazioni, ma chi le ha pronunciate. Non un commentatore qualunque, ma la responsabile dell’Ufficio Stampa della Rai: il servizio pubblico che tutti i cittadini contribuiscono a finanziare e che dovrebbe incarnare equilibrio, rigore e rispetto della complessità della realtà.

Sebbene sia stato recentemente siglato un accordo di cessate il fuoco, le ferite del conflitto restano profonde: Gaza è ridotta a un cumulo di macerie, migliaia di civili — bambini compresi — hanno perso la vita, e intere comunità sono state distrutte. In questo contesto, dichiarazioni come quelle di Boccia suonano come uno schiaffo alla sofferenza umana e ai principi stessi del giornalismo.

La signora Boccia si è dimenticata le 67 mila vittime della Striscia di Gaza (4000 al giorno da inizio 2025, dati ISPI), i 187 giornalisti e operatori media uccisi secondo l’International Federation of Journalists (IFJ). Un milione e 900 mila persone costrette a lasciare la Striscia. Ma non solo, carestia, violenze e bambini morti sotto le bombe e per mancanza di cure e di medici.

Richieste di intervento immediato

L’Usigrai non ha tardato a chiedere un chiarimento urgente da parte dei vertici Rai, definendo le frasi di Boccia una minaccia alla “credibilità e indipendenza del servizio pubblico”. Dal Partito Democratico la condanna è netta: “Parole inaccettabili e pericolose”.

La domanda che ora molti si pongono è semplice quanto inevitabile: come può una figura istituzionale di tale rilievo, chiamata per ruolo a rappresentare equilibrio e pluralismo informativo, spingersi a formulare giudizi così gravi e unilaterali di fronte a una tragedia umanitaria di tali proporzioni?

Il dibattito è aperto. E con esso, l’urgenza di ripassare le regole del serio giornalista… (anche per i componenti degli Uffici Stampa)

Cristina Merlino
cristina.merlino.cm@gmail.com
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Ci sono parole che, una volta pronunciate, lasciano sbigottiti. Un silenzio carico di incredulità e profondo imbarazzo. È quello che sta accadendo dopo l’intervento di Incoronata Boccia, direttrice dell’Ufficio Stampa Rai, durante il convegno “La storia stravolta e il futuro da costruire”, organizzato a Roma da Ucei e Cnel.

Le sue dichiarazioni hanno generato un’ondata di sdegno che attraversa il mondo politico, sindacale e della società civile. Boccia ha affermato: “Proporrei che oggi da questa tavola rotonda possa emergere una candidatura ad Hamas. La vogliamo candidare all’Oscar per la migliore regia?” Parole che, dopo mesi di un conflitto devastante e mentre si conta ancora il numero delle vittime, suonano come una provocazione insostenibile.

Non è tutto. La dirigente Rai ha anche sostenuto che “non esiste una sola prova che l’esercito israeliano abbia mitragliato civili inermi”, parlando di “vergogna del giornalismo” nei confronti di chi documenta diversamente i fatti.

Quando il ruolo istituzionale amplifica la responsabilità

Ciò che amplifica l’indignazione non è solo il contenuto delle affermazioni, ma chi le ha pronunciate. Non un commentatore qualunque, ma la responsabile dell’Ufficio Stampa della Rai: il servizio pubblico che tutti i cittadini contribuiscono a finanziare e che dovrebbe incarnare equilibrio, rigore e rispetto della complessità della realtà.

Sebbene sia stato recentemente siglato un accordo di cessate il fuoco, le ferite del conflitto restano profonde: Gaza è ridotta a un cumulo di macerie, migliaia di civili — bambini compresi — hanno perso la vita, e intere comunità sono state distrutte. In questo contesto, dichiarazioni come quelle di Boccia suonano come uno schiaffo alla sofferenza umana e ai principi stessi del giornalismo. La signora Boccia si è dimenticata le 67 mila vittime della Striscia di Gaza (l4000 al giorno da inizio 2025- dati ISPI), i 187 giornalisti e operatori media uccisi secondo l’International Federation of Journalists (IFJ). Un milione e 900 mila persone costrette a lasciare la Striscia. Ma non solo, carestia, violenze e bambini morti sotto le bombe e per mancanza di cure e di medici.

Richieste di intervento immediato

L’Usigrai non ha tardato a chiedere un chiarimento urgente da parte dei vertici Rai, definendo le frasi di Boccia una minaccia alla “credibilità e indipendenza del servizio pubblico”. Dal Partito Democratico la condanna è netta: “Parole inaccettabili e pericolose”.

La domanda che ora molti si pongono è semplice quanto inevitabile: come può una figura istituzionale di tale rilievo, chiamata per ruolo a rappresentare equilibrio e pluralismo informativo, spingersi a formulare giudizi così gravi e unilaterali di fronte a una tragedia umanitaria di tali proporzioni?

Il dibattito è aperto. E con esso, l’urgenza di ripassare le regole del serio giornalista… (anche per i componenti degli Uffici Stampa)

C.M.

Mistero in Madagascar su un colpo di Stato in corso: presidente in fuga?

Dal Nostro Corrispondente
Giorgio Maggioni
Antananarivo, 12 ottobre 2025

Questa mattina il presidente del  Madagascar, Andry Rajoelina, ha dichiarato in un breve comunicato che sarebbe in atto un tentativo di colpo di Stato. Il capo di Stato non ha però fornito alcun dettaglio in grado di corroborare la sua affermazione. Poco dopo queste dichiarazioni Rajoelina ha lasciato il Paese.

Aereo aeronautica francese

Secondo Madagascar Aviation, un aereo militare di tipo CASA dell’aeronautica militare francese sarebbe decollato dal piccolo aeroporto di Sainte-Marie in Madagascar. “A bordo c’era un’alta personalità politica del Paese che sarebbe arrivata direttamente in elicottero da Tana” (il nome con cui viene chiamata affettuosamente la capitale Antananarivo, ndr). Destinazione per ora ignota.

Il governo delle Mauritius, invece, ha affermato oggi che sul jet privato sabato notte sull’Isola Stato non era presente Rajoelina. Nella lista dei passeggeri figurano, oltre all’equipaggio,  l’ex primo ministro Christian Louis Ntsay e Ravatomanga Maminiaina, ricco uomo d’affari, entrambi accompagnati dalle rispettive mogli.

Le autorità di Port Louis hanno criticato aspramente l’atterraggio non autorizzato dell’aereo.

Il presidente era al potere dal 2018, ma ha già occupato questa posizione dal 2009 al 2014, dopo un colpo di Stato militare. Allora furono proprio le truppe dell’unità d’élite CAPSAT (corpo dell’esercito del personale e dei servizi amministrativi e tecnici) a aiutare Rajeolina a prendere il potere. E’ stato poi eletto democraticamente nel 2018 e riconfermato nel 2023 per un secondo mandato.

Unità speciale prende il comando

Dopo le dichiarazioni di Rajoelina, il CAPSAT ha annunciato di aver preso il controllo dell’esercito dopo due settimane di manifestazioni antigovernative.

“Il potere appartiene al popolo”, ha affermato il colonnello Michaël Randrianirina, capo del CAPSAT. Ha poi dichiarato: “In assenza del presidente, non detengo il potere”.

Unità speciale CAPSAT prende il commando

Il mio ruolo è quello di “essere un ufficiale, un esecutore”. E ha aggiunto: “Non c’è stato alcun colpo di Stato. L’esercito ha semplicemente dimostrato di esistere ancora e sta cercando di rispondere all’appello del popolo malgascio”.

Nella giornata di oggi l’Ufficio permanente del Senato, in accordo con i senatori, ha sollevato dall’incarico  Richard Ravalomanana, presidente della camera alta del parlamento. Tale misura è stata presa perché il presidente del Senato è la seconda carica della repubblica malgascia e diventa capo dello Stato in caso di dimissioni del presidente stesso.

Nel frattempo il ministro della Difesa, Manantsoa Deramasinjaka Rakotoariveloha, ha nominato come capo di Stato maggiore, Demosthenes Pikulas, che ieri si è schierato con i manifestanti.

Militari si uniscono alla protesta 

Ieri, durante le proteste nelle strade e nelle piazze a Antananarivo, i manifestanti sono stati raggiunti anche da diversi militari delle Forze armate malgasce, sostenendo così la causa dei giovani GEN Z, che da oltre due settimane chiedono al Rajoelina e al presidente del Senato di dimettersi.

