Speciale per Africa ExPress Valentina Vergani Gavoni
22 ottobre 2025
Success to Significance, il successo imprenditoriale in Africa che si trasforma in un valore per il mondo intero, questo è il messaggio che Manu Chandaria – con la collaborazione dei giornalisti Kwendo Opanga e Charles Wachira – vuole trasmettere.
Nel libro di 327 pagine racconta la sua storia. Un imprenditore di origini indiane, nato a Nairobi, figlio di immigrati, che ha saputo trasformare le sfide della vita in una filosofia vincente. Pochi lo sanno, ma detiene praticamente il monopolio mondiale delle grucce appendi abiti. Le sue fabbrica ne producono ogni anno miliardi di pezzi.
Copertina del libro Success to Significance di Manu Chandaria
Chandaria, membro senior del Comcraft Group of Companies che opera in circa 40 Paesi (quattro in Italia) e del consiglio di amministrazione di diverse importanti società dell’Africa orientale, si definisce un “africano asiatico”. Un’espressione, questa, utilizzata per esprimere con orgoglio una doppia appartenenza culturale e affettiva.
Vuole essere un incoraggiamento per tutte le persone che, pur avendo origini diverse, si identificano pienamente con l’Africa dove sono nati, cresciuti o hanno vissuto gran parte della loro vita.
Non è solo una questione etnica, ma anche politica e sociale: questi cittadini si sentono parte integrante della società, della storia, dello sviluppo e del destino dell’Africa.
Manu Chandaria può essere considerato un esempio concreto e ispiratore per lo sviluppo nel continente sotto diversi punti di vista: economico, sociale, educativo e valoriale.
Ha costruito il suo successo in Africa, per l’Africa. Non ha semplicemente sfruttato risorse o manodopera a basso costo. Ha creato aziende locali, posti di lavoro stabili e filiere industriali autonome.
Ha promosso la produzione e la trasformazione delle realtà locali africane, riducendo la dipendenza dalle importazioni. E la sua esperienza dimostra che profitto e impatto sociale possono coesistere. Un capitalismo etico perché le sue aziende producono valore economico, ma reinvestono nella società attraverso filantropia e sviluppo comunitario.
Ha dimostrato infatti che un’impresa può essere sostenibile, etica e redditizia allo stesso tempo. Ma non solo, ha investito in educazione e capitale umano finanziando scuole, università e borse di studio. Un impegno il suo, fondato sulla convinzione che l’unico vero sviluppo a lungo termine deve assolutamente passare da istruzione e formazione.
Per lui, il vero patrimonio dell’Africa sono i suoi giovani che ha sempre sostenuto attivamente. Un ideale in contrasto con la corruzione e il nepotismo dilagante. E ha dato un volto credibile e umano alla figura dell’imprenditore africano, andando contro stereotipi negativi.
Come immigrato indiano naturalizzato kenyano, ha mostrato che l’integrazione culturale può generare valore, portando innovazione e dialogo interculturale contribuendo a costruire una società africana più inclusiva, multiculturale e cooperativa.
Il titolo del suo libro sintetizza quello che è un insegnamento da divulgare: non basta “avere successo” nel senso tradizionale (ricchezza, fama, potere), occorre anche trasformarlo in significato. Un contributo al bene comune.
Manu Chandaria e la sua famiglia hanno mostrato come un casato di immigrati possa radicarsi in un nuovo Paese e contribuire in modo significativo al suo sviluppo.
Dall’India, nei primi decenni del XX secolo, i suoi familiari arrivarono in Kenya quando era ancora sotto dominio coloniale britannico. E come molti indiani dell’epoca, iniziarono con piccole attività commerciali, vivendo in comunità spesso marginalizzate ma coese.
Con tanti sacrifici l’imprenditore ha costruito un impero industriale panafricano e insieme alla famiglia ha fondato e sviluppato la Comcraft Group, un conglomerato multinazionale e transnazionale. Questo ha creato migliaia di posti di lavoro in Africa, rafforzando l’industria locale in diversi Paesi.
Chandaria ha sempre puntato su investimenti a lungo termine, piuttosto che semplici speculazioni. La sua figura imprenditoriale si inserisce nell’economia africana come un esempio emblematico di capitalismo etico e inclusivo, in netto contrasto con modelli predatori o puramente speculativi. Il suo contributo va ben oltre la creazione di ricchezza personale: ha influenzato lo sviluppo industriale, la cultura imprenditoriale e il modello di impresa responsabile in Africa.
Special for Africa ExPress Valentina Vergani Gavoni
22 October 2025
Success to Significance, entrepreneurial success in Africa that becomes valuable for the whole world: this is the message that Manu Chandaria – with the collaboration of journalists Kwendo Opanga and Charles Wachira – wants to convey.
In his 327-page book, he tells his story. An entrepreneur of Indian origin, born in Nairobi, the son of immigrants, he has been able to transform life’s challenges into a winning philosophy. Few people know this, but he has a virtual global monopoly on clothes hangers. His factories produce billions of them every year.
Dual Cultural
Dr. Chandaria, a senior member of the Comcraft Group of Companies, which operates in around 40 countries (four companies are in Italy), and of the board of directors of several major companies in East Africa, describes himself as an “Asian African”. This expression is used to proudly express a dual cultural and emotional belonging.
Copertina del libro Success to Significance di Manu Chandaria
It is intended as encouragement for all those who, despite having different origins, identify fully with Africa, where they were born, grew up or have lived most of their lives.
It is not only an ethnic issue, but also a political and social one: these citizens feel an integral part of African society, history, development and destiny.
Concrete and inspiring example
Manu Chandaria can be considered a concrete and inspiring example for the continent’s development from various points of view: economic, social, educational and in terms of values.
He built his success in Africa, for Africa. He did not simply exploit resources or cheap labour. He created local companies, stable jobs and autonomous industrial supply chains.
Philanthropy and community development
He promoted the production and transformation of local African businesses, reducing dependence on imports. And his experience shows that profit and social impact can coexist. It is ethical capitalism because his companies produce economic value but reinvest in society through philanthropy and community development.
In fact, he has shown that a business can be sustainable, ethical and profitable at the same time. But that’s not all: he has invested in education and human capital by funding schools, universities and scholarships. His commitment is based on the belief that the only real long-term development must necessarily come through education and training.
For him, Africa’s true asset is its young people, whom he has always actively supported. This ideal contrasts with rampant corruption and nepotism. He has given a credible and human face to the figure of the African entrepreneur, countering negative stereotypes.
Indian naturalized as a Kenyan
As an Indian immigrant naturalised as a Kenyan citizen, he has shown that cultural integration can generate value, bringing innovation and intercultural dialogue and helping to build a more inclusive, multicultural and cooperative African society.
The title of his book summarises a lesson that needs to be shared: it is not enough to be “successful” in the traditional sense (wealth, fame, power); you also need to transform that success into meaning. A contribution to the common good.
Manu Chandaria and his family have shown how a family of immigrants can put down roots in a new country and make a significant contribution to its development.
In the early decades of the 20th century, his family arrived in Kenya from India, when it was still under British colonial rule. Like many Indians at the time, they started small businesses, living in communities that were often marginalised but close-knit.
Many sacrifices
Through many sacrifices, the entrepreneur built a pan-African industrial empire and, together with his family, founded and developed the Comcraft Group, a multinational and transnational conglomerate. This created thousands of jobs in Africa, strengthening local industry in several countries.
Pagine del libro Success to Significance di Manu Chandaria
Chandaria has always focused on long-term investments rather than simple speculation. His entrepreneurial figure fits into the African economy as an emblematic example of ethical and inclusive capitalism, in stark contrast to predatory or purely speculative models.
His contribution goes far beyond the creation of personal wealth: he has influenced industrial development, entrepreneurial culture and the model of responsible business in Africa.
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Speciale per Africa ExPress Valentina Vergani Gavoni
21 ottobre 2025
Lo storico corrispondente per l’Africa del Corriere della Sera, Massimo Alberizzi, oggi direttore dei quotidiani online Africa ExPress e Senza Bavaglio, ha ricevuto un importante riconoscimento alla carriera il 18 ottobre 2025, a Francavilla al Mare (Pescara).
“Sono onorato di aver ricevuto questo premio legato a Antonio Russo, giornalista che ha saputo interpretare il nostro mestiere in modo giusto, corretto ed esemplare.
Devo ringraziare il mio direttore, Piero Ottone, che mi ha assunto al Corriere e mi ha insegnato a fare il giornalista”, racconta Alberizzi.
“Grazie a lui ho imparato a distinguere le opinioni dai fatti e a ascoltare sempre le due campane. Non solo una”.
Un giornalismo onesto
Per il giornalista di guerra è fondamentale “raccontare la realtà con onestà intellettuale”, indispensabile per produrre vera informazione. Poi ringrazia anche i suoi familiari, perché il loro sostegno è stato essenziale per fare questo lavoro.
Massimo Alberizzi con l’auto che ha guidato il gruppo di reporter che ha passato le linee del fronte
Grazie agli ex direttori del Corriere della Sera, che gli hanno dato la possibilità di fare carriera come giornalista di guerra, Alberizzi ha messo in pratica questi insegnamenti.
Le guerre dimenticate
Ci sono guerre censurate, e conflitti che oggi vengono costantemente omessi dalla narrazione giornalistica. Ma non è sempre stato così. Quando i giornali erano ricchi e potevano permettersi di coprire le spese degli inviati sul campo, Massimo Alberizzi ha riportato le guerre più drammatiche del continente africano, diventando un punto di riferimento internazionale.
Articolo Premio “Antonio Russo” a Massimo Alberizzi
Durante la battaglia del pastificio a Mogadiscio, tra le truppe italiane e le milizie Munryan somale del generale Aidid, era in prima linea, a un centinaio di metri dai combattimenti.
In Liberia, Sierra Leone, Congo, Sudan passava da una parte all’altra del fronte. In Eritrea, Etiopia, ha attraversato il confine da clandestino e ha raggiunto i guerriglieri.
In Nigeria è andato nella base dei combattenti di MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) ed è riuscito a liberare due tecnici dell’ENI che erano stati sequestrati.
In Ciad è stato mitragliato dagli aerei di Gheddafi.
In Afghanistan hanno bombardato l’albergo dove alloggiava distruggendone una parte.
Il giornalismo non è eroismo
Alberizzi non si sente un eroe di guerra, e non vuole essere definito tale.
Ha fatto e continua a fare il suo lavoro senza se e senza ma.
Racconta quando è stato rapito nel dicembre del 2006 in Somalia, dalle Corti islamiche che hanno messo in scena una falsa esecuzione sulla pista dell’aeroporto di Mogadiscio. Si è salvato perché i capi lo conoscevano bene e sono intervenuti in suo favore.
Oggi Alberizzi è il direttore che riconosce il merito e il valore di chi, come lui, vuole fare questo lavoro.
Durante la presentazione è stato ricordato anche l’attentato contro il collega Sigfrido Ranucci, e l’importanza di un gruppo sindacale come Senza Bavaglio che lotta per la libertà di informazione.
Il lavoro di Africa ExPress
I giornalisti e le giornaliste di questo quotidiano riportano la realtà di un continente che sta pagando le conseguenze post-coloniali nel totale silenzio della comunità internazionale. La storia dei Paesi africani insegna. E ci aiuta a comprendere quello che accade nel presente e accadrà in futuro.
L’Africa è infatti una realtà geopolitica che funge da strumento per poter analizzare la situazione attuale in Medio Oriente, perché le modalità di sfruttamento coloniale del territorio sono le medesime.
Il colonialismo, nelle sue forme più diverse, viene applicato con le stesso metodo. Per questo motivo non dobbiamo credere che esistano conflitti più importanti di altri da raccontare.
Nell’est del Congo-K la pace è ancora lontana. Finora i dialoghi tra le parti in conflitto, promossi dall’amministrazione Trump e quelli in svolgimento a Doha con la mediazione del Qatar, tra il governo congolese e i ribelli M23/AFC non hanno ancora portato segnali tangibili sul campo.
Infatti, nonostante il presidente americano continui a vantarsi baldanzoso come un Miles gloriosus di aver concluso sette guerre, compreso quella in Congo, le ostilità, fatte di morti, saccheggi, stupri, dolori e disastri, continuano imperterrite!
Il gruppo armato M23 prende il nome da un accordo firmato il 23 marzo 2009 dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi. La formazione ha ripreso le ostilità nel primo trimestre del 2022 ed è sostenuta dal vicino Ruanda. Mentre AFC, che significa Alleanza del Fiume Congo, è una coalizione politico militare, fondata il 15 dicembre 2023 in Kenya e della quale fa parte anche M23.
A fine settembre, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU, il presidente congolese, Felix Tshisekedi, ha incontrato Massad Boulos, consigliere per l’Africa della Casa Bianca. Hanno discusso sul seguito dell’accordo di pace siglato lo scorso 27 giugno a Washington tra i rispettivi ministri degli Esteri di Kinshasa e Kigali.