Malgrado la presenza dei soldati e il loro appello alla disobbedienza, le gendarmeria è intervenuta ugualmente e durante gli scontri sono morte due persone: un militare e un giornalista.

Intanto, a causa del coprifuoco nuovamente in atto, sono stati cancellati diversi voli.

Madagascar: ieri i militari si sono uniti alle manifestazioni di GEN Z

Le proteste di GEN Z sono iniziate a causa delle continue e prolungate interruzioni di acqua corrente e elettricità. I primi giorni le forze dell’ordine non hanno esitato a sparare con pallottole vere contro i manifestanti. Secondo quanto sostenuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, avrebbero perso la vita almeno 22 persone e i feriti sarebbero oltre cento.

Anche oggi la piazza “13 Maggio” nella capitale è gremita di gente. Studenti, artigiani, imprenditori, forze di sicurezza, politici e membri della diaspora chiedono all’unisono le immediate dimissioni del presidente.

A causa dell’escalation delle tensioni nell’Isola Stato, nel pomeriggio di oggi l’Unione Africana ha invitato le parti alla calma e ha chiesto a tutti di sedersi al tavolo delle trattative.

Giorgio Maggioni
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Madagascar: la rabbia in piazza e il presidente risponde nominando premier un generale

 

Nessun accordo con Trump: il Burkina Faso non vuole i rifugiati espulsi dagli USA

Africa ExPress
Ouagadougou,10 ottobre 2025

Ouagadougou ha risposto picche all’amministrazione Trump: non accoglierà rifugiati deportati da Washington.

Donald Trump vuole espellere milioni di richiedenti asilo dagli USA: e così Washington sta cercando di intensificare il trasferimento di questi “indesiderati” verso Paesi terzi. Alcuni governi africani compiacenti hanno già sottoscritto accordi in tal senso con le autorità americane.

Richiesta indegna

Ieri sera il ministro degli Esteri burkinabè, Karamoko Jean-Marie Traore, ha dichiarato che il governo ha rifiutato ripetutamente le richieste dell’amministrazione Trump di accettare gli espulsi. “Il Burkina Faso non è una terra di deportazione”, ha poi aggiunto il capo della diplomazia di Ouagadougou, definendo tale domanda da parte degli USA addirittura indegna e indecente.

Basta deportazioni

A partire da venerdì, l’ambasciata degli Stati Uniti a Ouagadougou ha temporaneamente sospeso tutti i servizi di routine relativi ai visti e ha consigliato ai residenti di rivolgersi all’ambasciata nella capitale del Togo, Lomé.

Il ministro degli Esteri del Burkina Faso ha poi specificato che la rappresentanza diplomatica USA nel Paese si sarebbe lamentata che i cittadini burkinabé, titolari di visti turistici e per motivi di studio, non rispetterebbero le norme di soggiorno negli USA.

Ma questa motivazione ufficiale non ha convinto Traoré, che ritiene tale misura un mezzo di ricatto, visto che il suo governo non ha aderito alla richiesta di Washington per accogliere rifugiati indesiderati dall’amministrazione Trump.

Carcerati deportati

Qualche mese fa eSwatini, l’unica monarchia assoluta in Africa, ha accolto nelle proprie carceri detenuti deportati forzatamente dagli USA. I carcerati erano stati condannati da tribunali americani per svariati crimini gravi. Washington ha spedito anche altri prigionieri in Sud Sudan, Paese a alto rischio, visto che il trattato di pace, siglato nel 2018 è più che mai in bilico. Dopo l’arresto dell’ex vicepresidente, Riek Machar, ora sotto processo, la situazione è a dir poco incandescente.

Rifugiati in Ghana e Ruanda

Washington ha spedito altri rifugiati, senza fedina penale sporca, in Ruanda e Ghana. Recentemente anche i Paesi Bassi hanno siglato un accordo con il governo ugandese. Kampala è disposta a accogliere le persone senza permesso di soggiorno che non possono essere rispedite dalle autorità olandesi direttamente o volontariamente nel proprio Paese di origine in tempi brevi. I richiedenti asilo saranno presi in carico dall’Uganda prima di essere mandati definitivamente a casa propria.

Secondo Human Rights Watch, le espulsioni da parte degli Stati Uniti di detenuti verso Paesi africani nell’ambito di “accordi opachi”, violano il diritto internazionale e devono essere respinte.

A fine settembre HRW ha dichiarato di essere al corrente dell’accordo – che non è stato reso pubblico – stipulato tra gli Stati Uniti ed eSwatini. Il regno è disposto a accogliere fino a 160 persone indesiderate dagli USA, in cambio di un aiuto finanziario di 5,1 milioni di dollari per rafforzare le capacità in materia di gestione delle frontiere e delle migrazioni.

Africa ExPress
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Trump non demorde: migranti deportati a eSwatini (ex Swaziland)

 

Olanda, accordo con Uganda per deportazione rifugiati

Madagascar: la rabbia in piazza e il presidente risponde nominando premier un generale

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
9 ottobre 2025

Il generale dell’esercito, Ruphin Fortunat Zafisambo, è stato nominato primo ministro del Madagascar dal presidente del Madagascar, Andry Rajoelina. L’alto ufficiale, molto conosciuto, prende il posto di Christian Ntsay, che una settimana fa è stato defenestrato dal capo dello Stato insieme a tutto il suo governo.

La crisi è stata causata dalle incessanti manifestazioni dei giovani di Generazione Z (GEN Z), appoggiati dai sindacati, artisti e dalle gente comune stufa della corruzione dilagante nel Paese.

Il presidente del Madagascar, Andry Rajoelina

Indebolito dalle dimostrazioni, il presidente cerca ora il sostegno dei militari con la speranza di riprendere in mano la situazione.

Tre vertici 

Il giorno dopo il suo insediamento, il nuovo capo del governo ha immediatamente nominato i primi tre ministri, con il compito di garantire la sicurezza. Il generale di divisione, Deramasimanjaka Manantsoa Rakotoarivelo, è a capo del dicastero delle Forze armate.

Il generale di corpo d’armata, Rakotondrazaka Andriatsarafara Andriamitovy, ha ottenuto la delega per la gendarmeria e infine un alto quadro della polizia, Radriambelo Mandimbin’ny Aina Mbolanoro, occupa la poltrona della pubblica sicurezza.

Pur di uscire dall’impasse, il presidente ha indetto un’assemblea al palazzo presidenziale, invitando rappresentanti di vari settori, come figure religiose e tradizionali, studenti, associazioni di giovani, esponenti della società civile, imprenditori, insegnanti, artigiani, agricoltori e altri. “E’ importante prendersi cura gli uni degli altri”, aveva annunciato Rajoelina.

Boicottata assemblea

Se da un lato centinaia di persone hanno fatto la fila ieri pur di varcare l’ingresso di palazzo Iavoloha, la sede del potere, GEN Z e i loro alleati hanno declinato l’invito, malgrado la presidenza abbia inviato diversi intermediari per convincere il collettivo a partecipare all’assemblea. Nulla da fare, la loro risposta è stata: “Non partecipiamo a questa ipocrisia. Non hanno capito niente”.

Anzi, proprio ieri i giovani medici e studenti di medicina si sono uniti al collettivo e gli specializzandi hanno addirittura sospeso la loro attività per interventi non urgenti negli ospedali di tutto il Paese. Rivendicano migliori trattamenti contrattuali e la ristrutturazione dei nosocomi, ritenuti ormai obsoleti.

Ultimatum

GEN Z e i loro alleati hanno persino lanciato un ultimatum, scaduto proprio ieri sera. Hanno chiesto le scuse pubbliche per la repressione della polizia durante le manifestazioni, le dimissioni del capo di Stato e del presidente del Senato. Hanno inoltre minacciato di indire uno sciopero generale qualora le loro richieste resteranno inascoltate.

Durante l’assemblea di ieri, il presidente ha assicurato che avrebbe implementato i progetti energetici che dovrebbero risolvere i ripetuti blackout. “Giuro che se entro un anno le interruzioni sulla rete elettrica persisteranno nella capitale, mi dimetterò”, ha affermato.