Business first
I due interlocutori hanno anche parlato di affari, di una partnership strategica tra i due governi, volta a attirare il maggior numero possibile di investitori americani nella Repubblica Democratica del Congo.
E a questo proposito si è tenuto una settimana fa a Washington il primo Forum RDC-Stati Uniti. Il premier congolese, Judith Suminwa, ha partecipato all’evento dedicato agli investimenti, insieme a una folta delegazione. L’obiettivo era quello di convincere gli attori del settore privato americano, in particolare di quello minerario, a investire nel Paese.
Accordo cessate il fuoco
Martedì scorso i rappresentanti del governo di Kigali e esponenti di M23/AFC hanno trovato un accordo a Doha sul meccanismo da adottare per verificare il cessate il fuoco. Un primo passo, ritenuto importante, perché dovrebbe far tacere le armi e aprire la strada alle discussioni sulle cause profonde del conflitto.
In occasione di una parata militare a Goma, M23/AFC hanno fatto sfilare migliaia di nuove reclute, giovani costretti a arruolarsi dai ribelli che controllano il capoluogo del Nord-Kivu dall’inizio dell’anno. Secondo quanto riferito a Africa ExPress dai nostri stringer, tra i coscritti ci sarebbero anche minori di 18 anni. Arruolamenti forzati sono stati registrati anche a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu.
Anche ieri i ribelli hanno attaccato una postazione dei Wazalendo (loro stessi si definiscono come gruppo di autodifesa) nel territorio di Masisi nel Nord-Kivu, nell’est del Paese. Secondo alcune fonti locali gli M23 avrebbero aggredito i Wazalendo per cacciarli dall’aerea che controllano da diverse settimane. Al momento attuale non è chiaro chi abbia avuto la meglio negli scontri.
Qualche giorno fa, subito dopo l’accordo siglato a Doha, droni dell’esercito congolese hanno colpito la miniera di Twangiza, controllata dai ribelli dell’AFC/M23. Il sito aurifero si trova nel territorio di Mwenga, nel Sud Kivu. Per fortuna non si sono registrate vittime, soltanto danni materiali.
Terroristi ADF
Oltre ai ribelli M23/AFC, nel Nord Kivu sono sempre attivi anche i terroristi di ADF (Alliance Democratic Forces, un’organizzazione islamista ugandese, presente anche nel Congo-K dal 1995). La settimana scorsa hanno sgozzato 19 persone a Mukondo. La barbara incursione dei terroristi è stata confermata dal colonnello Alain Kiwewa, amministratore militare dell’area.
La zona, colpita ripetutamente negli ultimi mesi dai terroristi, si trova a nord delle aree controllate dagli M23/AFC. Il gruppo armato di origine ugandese è molto attivo anche nella provincia di Ituri. Dal 2021 l’Uganda è presente nel Congo-K con un contingente che combatte accanto alle truppe congolesi. L’operazione congiunta è denominata Shujaa.
Nella provincia di Ituri anche CODECO (acronimo per Cooperativa per lo sviluppo nel Congo, formato da combattenti di etnia Lendu) e altri gruppi armati continuano a seminare il terrore tra la popolazione civile.
Tra il 15 agosto e il 16 ottobre nei territori di Djugu e Irumu sono morte almeno 45 persone, 7 sono state ferite, mentre oltre 600 abitazioni sono state ridotte in cenere. Centinaia di famiglie hanno abbandonato tutti i loro poveri averi e sono fuggite verso luoghi più sicuri.
Insicurezza alimentare in Congo-K
E mentre l’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli record nel Congo-K, dove 28 milioni di persone necessitano di assistenza, il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ha dovuto ridurre drasticamente la sua attività per mancanza di fondi. Gli oltre 300.000 rifugiati, provenienti per lo più dal Centrafrica e Sud Sudan hanno ricevuto poco o niente nel 2025 e per l’anno prossimo l’assistenza potrebbe essere interrotta completamente.
Insicurezza alimentare
Nella parte orientale del Congo-K, 2,3 milioni di persone si trovano in situazione di grave emergenza, ma attualmente solo 600mila ricevono aiuti alimentari. Si prevedono ulteriori riduzioni qualora PAM non riesca a trovare nuovi finanziamenti.
Denis Mukwege, medico congolese insignito del premio Nobel per la Pace 2018, durante la conferenza a Cagliari l’11 ottobre scorso (Fotocredit: Archivio Aladinopensiero)
Malgrado il terribile conflitto in atto, il Congo-K è sparito dalle prime pagine dei media internazionali. Lo ha confermato anche Denis Mukwege, medico congolese insignito del Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2014 e del Premio Nobel per la Pace nel 2018, durante la sua conferenza al seminario arcivescovile a Cagliari in collaborazione con la Caritas.
Stupri come arma da guerra
Il medico, specializzato in ginecologia e ostetricia, nel 1998 ha fondato l’Hopital de Panzi, a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, dove cura e assiste donne, ragazze e – è terribile dirlo, ma è ancora peggio scriverlo – anche bambine, vittime di violenza sessuale, di stupri. Aggressioni terrificanti, utilizzate come arma da guerra nel suo Paese, ma anche in altri teatri di conflitto.
A fine settembre è uscito in Francia il film “Muganga, The One Who Treats” (Muganga, Colui che cura, ndr), ispirato alla vita e alla storia del famoso medico congolese. Angelina Jolie, attrice e attivista per i diritti umani, ha aderito al progetto del lungometraggio come produttrice.
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Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 18 ottobre 2025
Il settimanale americano Newsweek riporta che nel mese di settembre i jihadisti di IS-Moz hanno decapitato 30 cristiani. La strage, ripresa anche dai media italiani, è avvenuta nelle province di Cabo Delgado e Nampula, nel nord del Mozambico.
La fonte della notizia è Middle East Media Research Institute (MEMRI) che ha pubblicato la rivendicazione dei terroristi della Provincia dello Stato Islamico in Mozambico (ISMP o IS-Moz).
L’articolo contiene anche una ventina di immagini atroci. Si vedono i momenti che precedono le decapitazioni, uccisioni a sangue freddo, incendi di chiese cristiane e villaggi nel nord del Paese.
Propaganda ISMP
Africa Express ha eseguito una ricerca approfondita sulle fonti certe: Agenzie ONU, media mozambicani, ACLED,organizzazioni per i diritti umani. Risultano sei decapitazioni. Sempre troppe ma senza conferma delle altre 24. È quindi probabile che i numeri elencati da ISMP siano parte della propaganda jihadista.