Manifestazione GEN Z

Le proteste sono iniziate a causa delle continue e prolungate interruzioni di acqua corrente e elettricità. I primi giorni le forze dell’ordine non hanno esitato a sparare con pallottole vere contro i manifestanti. E, secondo quanto sostenuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, sarebbero morte almeno 22 persone e i feriti sarebbero oltre cento.

Il licenziamento del vecchio esecutivo non ha per nulla placato la rabbia dei giovani malgasci, che dalla scorsa settimana stanno chiedendo le dimissioni di Rojeolina. L’attuale presidente è al potere dal 2018, ma ha già occupato questa posizione dal 2009 al 2014, dopo un colpo di Stato militare. Precedentemente è stato sindaco di Antananarivo, la capitale del Paese. Prima di entrare in politica, invece, era un noto DJ nel Paese.

Appassionati di musica

Passione per la musica condivisa dal nuovo primo ministro. Anche lui in passato è stato un DJ, attività che ha svolto nel centro del Paese, nella città di Fianarantsoa, che in lingua malgascia significa “Là dove si apprende il bene”.

Il primo ministro, Ruphin Fortunat Zafisambo, ex DJ

Ruphin Fortunat Dimbisoa Zafisambo ha studiato in Algeria e in Francia e si è diplomato all’accademia militare di Antsirabe. Ma è la passione per lo sport che gli ha permesso di fare il salto in politica. E’stato infatti il direttore generale della Federazione Basket malgascia, il cui presidente era all’epoca il fratello dell’ex primo ministro Christian Ntsay. Ha dapprima svolto la funzione di segretario generale aggiunto del governo, per poi essere nominato direttore di gabinetto civile e poi militare di Ntsay.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Madagascar nel caos: imponenti manifestazioni per costringere il presidente alle dimissioni

 

Albanese:”Basta armi a Israele, per fermare il genocidio occorre bloccare i porti di tutta Italia”

Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
Genova, 7 ottobre 2025

“Bisogna fermare tutto quello che viene da Israele ed esce per Israele. Serve che tutta l’Italia chiuda i porti, come fanno i portuali a Genova”: così parla la relatrice speciale ONUi per i diritti umani sui Territori occupati dei palestinesi dal 1967, Francesca Albanese.

Oggi si trova nel cortile del Rettorato dell’Università in via Balbi, a Genova, a due passi dalla stazione ferroviaria di Principe, invitata dagli studenti in occupazione dal 24 settembre 2025.

Manifesto durante la manifestazione dei portuali contro il passaggio di navi cargo cariche di armi di passaggio nel porto di Genova, 2021. Archivio Africa-express.info

Albanese lo ripete poi ai portuali che dal maggio 2019 combattono il traffico di armi, prima destinate contro lo Yemen e ora contro Gaza: “Voi avete acceso la miccia, la contestazione alle istituzioni deve arrivare non solo dagli studenti”.

Qualche ora dopo parla ai Giardini Luzzati con la sindaca Silvia Salis di un osservatorio sui traffici portuali e riparla dell’efficacia del boicottaggio anche nell’incontro pubblico alla sera, sempre ai Giardini Luzzati, con una folla enorme  all’aperto, divisa in piazza e piazzette su vari livelli, perché gli organizzatori (Giuristi democratici, Anpi, Amnesty International e Defence for Children) sono stati contestati dalla comunità ebraica genovese per aver organizzato il dibattito il 7 ottobre, data della strage di Hamas due anni fa, a Palazzo Ducale, sede di una Fondazione.

Risultato: Palazzo Ducale è stato chiuso e i Giardini Luzzati si sono aperti, ci si affaccia Il Cesto, cooperativa sociale del centro. “Non importa il cambio della sede, è stata una bellissima serata – commenta Albanese dopo con i giornalisti – e poi c’erano megaschermi in diverse piazze, la gente ha potuto seguire”.

Al pomeriggio all’università occupata,  il cortile è zeppo di persone (il rettore non ha concesso alcuna aula e non ha mai dialogato con gli occupanti). TV e i giornalisti sono tenuti fuori dal palazzo seicentesco. Nel dubbio, accanto al tavolo della conferenza campeggia un grande cartello “No foto, no video”. Ma la generazione Z qualche foto la scatta di nascosto e la posta subito su Instagram. Africa-Express l’ha intervistata e ascoltata nei vari luoghi attraversati.

Francesca Albanese

Esponenti della comunità ebraica hanno contestato la sua presenza oggi a Genova 7 ottobre, a due anni dalla strage di Hamas. Che cosa ne pensa?

“Ci sono giorni giusti o sbagliati per parlare di diritto internazionale? Dal primo giorno dopo l’attacco di Hamas a Israele non ho cambiato idea: i popoli oppressi hanno il diritto di resistere, anche in forme armate. Ma se il diritto internazionale riconosce la resistenza, vige anche il principio che non si toccano i civili, di nessuna religione o etnia. Sono regole minime ma garantiste, altrimenti ci troviamo davanti alle barbarie.

La resistenza sta ad un popolo come il diritto all’autodifesa sta a uno Stato. Il popolo non ha mezzi per resistere all’attacco di uno Stato. Tecnicamente il popolo palestinese ha rinunciato a quel diritto. Nella Cisgiordania i palestinesi dopo aver provato la resistenza armata, negli ultimi 30 anni hanno provato la resistenza pacifica e neppure quella ha funzionato. I palestinesi non stanno scacciando l’invasore, stanno morendo di genocidio.

Non c’è niente di romantico in un giorno così. Che ci volesse tanta violenza per far parlare di Palestina è terribile: dove eravamo noi, gli avvocati, la comunità internazionale, gli specialisti di Medio Oriente? Lo dico da occidentale, senza paternalismo, è importante non proiettare le nostre istanze su un popolo che sta resistendo per esistere e combatte anche una battaglia di legittimità.

Oggi la parola resistenza è meglio non usarla, perché significa attirare acredine sul popolo palestinese. Ora bisogna fermare il genocidio. La resistenza facciamola contro le nostre istituzioni.

Il popolo palestinese muore anche per l’ignoranza in questa parte di mondo. Dobbiamo essere più amorevoli e più gentili. Detto questo bisogna anche rifuggire dalle strumentalizzazioni e lo dico anche alla comunità ebraica: continuiamo tutti insieme”.

Per parlare di genocidio abbiamo bisogno di una Corte internazionale che l’accerti?

“No, l’articolo 2 della Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del genocidio del ’48 è chiaro: se si uccidono esponenti di un gruppo, se si perseguita psicologicamente o mentalmente un gruppo e si limitano o si impediscono le nascite all’interno del gruppo, è genocidio.

Non abbiamo bisogno che nessuno lo attesti e per altro l’Italia ha anche una legge degli anni Sessanta. Contro questo genocidio, si sono mobilitati 14 Paesi, il cosiddetto Gruppo dell’Aja, (guidato da Colombia e Sudafrica, spero se ne aggiungano altri tra cui il Brasile). Dicono tre cose: niente più armi ad Israele, niente più porti per transiti di armi e serve giustizia. Non è casuale che uno dei Paesi che partecipa è proprio il Sudafrica che ha conosciuto l’apartheid. Insomma non dobbiamo continuare a fare business as usual”.

Meloni, Crosetto, Cingolani e Tajani sono stati denunciati alla Corte Internazionale dell’Aja per “concorso in genocidio”. Possono essere incriminati di genocidio?

“Non conosco le carte. Certo chi non impedisce il genocidio, collabora con chi ne è responsabile mi pare possa essere perseguibile”.

Che cosa auspica ora in una fase tanto complessa con l’accordo Trump in discussione e una possibile tregua che anche il sottosegretario generale agli affari umanitari dell’OCHA, Tom Fletcher chiama “lume di speranza”?

“Siamo in una fase di violenza terribile, ma anche chi ha combattuto l’apartheid in Sudafrica ricorda che gli ultimi anni sono stati i più feroci e lo storico israeliano Ilan Pappé sostiene che il sistema diventa più cattivo perché più fragile.

Il genocidio deve finire subito, deve finire l’occupazione permanente perché non si può ricostruire Gaza sulla presente road map per mettere fine all’apartheid. Per il resto il piano Trump non chiede ai palestinesi che cosa vogliono, non li coinvolge minimamente e divide Gaza dalla Cisgiordania senza Autorità Nazionale Palestinese. Però è un momento di accelerazione storica.

Nessun genocidio finora è mai stato prevenuto, penso a Ruanda, Bosnia, Myanmar. Questo è il primo che ha scosso le coscienze. Penso che ci stia servendo il diritto internazionale. È un linguaggio di coerenza. È l’ultimo strumento pacifico che rimane.

Adesso la nostra bussola è il blocco delle navi e delle università: divide chi il genocidio lo vuole e chi non lo vuole. Se ci muoviamo tutti insieme all’unisono e ognuno fa dei passi con la forza che può….questa fase apre la possibilità della fine dell’occupazione nella Palestina storica.

Il progetto che i palestinesi chiedono, assieme agli israeliani che lottano al loro fianco, è essere tutti uguali, senza privilegi e il potere dell’immaginazione. Non dobbiamo proiettare le nostre idee di liberazione ma ascoltare che cosa dicono loro”.

Folla di persone ai Giardini Luzzzati per Francesca Albanese

Con gli universitari, i portuali e ai Giardini Luzzati, Lei ha parlato di boicottaggio. Perché è uno strumento utile contro un genocidio e un’occupazione che dura da 70 anni?

“L’unico modo per influire sulle istituzioni è scardinare il sistema dal punto di vista economico. Possiamo anche riconoscere la legittimità della resistenza, ma intanto qui bisogna fermare tutto quello che entra in Israele e ne esce. Da osservatrice terza, al di fuori di queste manifestazioni, dico questo consenso non c’è mai stato e si grida anche nei cortei ‘volevamo salvare la Palestina e la Palestina ha salvato noi’. Siamo davanti a uno specchio. Siamo lo stesso sistema che priva i palestinesi del diritto di vivere, di andare all’università, è un sistema di privazione della libertà umana.

Perchè per sfollare, sostituire i palestinesi con colonie, strade, turismo, dietro c’è un’economia dell’occupazione e c’è anche l’economia che non si è sottratta a questo come le università oppure aziende di produzioni di mezzi edili o scavatrici che possono essere usati in guerra.

I partenariati con le università danno legittimità a normalizzare l’occupazione. Però vede, due anni fa neppure si poteva parlare di boicottaggio dell’università. Ora invece è diverso. La consapevolezza su queste cose è fondamentale”.

Lei parla spesso di analfabetismo funzionale. Che cosa intende?

“Fino a 30 anni fa c’era una conoscenza diffusa della situazione palestinese in Italia. Invece oggi mostrano le mappe per negare il genocidio. Un comportamento che perpetua il genocidio stesso e non stimola la conoscenza. Le università tornino ad essere luoghi del sapere, dove si discute liberamente. Inutile chiamare il competente di turno, che ha determinate opinioni, per bilanciare le discussioni”.

Come ha vissuto a livello personale questi due anni?

“Già a ottobre 2023 è stato evidente per me quello che sarebbe successo, visto il dispiegamento di forze militari messo subito in atto dallo Stato di Israele. Ho pianto molto in questi due anni.

Il momento più terribile è stato la tregua del 17 e 18 marzo di quest’anno quando l’esercito israeliano ha continuato a uccidere e sono morte 600 persone in un solo giorno. Però ho il vizio della speranza e penso che ognuno fa quel poco che può, davvero la situazione può cambiare”.

Durante la giornata genovese, Albanese ha fatto spesso riferimento al dibattito del giorno prima a Roma, Unpacking Israel, Unpacking Palestine, con Ilan Pappé ed Eyal Weizman. Chi volesse approfondire: lo trova qui.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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Israele, strategia militare psicologica: uccide i simboli politici per annientare la popolazione palestinese

Speciale per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
7 ottobre 2025

Molti confondono i politici di Hamas con i suoi militanti. Dobbiamo però specificare che la resistenza militare al colonialismo non è fisicamente combattuta dai leader dell’organizzazione.

Quando Israele afferma che “tutti i civili di Gaza sono terroristi di Hamas” per legittimare 65 mila omicidi commessi dall’IDF, si riferisce ai palestinesi che hanno votato per questo partito politico. E del consenso transnazionale che l’organizzazione ha ottenuto durante la fase finale del progetto coloniale israeliano e il genocidio di quasi tutta la popolazione palestinese nella Striscia.

Le vittime uccise dalle bombe, per far spazio ai progetti imprenditoriali e costruire lussuose strutture turistiche che accoglieranno ricchi turisti da tutto il mondo in quella che è già stata definita “la Riviera di Gaza”, sono persone che condividono l’ideologia della resistenza promossa dai leader politici di Hamas. E che combattono con le armi che trovano in nome di un’idea: una Palestina libera dai colonialisti.

I politici dell’organizzazione, però, fanno politica come tutti i leader di qualsiasi partito politico. Diventano simboli, eroi da rispettare ed emulare. Poco importa se gli interessi coincidono con quelli della popolazione, perché davanti a un nemico esterno tanto potente l’ideologia diventa l’unica speranza per continuare a esistere.

Lo Stato sovrano di Palestina non esiste, ma esiste il suo popolo. Non bastano solo le bombe per eliminare fisicamente i palestinesi. E i politici israeliani lo sanno, per questo uccidono i loro eroi.

Un articolo del quotidiano israeliano “Kav Pressn- Questa settimana a Gerusalemme” del 3 settembre 2025, in merito all’uccisione del portavoce di Hamas, e di importanti leader Houthi e Ministri Yemeniti, descrive esattamente la strategia militare psicologica di Israele.

Quotidiano israeliano “Kav Pressn- Questa settimana a Gerusalemme” del 3 settembre 2025

Traduzione in italiano dalla lingua ebraica

Dopo un lungo inseguimento Israele ha chiuso il conto con il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida, eliminato in un attacco aereo su Gaza. Per un certo periodo, il sistema di sicurezza lo aveva seguito e sapeva dove si trovava. Poco prima dell’attacco, Israele sapeva esattamente in quale appartamento alloggiava.

Il Servizio di Sicurezza dell’IDF ha atteso l’intelligence al fine di aumentare le probabilità di eliminazione. Hudayf Sameer Abdullah al-Kahlot, noto come Abu Ubayda, era il famoso portavoce dell’ala militare di Hamas, divenuto una figura ben nota e venerata tra i sostenitori dell’organizzazione nel mondo arabo durante e prima della guerra.

Abu Obeida, portavoce di Hamas

Di solito appariva in televisione o in dichiarazioni registrate avvolto nella kefiah rossa a lui associata. Il Ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato dopo l’assassinio: “Il portavoce terrorista di Hamas, Abu Ubayda, è stato eliminato e mandato a incontrare tutti i cospiratori dell’asse del male provenienti da Iran, Gaza, Libano e Yemen nel profondo dell’inferno. Congratulazioni alle IDF e allo Shin Bet per la perfetta esecuzione. Presto, con l’intensificarsi della campagna a Gaza, incontrerà molti altri dei suoi complici: assassini e stupratori di Hamas”.

Le forze israeliane hanno attaccato il secondo e il terzo piano dell’edificio in cui alloggiava Abu Ubayda con un missile di precisione. L’operazione si basava su informazioni di intelligence provenienti dallo Shin Bet, che lo seguiva, ed è stata condotta in collaborazione con l’Aeronautica Militare dal quartiere generale delle operazioni speciali dello Shin Bet nel centro di Israele.

Sia l’IDF che lo Shin Bet hanno confermato l’assassinio di Abu Ubayda, vero nome Hadifa Kahlot. “L’operazione è stata coordinata in modo interorganizzativo dal quartiere generale operativo dello Shin Bet in collaborazione con il Comando Sud ed è stata resa possibile grazie alle informazioni di intelligence preliminari raccolte dallo Shin Bet e dall’intelligence militare, che hanno indicato il nascondiglio del terrorista”, hanno affermato.

Il terrorista fungeva da volto dell’organizzazione terroristica di Hamas e, nell’ambito del suo ruolo, diffondeva la propaganda dell’organizzazione”, ha aggiunto. Allo stesso modo, Kahlot era responsabile della distribuzione di video che incitavano il mondo arabo e l’opinione pubblica palestinese a emularli.  Il capo di stato maggiore israeliano La’eil Zamir ha fatto riferimento all’assassinio del portavoce di Hamas Abu Ubayda e ha lanciato una minaccia rivolta ai leader dell’organizzazione che si trovano all’estero.