I tagliagole sono tornati
Secondo ACLED, ONG che monitora le guerre, in un attacco del 22 settembre a Mocímboa da Praia, sono stati uccisi cinque civili, quattro decapitati.
L’agenzia di stato AIM e il quitidiano Club of Mozambique riportano attacchi jihadisti nei distretti di Montepuez e Balama nel fine settimana del 29 settembre. I militanti islamisti hanno attaccato cinque villaggi e ucciso almeno sette persone, alcuni di questi pure decapitati.
Ma nel comunicato dell’ISMP riportato dal Middle East Media Research Institute si legge altro. “Nella provincia di Nampula, durante un raid nel villaggio di Nakioto, abbiamo incendiato una chiesa e più di 100 case di cristiani”. Anche le “100 case” non hanno riscontri e sembrano propaganda.
Attenzione! Nel video ci sono immagini shock
Nel 2025 altri centomila sfollati
L’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) denuncia una situazione allarmante. In una sola settimana, gli attacchi alla popolazione indifesa hanno causato altri 22.000 sfollati.
Dall’inizio dell’anno i profughi a causa della guerra sono oltre 100.000. Le truppe ruandesi (RDF) ancora presenti a Cabo Delgado insieme alle Forze armate mozambicane (FADM) stanno faticosamente arginando gli attacchi.
ACLED riporta che “un centinaio di combattenti dell’ISMP sono presenti dalla fine di agosto nel distretto di Montepuez, area del giacimento di rubini. I jihadisti hanno concentrato le attività nelle zone di estrazione aurifera a ovest di Nairoto, con incursioni nel distretto di Balama”.
Sei milioni sospetti
A settembre l’Ufficio informazioni finanziarie del Mozambico (GIFim) ha pubblicato un rapporto esplosivo. L’indagine ha analizzato le reti di finanziamento del terrorismo dal 2017 al 2024.
Dalle analisi dei dati bancari risultano 3.500 operazioni sospette. Sono depositi e prelievi, in contanti o tramite bonifici che sommati, alimentano un enorme flusso finanziario. In totale oltre sei milioni di euro.
I bonifici illeciti sono stati eseguiti in sei delle 10 province del Mozambico, la maggioranza di questi attuati a Cabo Delgado. Le altre province sono: Zambezia, Nampula, Sofala, Manica e anche quella della capitale, Maputo.
I responsabili delle transazioni sono piccoli commercianti, funzionari pubblici ma anche associazioni senza scopo di lucro e privati cittadini. Appare quindi evidente che nella minoranza islamica del Paese esiste una rete di fiancheggiatori di IS-Moz.
Cabo Delgado dista 2.500 km dalla capitale ma da 50 anni è abbandonato dal potere centrale di Maputo. Succede nonostante le ricchezze della Provincia, soprattutto rubini, oro e vasti giacimenti di gas naturale.
Queste ricchezze avrebbero dovuto portare un po’ di benessere alla popolazione ma le promesse del governo Frelimo – al potere dal 1975 – finora sono state disattese.
Mappa degli scontri e degli attacchi jihadisti a Cabo Delgado dal 15 al 28 settembre 2025 (Courtesy ACLED)
Situazione di Cabo Delgado
Uno studio, “Leaving No One Behind” (Non lasciamo nessuno indietro), condotto tra dicembre 2022 e gennaio 2024 da UNDP Mozambico, ministero delle Finanze e ministero dello Sviluppo, parla chiaro.
A Cabo Delgado il livello di analfabetismo dei 2,8 milioni di abitanti è al 61 per cento. Oltre la metà dei bambini e adolescenti tra 5 e 17 anni non vanno a scuola e il rapporto alunni-insegnanti è 60:1.
Il 76 per cento della popolazione vive nelle aree rurali e l’insicurezza alimentare è grave: i bambini cronicamente malnutriti sono il 45 per cento e il 2,7 soffre di malnutrizione acuta grave.
Le donne e le bambine devono fare chilometri per raggiungere l’acqua potabile: solo il 9,8 per cento delle famiglie vive entro 30 minuti da una fonte d’acqua sicura.
I proventi dei “tesori” del sottosuolo di Cabo Delgado non vengono distribuiti alla popolazione locale che vive con meno di un dollaro al giorno. Inoltre, terrorismo, covid-19 ed eventi climatici estremi hanno portato una pesante recessione e aumentato la disoccupazione. Dall’11,5 per cento del 2019/20, nel 2021/22 è arrivata al 15,9.
Una situazione alla quale si aggiunge la corruzione e gli abusi dei militari mozambicani contro i civili che hanno ulteriormente alimentato rabbia e odio verso il potere centrale. Terreno fertile per IS-Moz che sta mettendo a ferro e fuoco il nord del Paese.
Intanto, dopo otto anni di guerra, secondo ACLED, IS-Moz ha fatto 2.050 attacchi; risultano oltre 6.272 morti (2.641 civili) mentre le agenzie ONU parlano di 1,1 milioni di profughi.
Speciale Per Africa ExPress Alessandra Fava
Genova, 15 ottobre 2025
Spese faraoniche per vitto e alloggio, intrallazzi su affari miliardari con tutti i capi di Stato che incontrava per trovare fondi per la Palestina, rapporti opachi con banche d’affari per le quali lavorava come Senior Advisor nello stesso tempo, zero impegno per un accordo di pace tra palestinesi e israeliani: non sembrano i requisiti giusti per riproporre un politico a capo del progetto di ricostruzione di Gaza e invece è proprio quello che succede con Tony Blair, candidato dal presidente Usa Donald Trump e in affari col genero di Trump Jared Kushner.
Curiosamente però mentre molti citano l’appoggio che Blair diede alla guerra irachena e alla divulgazione delle false prove sulle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein (rapporto dei servizi segreti M16), nella stampa italiana ed anche estera si ricordano poco gli otto anni che passò in Medio Oriente come inviato di pace del Quartetto dal giugno 2007 al maggio 2015, subito dopo il suo mandato come premier britannico.
A ripercorrere cronache e inchieste, furono anni spesi a occuparsi molto dei suoi business miliardari, poco dello sviluppo della Palestina, se non per la solita pioggia di soldi su Ramallah, e ancora meno di una pace tra Israele e Palestina perché come ebbe a dire “la sicurezza di Israele è al primo posto e ne va anche della stabilità della Ue e del mondo intero”.