Zamir ha dichiarato: “Nella Striscia di Gaza, ieri abbiamo attaccato una delle figure di spicco di Hamas, Abu Ubayda. Ma siamo ancora al lavoro, la maggior parte del governo di Hamas è all’estero, raggiungeremo anche loro.”
Questo è un assassinio molto significativo per l’organizzazione e per gli abitanti di Gaza che lo consideravano un simbolo.

Abu Ubayda è considerato una figura centrale di Hamas, e rappresenta anche un’immagine simbolica per i palestinesi. Il massacro e il suo assassinio potrebbero avere un impatto morale, sia sui membri di Hamas a Gaza e West Bank, e forse anche sui suoi sostenitori in tutto il mondo.

Inoltre, il suo assassinio potrebbe danneggiare gli sforzi di Hamas per influenzare le coscienze. È noto per la sua vicinanza agli alti funzionari, per il suo contatto diretto con loro e per la sua presenza nel circolo decisionale. Ora, non ne sono rimasti molti nella Striscia. Uno è Izz ad-Din Haddad, comandante della Brigata di Gaza.

Hamas ha rilasciato una dichiarazione in risposta: “L’attacco dell’occupazione a un edificio residenziale nel quartiere di al-Raml, nella parte occidentale di Gaza, è il risultato di una serie di distruzioni e di escalation mirate a costringere i civili a evacuare la città. Questo fa parte dei piani per distruggere Gaza City e trasferirne forzatamente tutti i residenti. Chiediamo alla comunità internazionale di intervenire immediatamente per fermare l’aggressione, adottare misure deterrenti contro l’occupazione e assicurare i suoi leader alla giustizia per i loro crimini.

Nel frattempo, a Sanaa, la capitale dello Yemen, si sono svolti i funerali del primo ministro houthi, Ahmed al-Rahawi, e degli altri ministri uccisi con lui nell’attacco israeliano alla città. Gli houthi non hanno ancora annunciato esattamente quante persone siano state uccise nell’attacco, ma 12 bare sono state viste al funerale, disposte una accanto all’altra in fila.

Primo Ministro Houthi Ahmed al-Rahawi

Le bare sono state poi trasportate in una processione di massa che assomigliava a una parata militare e sembrava una dimostrazione di forza dopo il doloroso colpo subito dall’organizzazione. La folla si è radunata in piazza al-Saba’in gridando “Morte a Israele!”.

Gli houthi, sostenuti dall’Iran e che controllano parti dello Yemen, hanno continuato la loro campagna di “sostegno ai palestinesi”, lanciando missili e droni contro Israele e attaccando navi nel Mar Rosso, incluso un altro attacco avvenuto di recente.

L’attacco israeliano si basava su informazioni di intelligence di un raduno di alti membri dell’organizzazione ed è stato condotto parallelamente al discorso settimanale del leader Houthi, Abdel-Malkheder al-Din al-Houthi, che trasmette da un nascondiglio.

L’IDF ha affermato che l’obiettivo principale era il Capo di Stato Maggiore Houthi, Mohammed Abdel-Karim al-Ghammari, anch’egli colpito e sopravvissuto in un precedente attacco. Secondo le stime israeliane, tra le vittime figurano il Ministro della Giustizia, il Ministro dell’Economia e del Commercio, il Ministro degli Affari Esteri, il Ministro dell’Agricoltura e il Ministro dell’Informazione del governo Houthi, formatosi lo scorso anno.

Anche il nuovo primo ministro Houthi, Mohammed Miftah, che fino ad ora ha ricoperto la carica di vice primo ministro, è rimasto ferito. Nell’attacco, ha dichiarato ai funerali: “Esprimiamo le nostre condoglianze al nostro popolo per la perdita dei ministri. Per un anno intero, i ministri del governo hanno compiuto numerosi sforzi per riorganizzare la struttura amministrativa ed economica del Paese ai massimi livelli. Il nemico israeliano pensa che il suo crimine ci indurrà a ritirare la nostra posizione di sostegno a Gaza.

Nuovo Primo Ministro Houthi, Mohammed Miftah

Stiamo dicendo al nemico che l’umiliazione è fuori questione e che siamo pronti a sacrificarci e ad adempiere al nostro dovere. A Gaza diciamo: non siete soli”.

Il quotidiano libanese “Al-Akhbar”, affiliato a Hezbollah e all’asse iraniano-sciita, ha riferito che la “piazza yemenita” si aspetta una risposta ampliata all’attacco israeliano che potrebbe includere “obiettivi nemici vitali”. Fonti citate nel rapporto hanno affermato che le azioni pianificate dagli Houthi saranno “di alta qualità e molto dolorose” e che “il quartier generale del governo (in Israele) non sarà lontano” dalle forze houthi.

Secondo loro, “la banca bersaglio di Sanaa si espanderà e il quartier generale e la casa di Netanyahu non saranno luoghi sicuri”. Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha scritto: “Abbiamo inflitto un colpo senza precedenti agli alti funzionari della sicurezza e della leadership politica dell’organizzazione terroristica Houthi in Yemen, in un’operazione audace e brillante delle IDF. Il primo ministro houthi e la maggior parte degli altri alti funzionari sono stati ostacolati e feriti. Ho avvertito che dopo la piaga delle tenebre sarebbe venuta anche la piaga dei primogeniti, e ora abbiamo adempiuto l’avvertimento”.

Anche altri quotidiani israeliani hanno riportato questa strategia militare di Israele per distruggere psicologicamente e moralmente i palestinesi e tutti coloro che provano a sostenerli.

Quotidiano israeliano “Israel_Hayom” del 5 settembre 2025
Quotidiano israeliano “Israel_Hayom” del 5 settembre 2025

Quello che Israele sta facendo, attraverso la sua ala armata e grazie al supporto militare ed economico degli Stati affiliati al suo governo, non è solo eliminare chiunque ostacoli i suoi progetti imprenditoriali colonialisti. Sta mettendo in scena una prova di forza per dimostrare che nessuno può resistere al suo dominio.

Valentina Vergani Gavoni
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Bocciato Gautrain, il treno Frecciarossa sudafricano: è un “fallimento finanziario”

Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
6 ottobre 2025

L’Associazione automobilistica sudafricana (AA) ha definito il progetto Gautrain un “fallimento finanziario”. Di fatto, dall’inaugurazione del treno (giugno 2010) ad oggi, il convoglio Alta Velocità Gautrain ha visto diminuire i passeggeri in modo esponenziale.

Il percorso è di 80 km e parte da Johannesburg-Park con una deviazione per l’aeroporto internazionale OR Tambo per arrivare a Pretoria-Hatfield. Velocità massima di 160 km/h e 10 fermate. A dire il vero per gli standard europei e dell’estremo oriente non sembra un convoglio Alta Velocità, sebbene il progetto continui ad ampliarsi.

Gautrain treno AV Sudafricano
Gautrain il treno Alta Velocità Sudafricano


Il progetto miliardario 

Il progetto ferroviario Gautrain è stato uno dei più grandi lavori di costruzione e di ingegneria degli ultimi anni dell’Africa australe. Un salto di qualità nel sistema di trasporto ferroviario ad alta velocità all’avanguardia.

Un’impresa ideata nel 2006 per alleviare la congestione stradale, offrire un trasporto pendolare rapido e moderno e stimolare l’economia delle aree circostanti. Operativo nel 2010 è costato 31 miliardi di rand (oltre 1,5 miliardi di euro).

Stime eccessive

Eppure il Bombela Consortium, responsabile della progettazione, costruzione e gestione del treno aveva fatto delle proiezioni che stimavano 47,5 milioni di passeggeri all’anno.
 Un calcolo che molti hanno ritenuto eccessivo.

Infatti, nel 2025, dopo i 15 anni di attività, la Gautrain Management Agency (GMA) ha comunicato che il sistema ha trasportato oltre 200 milioni di passeggeri. Una media annua di 13,3 milioni di passeggeri. Non solo, nel 2023/2024, il numero è drasticamente sceso a 7,9 milioni di utenti.

Gautrain percorso Johannesburg-Pretoria
Gautrain il percorso Johannesburg-Pretoria

Patronage guarantee

Nel contratto di gestione è stata aggiunta la “patronage guarantee” (garanzia di patrocinio). Secondo alcuni media si tratta di una clausola discutibile che va a vantaggio dei gestori della linea e penalizza l’ente pubblico. Serve a coprire la differenza tra i ricavi previsti dai progetti di traffico e i ricavi effettivi. Molte critiche sono state fatte all’accordo di “patronage guarantee” perché viene considerato un’ “assicurazione incorporata nel contratto per la scarsa performance”.

Di fatto trasferisce il rischio all’ente pubblico anziché al concessionario del servizio.
 La provincia del Gauteng, per l’anno finanziario 2022/2023, ha dovuto versare a Bombela 2,37 miliardi di rand (oltre 117 milioni di euro). Nel 2023‑2024, una quota maggiore: 2,79 miliardi di rand (138 milioni di euro).

Dura la posizione dell’AA. Ha giudicato il progetto Gautrain uno spreco, perché il sistema finora non ha mantenuto le proiezioni di traffico passeggeri.

Gautrain locandine dei giornali
Locandina del giornale The Star: “Il Sudafrica ha bisogno del Gautrain?”

Il futuro del Gautrain

Nonostante le critiche, nei progetti del ministero dei Trasporti c’è in programma l’ampliamento delle linee ferroviarie del Gautrain. Nei piani della ministra dei Trasporti sudafricana, Barbara Creecy, e del governo c’è la modernizzazione delle ferrovie. Viene considerata una priorità fondamentale da realizzare entro il 2030.
 La linea ferroviaria del Gautrain passerebbe dagli attuali 80 km a 230 km. Aumenterebbe anche la capacità di trasporto merci di Transnet: dai 149 milioni di tonnellate attuali a 250 milioni all’anno.

In Sudafrica, dallo scorso anno, sono stati avviati studi di fattibilità per tre corridoi prioritari. Si tratta di Johannesburg-Polokwane-Musina, Johannesburg-Mbombela e Johannesburg-Durban. 
Una volta completata la linea Johannesburg-Polokwane, 320 km, il treno AV viaggerà in alcune tratte a oltre 200km/h. I tempi di percorrenza tra Pretoria e Polokwane saranno ridotti da cinque ore a circa 90 minuti.

La linea Johannesburg-Durban avrà un costo stimato: 530 miliardi di rand (26,2 miliardi di euro).

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com

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Sudafrica, caccia grossa in crisi: perde centinaia di milioni

Sudafrica: sotto la superficie, tra oro, silenzi e infanzia violata

Trump esibisce foto fake per dimostrare uccisioni di massa di bianchi sudafricani

Pretoria si avvicina a Cina e Russia, condanna Israele e Washington espelle l’ambasciatore sudafricano

Guerra in Sudan: mercenari ucraini e colombiani uccisi nel Nord-Darfur

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
4 ottobre 2025

Pochi giorni fa l’esercito di Khartoum ha fatto sapere di aver ucciso combattenti stranieri (leggasi mercenari) colombiani e ucraini. I militari regolari sostengono di aver teso un’imboscata ai soldati di ventura.

Tiratori scelti e specializzati in droni

In un comunicato della 6° divisione di fanteria dell’esercito sudanese, è stato specificato che i foreign fighters cercavano di raggiungere i palazzi più alti della città. Secondo SAF, alcuni soldati di ventura sarebbero specializzati in ingegneria di sistemi e droni, mentre altri sarebbero tiratori scelti. Nella nota è stato poi aggiunto che, durante altri scontri a est a El Fasher, sono stati uccisi anche parecchi paramilitari delle RSF. Il capoluogo del Nord-Darfur è sotto assedio dallo scorso anno.

Colombiani reclutati da EAU

La presenza di mercenari colombiani non è una novità. Sono apparsi per la prima volta alla fine dello scorso anno mentre tentavano di entrare dal deserto libico in Sudan per combattere accanto alle Rapid Support Forces. Anche allora erano caduti in un’imboscata tesa da milizie che sostengono l’esercito di Khartoum.

I colombiani erano stati reclutati da una società facente capo agli Emirati Arabi Uniti. Eppure Abu Dhabi ha sempre negato e nega ancora di supportare le RFS.

SAF sostiene di aver ucciso mercenari ucraini e colombiani a Al Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale

In passato forze speciali di Kiev hanno combattuto accanto all’esercito di al-Burhan a Khartoum per sconfiggere i paramilitari di Wagner, allora ancora molto attivi in Sudan accanto alle RSF. Nel 2023, in occasione di un viaggio in Sudan, il potente ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, era riuscito a strappare il via libera per la costruzione una base navale per le forze armate di Mosca a Port Sudan. Si tratta di un progetto molto importante per la Russia, che da tempo tenta di rafforzare la propria presenza nel Mar Rosso. Da allora non si è più sentito parlare degli uomini di Wagner nel Paese.

Finora la presenza dei mercenari ucraini non è stata confermata o smentita da altre fonti.

Nord-Darfur al centro dei combattimenti

Il Sudan è sempre nella morsa del terribile conflitto interno, iniziato nell’aprile 2023, tra le RFS, capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti,” e le Forze armate sudanesi (SAF) di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, leader del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan.

Nell’ex protettorato anglo-egiziano si sta consumando la peggiore catastrofe umanitaria al mondo. Si stima che solo durante i combattimenti siano morte decine e decine di migliaia di persone, molte altre hanno perso la vita a causa di malattie, come colera, malaria, dengue e fame.

Basti pensare che negli ultimi 40 giorni ben 95 sfollati – tra loro 73 bambini – sono morti proprio per mancanza di cibo e malattie nel campo di Abu Shouck, nelle vicinanze di El Fasher, capoluogo del Nord-Darfur. Erano scappati dalla città, per cercare protezione e sicurezza nel sito destinato a coloro che hanno dovuto lasciare le proprie casa per i continui combattimenti.

Nord-Darfur: la popolazione allo stremo

La situazione nel Nord-Darfur peggiora di giorno in giorno. A El Fasher mancano i servizi essenziali, assistenza sanitaria, non c’è acqua potabile e tantomeno cibo. Da tempo i convogli umanitari non riescono più a entrare nell’area.

Un disastro umanitario e sanitario a tutto campo, i corpi sono sparsi ovunque nelle strade della città e delle periferie. In questo angolo di mondo persino una degna sepoltura è diventato un lusso.

Secondo le Nazioni Unite, lo scorso mese nel capoluogo del Nord-Darfur, durante gli attacchi delle RSF, sono state uccise 91 persone. I combattimenti tra gli uomini di Hemetti e SAF si sono intensificati nei dintorni della città, ancora sotto controllo dei militari regolari e dei loro alleati, noti come Forze congiunte.

Atrocità a sfondo etnico

Volker Türk, alto commissario dell’ONU per i Diritti Umani, due giorni fa ha chiesto interventi urgenti per prevenire attacchi su larga scala e atrocità a sfondo etnico a El Fasher.

Per il momento nessuno delle parti in causa sembra voler mettere un punto finale a questa guerra,

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
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Mercenari colombiani combattono in Sudan con gli ex janjaweed

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Madagascar nel caos: imponenti manifestazioni per costringere il presidente alle dimissioni

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
3 ottobre 2025

A Antananarivo, capitale del Madagscar, dal 25 settembre le manifestazioni non si fermano. Anche oggi studenti, artisti e sindacati si sono dati appuntamento nelle strade e nelle  piazze per chiedere le dimissioni del presidente Andry Rajoelina, al potere dal 2018.

In precedenza, dopo un colpo di Stato militare, il 51enne Rajoelina, aveva già occupato la poltrona più ambita dal 2009 al 2014.

Interruzioni acqua e corrente

Le proteste sono iniziate a cause delle continue e prolungate interruzioni di acqua corrente e elettricità. I primi giorni le forze dell’ordine non hanno esitato a sparare con pallottole vere contro i manifestanti. E, secondo quanto sostenuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, sarebbero morte almeno 22 persone e i feriti sarebbero oltre cento.

Madagascar: proteste dei GEN Z

Le dimostrazioni pacifiche dei giovani sono sfociate poi in saccheggi di banche e negozi. Si suppone che le violenze siano scoppiate dopo l’infiltrazione di casseur, persone che si distinguono per comportamenti violenti e vandalici durante manifestazioni.