E quindi non sembrò certo il caso di esporsi coinvolgendo Hamas che intanto aveva preso il potere a Gaza, anzi secondo il pensiero israelo-americano era molto meglio fomentare la divisione tra Fatahstan nella West Bank e Hamastan a Gaza. Divide et impera.
Africa ExPress ha intervistato sull’argomento Graham Watson, europarlamentare britannico dal 1994 al 2014, presidente del gruppo Alde (Alleanza dei Liberali e dei Democratici Europei) nel Parlamento UE dal 2011 al 2015 e oggi professore aggiunto alla Munk School of Global Affairs and Public Policy dell’Università di Toronto.
Mr. Watson che cosa pensa dell’idea di dare ora un mandato a Blair sulla ricostruzione di Gaza?
“Non credo che sia la scelta giusta in questo momento, specie per la credibilità di Blair. Ho il sospetto che anche in Gran Bretagna non la prendano troppo bene”.
Il suo mandato come inviato del Quartetto fu puntellato di scandali: spese eccessive per gli alberghi e auto blindate a carico delle Nazioni Unite, spese faraoniche per la sua sicurezza a carico del Regno Unito, ma sopratutto i rapporti di lavoro con la banca d’affari americana JP Morgan con la quale ebbe un contratto di senior advisor. Che cosa ricorda di quel periodo?
“Penso che la sua nomina da parte del Quartetto sia stata la sua rivincita per aver supportato Bush in momenti difficili. Per il resto, ricordo che quando ero al Parlamento europeo uscivano voci sui suoi rapporti d’affari con Gheddafi. All’inizio pensavo che fossero attacchi personali, volti a screditarlo. Sembrava tutto irreale. Poi col passare del tempo sono uscite le prove del suo coinvolgimento. Ne usciva fuori un politico non all’altezza del ruolo che gli aveva affidato il Quartetto”.
Sullo scandalo relativo a una compagnia telefonica installata in Palestina ma posseduta da una società del Qatar, cliente di JP Morgan, Blair disse di non essere al corrente che la società fosse cliente della banca e anche JP Morgan disse che Blair non era coinvolto nell’affare. Un’altra pagina opaca di quel mandato…
“Tony Blair è un uomo intelligente. Penso che sia molto difficile che sia stato coinvolto senza esserne a conoscenza. Piuttosto la cosa più sorprendente è che abbia stretto rapporti di forte amicizia con George W. Bush e ora con Trump, mentre in Gran Bretagna era un politico di centro-sinistra, non di centro-destra. Se Blair avesse relazioni con Clinton o con Biden, lo avrei capito di più. Ma il fatto che si apparenti all’altro lato politico è molto strano. La sua scelta di amici dal punto di vista politico negli Usa è altrettanto molto strana. E poi, anche se non sono necessariamente d’accordo con tutte le scelte che fece, come primo ministro britannico fu molto apprezzato. Avrebbe potuto ritirarsi dalla vita pubblica come fanno molti. Quindi tanto meno capisco perché ora abbia bisogno di farsi coinvolgere in una vicenda come quella di Gaza”.
Un pessimo precedente è anche il mancato impegno su una vera pace. Nominato dal Quartetto andò a Gaza in mano ormai ad Hamas che aveva vinto le elezioni e defraudato l’Autorità dalla Striscia, evitò di parlare con Hamas. Quindi il suo mandato durato così tanti anni non sortì alcun effetto sulla pace, anzi si consolidò Hamas a Gaza e continuarono a crescere le colonie nella West Bank. L’Irlanda del Nord non gli aveva insegnato niente?
“L’irlanda del Nord ci ha insegnato – ed è stato uno dei successi di Blair – che devi coinvolgere le parti. Blair è riuscito a tirare le fila di un percorso di pace iniziato prima, ma sicuramente portò il processo a compimento e fu un grande successo anche personale. sul Medio Oriente la mia domanda è: se sei assunto come inviato di pace, allora devi parlare con tutte le parti, perchè non hai mai incontrato Hamas? Non sarà mai possibile pensare di fare una pace senza Hamas. Mi pare che in Medio Oriente Blair non sia arrivato con le stesse intenzioni che aveva nella questione irlandese e tanto meno ci abbia messo lo stesso impegno”.
La storia del mandato di Tony Blair da parte del Quartetto Onu, Usa, Ue e Russia (nato nel 2002 a Madrid in riferimento alla conferenza di Madrid del 1991 sul Medio Oriente) parte dal suo predecessore, James Wolfenshon, ex presidente della Banca Mondiale, nominato nell’aprile 2005. Inviato da Condoleeza Rice segretario di stato Usa, Wolfenshon arriva ia Gerusalemme con le migliori intenzioni: libertà di circolazione, riapertura dell’aeroporto e costruzione di un porto a Gaza. Resta in carica solo 11 mesi e si dimette dopo aver capito che non poteva fare molto. Israele costruisce un muro intorno a Gaza, restringe la pesca entro le 9 miglia e chiude la zona industriale di Erez. Finito il mandato, Wolfenshon dice ad Haaretz “il problema principale è che non avevo l’autortà per fare niente. Il Quartetto aveva il potere e dentro il quartetto gli americani avevano il potere. Temo che per il Dipartimento di Stato americano ero solo una scocciatura”.
Il ruolo rimane dunque vacante fino al giorno delle dimissioni da premier di Tony Blair, immediatamente assunto il giorno dopo come inviato di pace in Medio Oriente per il Quartetto, protetto dall’amicizia con due presidenti Usa. E’ il 27 giugno 2007. Resterà in carica fino al 27 maggio 2015. Blair viene immediatamente celebrato come amico di Israele e nel 2009, sempre durante il mandato, prende un premio da 1 milione di dollari, il Dan David Prize a Tel Aviv. Di fatto per Gaza non fa niente, per la Cisgiordania poco e tollera l’espansione delle colonie nella West Bank.
Tony Blair con il premier israeliano Benjamin Netanyahu
Secondo lui, la rinascita della Palestina doveva avvenire su basi economiche e non politiche e quindi progetta sei zone industriali (mai realizzate) e fa arrivare una pioggia di fondi che arricchisce sopratutto Ramallah. Un collaboratore di Abbas disse che “Blair parlava come un diplomatico israliano, vendeva il loro punto di vista. A noi non serviva a niente”.