Violenze, saccheggi, morti

Tra le vittime dei primi giorni di protesta, non solo manifestanti, ma anche passanti e un vigilantes di un ufficio postale, è stato colpito alla testa da una pallottola.

L’allora primo ministro, Christian Ntsay  – poi silurato dal presidente insieme a tutto il governo lunedì scorso – aveva imposto un coprifuoco dalla ore 19.00 alle 05.00 su tutto il territorio nazionale. Ora la misura è ancora in vigore, ma l’orario è stato ridotto.

Le proteste si sono estese anche in altre città dell’isola Stato, come Diego Suarez, chiamata anche la Perla del nord e capoluogo della regione Diana, dove sono morte due persone durante le dimostrazioni.

Turismo

La Farnesina sconsiglia i viaggi in Madagascar, eccezion fatta per Nosy Be (ambita meta turistica che si trova ugualmente nella regione Diana), mentre governi come Francia, Germania e altri hanno esteso l’allerta in tutto il territorio malgascio.

Spiagge in Madagascar

Il Madagascar è una meta turistica molto gettonata per le sue spiagge incontaminate, la flora (12.000 piante native sull’Isola cui l’80 per cento è endemico, tra queste anche molte erbe medicinali) e la fauna, uniche al mondo.

Povertà

Il Paese è tra più poveri del pianeta. Secondo i dati della Banca Mondiale, il reddito annuo pro capite è passato da 459 dollari a 448 dollari nel 2023, e la povertà urbana è aumentata notevolmente nell’ultimo decennio (+ 31 per cento).

Sempre in base alla BM, il tasso di disoccupazione sarebbe del 3 per cento e quello dei giovani tra i 15 e 24 anni del 5,5. Tuttavia, secondo molti economisti, i dati andrebbero presi con grande cautela, visto che molti lavoratori sono precari e, inoltre, tanti malgasci sopravvivono solamente grazie al commercio informale.

Il Madagascar è tra i Paesi più poveri al mondo

Va poi sottolineato che ogni anno 400 000 giovani entrano nel mercato del lavoro, la maggior parte dei quali senza alcuna formazione.

Lo scioglimento del governo e le promesse per un cambiamento, fatte dal presidente in occasione di un discorso alla nazione, trasmesso dal canale televisivo principale lunedì scorso, non ha placato l’ira dei giovani della Gen Z.

Un giovane influencer ha dichiarato ai giornalisti: “Mi alzo in piedi, non mi nascondo più, come del resto tutti noi del movimento. Secondo il capo dello Stato ‘È il popolo che conferisce il potere’. E noi diciamo: ora è il popolo che riprende il potere perché non possiamo più tollerare questa situazione”.

Centinaia di giovani sono arrivati anche da lontane periferie di Antananarivo. “Abbiamo percorso 30 chilometri a piedi. Lo Stato deve capire il nostro malcontento; non siamo più con loro”, hanno sottolineato alcuni di loro.

Durante le manifestazioni odierne a Antananarivo la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti, che hanno lanciato pietre contro le forze dell’ordine.

Il presidente Rajoelina durante una diretta Facebook di questa mattina ha affermato che giovani manifestanti sarebbero manipolati. “Alcuni Paesi e agenzie – ha sentenziato – hanno finanziato questo movimento per estromettermi, non attraverso le elezioni, ma per profitto, per prendere il potere come in altri nazioni africane”. Il capo di Stato non ha però spiegato di quali quali Paesi o agenzie si tratta.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Israele: perché nessuno arresta Netanyahu?

Speciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
2 ottobre 2025

Il diritto internazionale si sofferma sui crimini di guerra commessi da uno o più Stati sovrani, ma non prende in considerazione il metodo con cui vengono commessi.

L’errore più comune che molti fanno è paragonare il sionismo al nazismo, mettendo a confronto le due ideologie. C’è però un’enorme differenza che distingue la politica sionista da quella nazista: l’estorsione del consenso fondato sul beneficio del crimine, indotto dall’abuso psicologico per mezzo della falsificazione storica.

I sionisti hanno letteralmente cancellato dalla narrazione occidentale la storia, negando fatti e prove inconfutabili. Esattamente come stanno negando il genocidio, oggi, davanti a tutto il mondo.

Solo grazie a una ricostruzione accademica della realtà, precedente alla Shoah, è possibile identificare il metodo con cui hanno legittimato il colonialismo in Medio Oriente.

Ebrei vittime dell’abuso psicologico

In un’intervista riportata dal quotidiano israeliano Haaretz, lo storico e docente di Oxford Avi Shlaim racconta come è stato manipolato dai sionisti e in che modo è riuscito a riconoscere l’abuso psicologico: “A scuola ho imparato la versione sionista del conflitto e l’ho accettata senza riserve. Ero un israeliano patriottico; avevo fiducia nella giustezza della nostra causa. Pensavamo a Israele come a un piccolo Paese amante della pace, circondato da arabi ostili che volevano spingerci in mare. Credevo che non avessimo altra scelta che combattere”.

Avi Shlaim, alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni del 1967, fece domanda all’ambasciata israeliana a Londra per arruolarsi: “Mi sentivo parte del Progetto sionista. Volevo tornare e partecipare alla guerra che tutti sapevamo sarebbe arrivata”.

All’epoca era ancora uno studente di Cambridge. Ed è stata proprio l’università londinese ad avvicinare Avi Shlaim al sionismo. Ma le sue origini irachene non sono sioniste. Era nato infatti a Baghdad nel 1945 in una famiglia ebrea benestante e ben radicata, che si sentiva parte del mondo arabo.

“Eravamo prima iracheni, poi ebrei. A casa parlavamo solo arabo. La comunità ebraica era fortemente integrata nella società locale. La mia famiglia aveva molti amici cristiani e musulmani. Quando chiesi se avessimo amici sionisti, mi dissero di no, perché non facevano parte del nostro mondo”, spiega.

“La mia famiglia non è mai stata sionista. Il sionismo era un movimento di ebrei europei ed era destinato a loro. I suoi dirigenti non si sono mai interessati agli ebrei del mondo arabo. Consideravano il mondo arabo primitivo e culturalmente inferiore. Solo dopo l’olocausto il movimento sionista iniziò a cercare ebrei ovunque, incluso il mondo arabo. La mia famiglia non aveva alcun interesse per Israele e non voleva andarci”, si legge nell’intervista pubblicata dal quotidiano israeliano.

Immigrazione forzata in Palestina

Molte furono le strategie per estorcere il consenso degli ebrei e convincerli a emigrare verso la Palestina.

Forza di intimidazione, assoggettamento e omertà, sono i tre elementi costitutivi del colonialismo in Medio Oriente. Le prime vittime sono gli ebrei. Tanti non sono nemmeno consapevoli di esserlo perché i fatti storici vengono continuamente omessi dalla memoria.

Tra il 1950 e il 1951, una serie di attentati contro i siti ebraici a Baghdad furono determinanti per l’esodo di massa nel nuovo Stato sionista.

Baghdad, tra il1950 e il 1951

Il giornalista di Haaretz chiede quindi se è vero che gli attentatori fossero in realtà ebrei inviati dal Mossad per seminare paura e incoraggiare l’immigrazione: “Israele ha negato fermamente quelle voci e due commissioni d’inchiesta l’hanno scagionata da qualsiasi coinvolgimento”, afferma Avi Shlaim. Ma aggiunge: “Nella mia ricerca mi sono imbattuto in prove che indicavano chiaramente il coinvolgimento israeliano in quegli attentati”.

Manipolazione collettiva

I sionisti hanno falsificato la realtà storica per mezzo di un metodo che oggi è visibile a chiunque. Qualunque individuo – civile o rappresentante di un’istituzione – che osa ostacolare il progetto di espansione coloniale del Gande Israele, è vittima di ripercussioni economiche, politiche e militari gravissime.

Il terrore che chiunque possa diventare un “palestinese” da eliminare è reale. Quello che accade in Palestina può succedere ovunque, se Stati Uniti e Israele decidono di farlo.