Intanto a Gaza è in corso una nuova offensiva da parte dello Stato di Israele, tra dicembre 2008 e gennaio 2009, e dopo i bombardamenti il tasso di disoccupazione sale a due terzi della popolazione attiva. Ma Blair dice che la “sicurezza di Israele non è negoziabile” e “ne va anche del nostro interesse strategico quello della Gran Bretagna, dell’Occidente e del mondo”. (Journal of Palestinian Studies XLII n. 2 pag 56). A gennaio 2009 sale Obama e nell’estate 2014 c’è un nuovo attacco israeliano su Gaza che dura 50 giorni.
Quel che fece più scandalo, oltre alla carenza di impegno in un progresso di pace, furono le spese faraoniche del suo mandato. Blair andava a Gerusalemme dal lunedì al giovedì, una volta al mese e per il suo incarico dal 2007 vennero affittate 10 stanze al Colony Hotel di Gerusalemme per il costo di 1,3 milioni di dollari l’anno pagati da UNDP, un’agenzia dell’Onu (a carico del programma PAL 10-57773, in UNDP’s “Program of Assistance to the Palestinian People.” https://www.innercitypress.com/blairsundplair103107.html Alcune auto blindate furono pagate 400 mila dollari. La sua sicurezza era a carico della Gran Bretagna.
Ma quello che fece più rumore furono le sue consulenze private su cui indagarono Financial Times, Daily Mail e altre testate: i rapporti opachi con JP Morgan la banca d’affari americana, con cui, mentre era inviato di pace per il Quartetto, fu preso come ‘Senior Advisor” e procacciatore di affari, pagato 4 milioni di dollari l’anno.
Un’inchiesta del giugno 2012 del Financial Times calcolava entrate di Blair per 20 milioni di dollari l’anno grazie ad accordi stretti con vari capi di stato sfruttando proprio l’incarico del Quartetto. A febbraio 2009 aveva creato Tony Blair Associates con 150 dipendenti per fornire “strategic advice [on] political and economic trends and government reform”. Ebbe rapporti d’affari con Gheddafi che voleva coinvolgere in una fabbrica di alluminio russa, fece affari con l’emiro del Kuwait per il petrolio (la sua consulenza valeva 2,7 milioni di dollari secondo una ong); fece affari con Abu Dabi sul petrolio libico e anche col Kazakistan https://www.theguardian.com/world/2013/jun/30/tony-blair-pave-way-kazakhstan .
Riuscì anche a dare copertura telefonica in Cisgiordania con i ponti della compagnia Wataniya che però risultò essere posseduta dalla qatarina Q-Tel, grande cliente di JP Morgan che guadagnò parecchio sul nuovo traffico telefonico. Come primo ministro britannico nel 2003 aveva coinvolto il British Gas Group nelle ricerche del gas nelle acque di Gaza insieme al governo israeliano e ripropose quel progetto durante il suo mandato per il Quartetto. JP Morgan ha negato ogni coinvolgimento nel progetto gas anche se British Gas Group è un altro dei suoi clienti. E Blair ha detto che non sapeva che JP fosse in contatto con British Gas Group e la compagnia telefonica.
E con l’enorme giacimento di gas naturale davanti a Gaza, forse troviamo il motivo per cui viene così caldeggiato il nuovo mandato di Blair in Medio Oriente. Follow the money. Ma anche il potere dei più forti.
Fra poche ore il colonnello Michaël Randrianirina presterà giuramento come presidente del Madagascar.
Randrianirina lo ha annunciato ieri con un comunicato, firmato di suo pugno e trasmesso dalla TV di Stato.
I militari e la protesta
Il neoleader dell’Isola Stato è un oppositore di lunga data di Andry Rajoelina. Il colonnello è riuscito a far sollevare dall’incarico il 51enne capo dello Stato dopo l’ammutinamento di gran parte dell’esercito che si è unito alle proteste dei giovani di GEN Z.
Protesta di GEN Z in Madagascar
Randrianirina è nato 51 anni fa a Sevohipoty nella regione di Androy, nell’estremo sud dell’Isola, ma la sua data di nascita esatta resta sconosciuta, come spesso succede in molte parti del continente.
Va ricordato che in passato l’attuale nemico di Rajoelina è stato però dalla sua parte. Tant’è vero che nel 2009, dopo un colpo di Stato militare, le truppe dell’unità d’élite CAPSAT (corpo dell’esercito del personale e dei servizi amministrativi e tecnici) di cui il colonnello fa parte, hanno aiutato l’ormai ex capo di Stato a prendere il potere. Allora ha occupato questa posizione dal 2009 al 2014. E’ sato poi eletto democraticamente nel 2018 e nel 2023 per un secondo mandato.
Rajoelina destituito
E due giorni fa, i deputati dell’Assemblea Nazionale (sciolta ufficialmente qualche ora prima dal presidente già non più presente in Madagascar), hanno destituito Rajeolina dall’incarico con 130 voti a favore, uno solo ha dato parere contrario. L’ex presidente era scappato con un aereo militare francese domenica pomeriggio.
Il colonnello ha negato fermamente che si è trattato di un golpe: “E’ stata un’assunzione di responsabilità perché il Paese era sull’orlo del baratro”. Un comitato composto da ufficiali dell’esercito, della gendarmeria e della polizia dovrà poi supervisionare le riforma delle istituzioni.
UA sospende Madagascar
Ma per l’Unione Africana si tratta di un vero e proprio colpo di Stato e mercoledì ha preso immediatamente posizione, sospendendo il Madagascar e le sue istituzioni da qualsiasi attività con effetto immediato. La Grande Isola è in buona compagnia, visto che alte nazioni del continente sono a tutt’oggi bloccate dopo putsch militari.
Il Consiglio di Pace e di Sicurezza dell’UA ha chiesto ai militari di non interferire nella politica. In caso contrario potrebbero essere prese sanzioni contro le persone coinvolte nel putsch. L’Unione Africana ha inoltre sollecitato il ritorno all’ordine costituzionale, attraverso un governo civile di transizione e l’organizzazione di elezioni nel più breve tempo possibile.
ONU allineata con UA
Anche il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, tramite il suo portavoce, Stéphane Dujarric, ha fermamente condannato il golpe nell’Isola Stato, chiedendo l’immediato ritorno dell’ordine costituzionale.
Le Nazioni Unite incoraggiano tutti gli attori malgasci, compresi i giovani, a unire i loro sforzi per affrontare le cause profonde dell’instabilità che ha colpito il Paese. L’ONU ribadisce la sua totale disponibilità a accompagnare il Madagascar in questo processo.