L’esistenza dell’entità sionista è legittimata da una pseudo guerra razzista tra il mondo “civilizzato” contro gli “incivili da civilizzare”, così l’Occidente tutela il diritto all’autodifesa della colonia statunitense in Palestina: “Abbiamo lasciato l’Iraq da ebrei e siamo arrivati ​​in Israele da iracheni. Abbiamo perso la nostra considerevole ricchezza, il nostro elevato status sociale e il nostro fiducioso senso di orgoglio per la nostra identità di ebrei iracheni. Una volta in Israele, siamo stati sottoposti a un processo sistematico di de-arabizzazione e catapultati in un Paese straniero, dominato dagli Ashkenaziti (ebrei europei, ndr)”, racconta ancora Avi Shlaim.

Verità storica

Dopo il servizio militare si è trasferito in Inghilterra, dove vive dal 1996. Ha sposato una psicoterapeuta, Gwyn Daniel, e con lei ha iniziato a comprendere di essere vittima di un abuso psicologico: “Gwyn ed io concordiamo sul fatto che la Dichiarazione Balfour fosse un classico documento coloniale: ignorava i diritti e le aspirazioni del 90% della popolazione, che era palestinese. Anche dal punto di vista dell’interesse nazionale della Gran Bretagna, fu un colossale errore strategico”.

Dichiarazione Balfour

Lloyd George, all’epoca primo ministro del Regno Unito, “allineò la politica estera britannica a un piccolo gruppo di sionisti che circondava Chaim Weizmann (un dirigente sionista che fu il primo presidente di Israele), contro la volontà della comunità ebraica dominante in Gran Bretagna, e di molti degli ebrei nativi in ​​Palestina all’epoca”, continua Avi Shlaim.

“La semplice verità è che Israele iniziò la sua vita come movimento coloniale di insediamento – commenta lo storico e continua – Durante la guerra del 1948, Israele perseguì una pulizia etnica in Palestina. Nel giugno del 1967, Israele completò con la forza militare la conquista di tutta la Palestina storica. Quell’occupazione alla fine trasformò Israele in uno Stato di apartheid. I palestinesi furono le vittime del Progetto Sionista“.

Ricostruzione della memoria

Shlaim ha studiato storia a Cambridge, ha insegnato a Reading ed è diventato professore a Oxford. Solo grazie a una rigorosa ricerca accademica ha smascherato tutte le menzogne tramandate di generazione in generazione. Nel 1982 non si aspettava di trovare negli archivi di Stato israeliani a Gerusalemme una verità che avrebbe profondamente cambiato la sua visione del mondo.

“Per un anno intero ho letto documenti dalla mattina fino all’orario di chiusura. È stato allora che mi sono radicalizzato. Da sionista patriota sono diventato sempre più critico nei confronti di Israele e dell’occupazione, fino a quando non sono più riuscito a identificarmi con essa”, afferma.

“Quello che ho letto lì non corrispondeva a ciò che mi era stato insegnato a scuola: che gli ebrei erano sempre vittime; che Israele era sempre la vittima; che il 1948 era un genocidio mirato a gettare gli ebrei in mare; che eravamo pochi contro molti; che il mondo arabo era unito contro di noi; e che i dirigenti israeliani cercavano di fare la pace ma non avevano alcun alleato dalla parte araba. Credevo a tutto questo, ma negli archivi ho trovato una verità diversa. Il quadro che ne è emerso era completamente in contrasto con la storia ufficiale. I documenti che ho scoperto erano scioccanti, sorprendenti e stimolanti”, spiega Avi Shlaim.

Confronto tra realtà e menzogne

“A scuola ho imparato che tutti gli arabi rifiutavano il Progetto Sionista e che sette eserciti arabi avevano invaso la Palestina nel 1948 per distruggere lo Stato ebraico sul nascere. Ma ho trovato documenti sugli incontri segreti tra Re Abdullah (Re di Giordania) e l’Agenzia Ebraica, a partire dal 1921, e prove di un dialogo e di una cooperazione di lunga data”, commenta lo storico.

“Abdullah non smise di parlare con gli ebrei fino al suo assassinio nel 1951. C’era di più: il presidente siriano Husni al-Za’im voleva incontrare David Ben-Gurion faccia a faccia, scambiare ambasciatori e normalizzare le relazioni. Aveva delle richieste, sì, ma Ben-Gurion si rifiutò di incontrarlo. Il divario tra la mitologia sionista e la realtà storica è ciò che mi ha reso un ‘nuovo storico’ – racconta e aggiunge – Israele non ha mai veramente voluto appartenere al Medio Oriente. Si considera un Paese dell’Europa occidentale”.

“Gli ebrei Mizrahi (di origine mediorientale) avrebbero potuto essere un ponte tra Israele e il mondo arabo, ma i dirigenti sionisti non hanno mai voluto quel ponte. Herzl (padre fondatore del sionismo) immaginava lo Stato Ebraico in contrasto con la barbarie orientale. Lo stesso vale per Ben-Gurion e Netanyahu, che incarnano l’alienazione e il rifiuto di far parte della regione, nonché una mancanza di interesse per la coesistenza”, sottolinea.

“Nessuna nazione ha il ‘diritto all’esistenza’ secondo il Diritto Internazionale e Israele non fa eccezione. Il ‘diritto all’esistenza’ di Israele non è un diritto legale, ma uno slogan ideologico ed emotivamente carico”, riporta il quotidiano israeliano. “Dal 1967 Israele ha politicizzato e strumentalizzato l’espressione per ostacolare i colloqui di pace e diffamare come antisemiti coloro che si rifiutano di riconoscere il diritto”.

Nell’intervista pubblicata da Haaretz si legge: “La fondazione dello Stato di Israele era legata a una grande ingiustizia nei confronti dei palestinesi. I funzionari britannici ne erano amareggiati. Il 2 giugno 1948, un alto funzionario del ministero degli Esteri scrisse al ministro degli Esteri, Ernest Bevin, che gli americani erano responsabili della creazione di uno ‘Stato criminale’ guidato da un gruppo di autocrati totalmente senza scrupoli’. Una volta pensai che quelle parole fossero troppo dure. Ma a quanto pare ciò che inizia in modo disonesto, rimane disonesto”, conclude Avi Shlaim.

Sionismo: le due facce della stessa medaglia

Il sionismo, però, ha due volti: quello estremista di Trump e Netanyahu, e un altro più moderato che si nasconde dietro alla maschera della civiltà occidentale democratica e liberale.

Mentre i sionisti cattivi fanno “il lavoro sporco”, come ha dichiarato il primo ministro israeliano all’assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 26 settembre 2025, quelli buoni fingono di riconoscere uno Stato palestinese che non avrà mai di fatto il diritto all’autodeterminazione, smilitarizzato e guidato da un governo fantoccio stabilito dall’Occidente.

Con la scusa di Hamas e il pericolo che rappresenta per l’esistenza di uno Stato sionista in Medio Oriente, entrambi – sionisti estremisti e moderati – continuano a legittimare i propri interessi economici.

Mentre da una parte il governo di estrema destra israeliano mira ha eliminare il partito politico di resistenza palestinese, dall’altra la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e la Commissione europea hanno annunciato in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, la firma con l’Autorità monetaria palestinese (PMA) di una linea di credito da 400 milioni di euro volta a sostenere la ripresa economica e la resilienza del settore privato in Palestina.

Il progetto economico

Il finanziamento della BEI sarà veicolato attraverso banche partner e istituti di microfinanza locali che potranno offrire prestiti a condizioni favorevoli alle imprese ammissibili.

Con una concessione complessiva fino a 1,6 miliardi di euro per il periodo 2025-2027, il programma prevede 620 milioni di euro in sovvenzioni a sostegno dell’Autorità monetaria palestinese, 580 milioni di euro destinati a progetti concreti per promuovere la resilienza e favorire della ripresa in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (laddove le condizioni lo consentano), e la linea di credito della BEI da 400 milioni di euro, garantita dalla Commissione europea, a sostegno del settore privato palestinese.

“La stabilità economica e finanziaria della Palestina è una priorità per l’Unione europea e fa parte del nostro impegno per una pace duratura e sostenibile, fondata sulla soluzione a due Stati,” ha affermato la presidente del Gruppo BEI Nadia Calviño.

L’alternativa alla totale annessione territoriale sembra quindi perseguire gli stessi interessi coloniali nella regione, recuperando in questo modo il consenso della società civile.

Valentina Vergani Gavoni
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