Paesi come Francia, Germania, Russia e altri sono preoccupati per il cambio di regime in Madagascar. La portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, si è espressa in questi termini: “Seguiamo con preoccupazione l’evoluzione della situazione nell’Isola Stato, ma riteniamo si tratti di una questione interna del Paese”. Affermazioni ovviamente volte ad allontanare i sospetti di ingerenza nella Grande Isola.
Influencer AES
Eppure influencer della sfera AES (Alleanza degli Stati del Sahel: Burkina Faso, Mali Niger, governati da golpisti e vicini alla Russia) si stanno dando un gran da fare sui social network. Sono infatti sostenitori di AES e alcuni vorrebbero che il colonnello Randrianirina si alleasse con gli altri putschisti.
Intanto le intenzioni dei militari in Madagascar non sono ancora chiare: non si sa per quanto tempo intendono rimanere al potere, cosa vogliono fare e in quale misura condivideranno il potere con i civili.
Aiuti internazionali
Ora bisogna attendere se gli aiuti internazionali, assolutamente necessari al Paese, subiranno delle modifiche. I finanziatori non necessariamente ridurranno le somme stanziate. Tuttavia dovranno assicurarsi che le condizioni e l’utilizzo del denaro vengano rispettati secondo gli accordi. Verifiche in tal senso potrebbero però causare dei ritardi nell’erogazione del denaro.
Il Fondo Monetario Internazionale aveva appena erogato 107 milioni di dollari e imposto un piano di risanamento della JIRAMA, la compagnia malgascia di acqua ed elettricità, in gran parte responsabile della rabbia della GEN Z.
Il Madagascar è tra i Paesi più poveri al mondo
L’Isola Stato è tra i Paesi più poveri al mondo e l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
Speciale per Africa ExPress
Luisa Espanet
15 ottobre 2025
Il 18 ottobre a Palazzo Sirena a Francavilla al Mare, in Abruzzo pochi chilometri da Pescara, si terrà la 12° edizione del Premio Nazionale “Antonio Russo” sul reportage di guerra.
Un giornalismo quello del reportage di guerra che si preferirebbe non esistesse più. Ma è anche vero, come ha detto la sindaca Luisa Russo, cugina di Antonio, reporter di Radio Radicale, ucciso nel 2000 in Georgia mentre seguiva gli sviluppi del conflitto in Cecenia, che “il lavoro dei giornalisti rappresenta una missione essenziale per la nostra società…in molte zone del mondo documentare la verità è diventato un atto di coraggio estremo”.
Per cui, come ha ribadito l’assessora alla Cultura Cristina Rapino, il Premio Russo oltre a rappresentare un riconoscimento al coraggio dei giornalisti di guerra è “un importante momento di riflessione culturale e civile….in un periodo storico in cui la guerra sembra tornare protagonista delle cronache, iniziative come questa diventano strumenti preziosi di memoria e di impegno collettivo”.
La cerimonia, presentata dal giornalista Luca Telese, si aprirà con il Corso di formazione per giornalisti dove reporter di guerra racconteranno le loro esperienze.
Massimo Alberizzi e il premio Nobel per la pace Ellen Johnson Sirleaf nel momento in cui ha appreso di essere stata eletta per la prima volta presidente della Liberia. (foto Nakano Tomoaki)
Seguirà la presentazione del libro del giornalista Jacopo Ottega, a venticinque anni dalla sua scomparsa. Quindi ci sarà la premiazione dei giornalisti di guerra selezionati da una giuria di giornalisti.
I premiati sono per la televisione, il reporter freelance Daniele Piervincenzi, per la carta stampata, Ugo Tramballi editorialista di Il sole 24 ore e consigliere scientifico ISPI, per la fotografia, Lorenzo Tugnoli fotoreporter del Washington Post. Premio alla memoria al giornalismo scomparso Giuseppe Zaccaria.
Massimo Alberizzi con l’auto che ha guidato il gruppo di reporter che ha passato le linee del fronte
Premio alla carriera a Massimo Alberizzi, attuale direttore di Africa ExPress con un lungo passato di reporter di guerra, soprattutto dall’Africa, per il Corriere della Sera.
A conclusione il recital teatrale Buonanotte bambini miei del direttore artistico Davide Cavuti e un ricordo di Antonio Russo di chi l’ha conosciuto.
Il leader dell’opposizione keniota Raila Odinga è morto all’età di 80 anni. Secondo quanto riferito mercoledì dalla polizia locale, si trovava nel sud India nel Kerala per controlli medici. La sua salma è ora nella clinica privata Ayurvedic. Sul Kenya si è abbattuto un vero e proprio terremoto politico che potrebbe trasformare la politica della nazione.
Personaggio di spicco
Odinga era una figura di spicco dell’opposizione del Paese, candidato senza successo alla presidenza in cinque occasioni, l’ultima delle quali nel 2022. E’ stato primo ministro dal 2008 al 2013, sotto la presidenza di Mwai Kibaki.
Raila Odinga e Massimo Alberizzi, direttore di Africa ExPress
Ma è sempre rimasto una forza dominante, in grado di mobilitare grandi masse, in particolare nella sua regione natale, il Kenya occidentale.
La polizia indiana ha riferito all’AFP che stava passeggiando con sua sorella, sua figlia e un medico personale “quando è improvvisamente collassato”.
“Due agenti della polizia, un indiano e un keniota, erano con loro in quel momento. È stato trasportato d’urgenza in un ospedale privato vicino, dove è stata dichiarata la sua morte”, ha fatto sapere una fonte delle forze di sicurezza del Paese asiatico.
La morte di Odinga è stata confermata ai reporter della France Presse anche da un membro del suo team, che ha chiesto di rimanere anonimo in attesa di un annuncio ufficiale da parte del raggruppamento politico.
Primi anni in prigione o in esilio
Nato il 7 gennaio 1945, Odinga ha trascorso i suoi primi anni in politica in carcere o in esilio, lottando per la democrazia durante il regime autocratico del presidente Daniel Arap Moi.
Membro della tribù Luo, è entrato in parlamento nel 1992 e si è candidato senza successo alla presidenza nel 1997, 2007, 2013, 2017 e 2022, sostenendo di essere stato privato della vittoria nelle ultime quattro elezioni a causa dei brogli.
Si è sempre presentato come un provocatore anti-establishment nonostante appartenesse a una delle principali dinastie politiche del Kenya: suo padre è stato il primo vicepresidente del Paese dopo l’indipendenza nel 1963.
Vuoto politico
La sua morte lascia un vuoto all’interno dell’opposizione, e non è affatto chiaro se qualcuno avrà la stessa capacità di mobilitare le forze dell’opposizione mentre il Paese si avvia verso un periodo elettorale potenzialmente instabile, in vista delle elezioni del 2027.
L’ex presidente della Corte Suprema del Kenya e attuale candidato alla presidenza, David Maraga, si è detto “scioccato” dalla notizia della sua morte.
Odinga era “un patriota, un panafricanista, un democratico e un leader che ha dato un contributo significativo alla democrazia in Kenya e in Africa”, ha scritto Maraga su X.
“Il nostro Paese ha perso uno dei suoi leader più formidabili, che ha plasmato la traiettoria del nostro amato Paese. All’intero continente mancherà la sua voce di spicco nella promozione della pace, della sicurezza e dello sviluppo. Il mondo ha perso un grande leader”, ha aggiunto Maraga.
Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
14 ottobre 2025
Volava sulla terra leggero per afferrare il record mondiale della maratona. Ha accarezzato il sogno per almeno 35 km di superare le 2h00’35”. Andava a tutta velocità incontro al sole del primato che a 24 anni, alla sua seconda maratona, lo avrebbe lanciato nel firmamento dell’Atletica.
Gran parte dei 42,195 km li aveva corsi a un ritmo sensazionale, addirittura sotto il tempo che voleva battere.
Dominatore della gara
Invece a 7 km dal traguardo, “presto cadde il sole e il cielo perse tutta la sua luce”, se è consentito ricorrere ai versi di una canzone celebre degli anni ‘70.
Jakob Kiplimo, ugandese, pur dominatore incontrastato della 47a edizione della maratona monumento di Chicago, (54 mila iscritti) domenica 12 ottobre, è entrato in crisi, ha dovuto rallentare e rinunciare a un impresa che avrebbe fatto epoca. E si è dovuto accontentare (si fa per dire) di 2h 02’23” e di 100 mila dollari di premio. È giunto al traguardo esausto a tal punto che varcata la soglia finale si è accasciato…
In ogni caso il giovane ugandese ha di che essere soddisfatto, come ha onestamente riconosciuto all’arrivo: “Non sapevo che stessi correndo dentro il record del mondo. Io pensavo solo a fare del mio meglio. E sono molto felice di quello che ho fatto”.
Distacco kenyani
Ha piegato i kenyani, rivali di sempre, dando un minuto e mezzo di distacco ad Amos Kipruto, 33 anni, secondo classificato (terzo l’anno a scorso, primo a Londra nel 2022) e due minuti al terzo, Alex Chesiro Masai, 28 anni, pure lui proveniente da Nairobi (ma residente negli States, dove si è laureato in Criminologia).
Senza trascurare il fatto che il giovane Jakob ha polverizzato il suo limite precedente (2h03’37”) ed è diventato il quinto maratoneta della storia.
Originario del gruppo etnico sebei, cresciuto nel distretto Kween sul Monte Elgon in una famiglia di agricoltori, ha lasciato capire che nella città dell’Illinois tornerà per ottenere quel primato sfuggitogli per un pelo nella seconda maratona della sua carriera.
Il distretto Kween fino a pochi anni fa era una delle aree meno conosciute e frequentate dell’Uganda. Grazie, però, alla fama dei suoi campioni , è diventato un punto fermo nella carta geografica. Nel cuore di Kween, il villaggio di Mosopisiek ospita famosi runner con i quali anche i turisti possono familiarizzare.
Esordio a Londra
L’esordio nella gara regina del fondo per Kiplimo era stato il 27 aprile scorso a Londra. E che debutto: Secondo posto! Aveva cominciato a gareggiare, in altitudine (il Monte Elgon è un vulcano spento tra Kenya e Uganda di 4321 metri) a soli 15 anni, ispirato dai fratelli maggiori, e allenato, come altri atleti africani, dalla corsa per raggiungere la scuola: ogni giorno 10 kilometri, tra andata e ritorno.
Primo posto all’etiope Hawi Feysa Gejia alla maratona di Chicago
Invece la vincitrice della maratona femminile di Chicago, Hawi Feysa Gejia, 26 anni, è stata un’eccezione, come ha raccontato al sito Athletics.Africans.com: “La mia scuola era solo a un chilometro da casa, ma io correvo assieme ad altri ragazzi, anche più grandi di me, in un circuito di Ambo. Non avevamo certo un allenatore, ma di tanto in tanto ci infilavamo in qualche gara organizzata localmente e questo ci serviva per addestrarci”.
Trionfo per giovane dell’Oromia
Ambo è una città di circa 90 mila abitanti dell ‘Etiopia centro occidentale , nella regione Oromia, a 100 km da Addis Abeba, dove Hawi Feysa è nata e dove vive la sua numerosa famiglia (ha 5 sorelle e 2 fratelli) che alleva mucche e cavalli.
Da questa zona provengono illustri fondisti e mezzofondisti, quali la tre volte olimpionica Tirunesh Dibaba (oggi quarantenne) e il super runner Kenenisa Bekele, 43 anni, (5 mondiali e 3 ori olimpici).
“Erano i miei idoli – ha ricordato Feysa – avevo 10 anni quando Tirunesh partecipava ai Mondiali e alle Olimpiadi. Le sue medaglie d’oro mi segnarono profondamente e presi la decisione: dovevo cominciare a correre”.
E i risultati si vedono. Ai recenti Mondiali di Giappone si era piazzata terza, domenica scorsa a Chicago, Feysa è tornata ad essere la prima etiope a riconquistare la vittoria, con un tempo ( 2h14’56”) che non tutti i maratoneti maschi riescono a fare, segnando la sesta prestazione all- time ed entrando nel novero delle cinque più veloci di sempre.
Dietro di lei il vuoto
Dietro di lei, praticamente il vuoto: la connazionale Megertu Alemu, classe 1997, è arrivata seconda con 2’22” di ritardo e la tanzaniana Magdalena Crispin Shauri, 29 anni, quasi 4 minuti dopo.
Queste due erano date come favorite. Alemu si era classificata a Londra in seconda posizione nel 2022 e terza nel 2023.
La Shauri era giunta terza a Berlino nel 2023 quando Tigs Assefa aveva battuto il record mondiale.
Ma a Chicago, se il titolo di principe di Chicago spetta al fenomeno ugandese Jakob Kiplimo, quello di regina della maratona è andato a lei. Con i suoi 100 mila dollari di premio deve continuare ad aiutare la famiglia, magari acquistando altre mucche e cavalli.
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