18.9 C
Nairobi
domenica, Dicembre 14, 2025

Congo-K, si firma la pace ma continua la guerra

Africa ExPress 14 dicembre 2025 Solo poco più di...

Due serate della cucina italiana a Mogadiscio

Africa ExPress Mogadisco, 11 dicembre 2025 Visto il successo...

Ma l’America è sempre antinazista e antifascista?

Speciale per Africa ExPress Giovanni La Torre 11 dicembre...
Home Blog Page 31

Goma: caccia ai mercenari rumeni arruolati dal governo congolese

Africa ExPress
Goma, 28 gennaio 2025

Nella ricca città mineraria congolese di Goma, catturata dai ribelli dell’M23 e dalle truppe ruandesi, ci sono ancora sacche di resistenza delle truppe governative, fedeli al governo centrale di Kinshasa, e ai loro alleati (volontari wazalendo, cioè patrioti in swahili).

Scontri a fuoco sono stati segnalati in tutta la città, in centro e in periferia, e Radio Okapi, emittente delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo, parlando di “situazione sanitaria catastrofica” ha lanciato un’accorata denuncia: “Gli ospedali straripano per i feriti e i farmaci sono agli sgoccioli”.

Quattrocento feriti

Il dottor Michael Bolingo, del nosocomio CBKA Virunga, sostiene di aver registrato fino a stamattina 400 feriti e una ventina di morti, militari e civili, tra cui alcuni bambini.

In risposta all’invasione delle truppe ruandesi entrate in Congo per occupare Goma, miliziani del Fronte Democratico di Liberazione del Ruanda (FDLR, miliziani Hutu eredi degli autori del genocidio del 1994, scappati dal loro Paese), Wazalendo e soldati dell’esercito regolare congolese (FARDC) sono entrati a loro volta nel Paese invasore e hanno occupato l’aeroporto di Gisenyi, la città immediatamente a ridosso del confine.

Il Fronte Democratico per la Liberazione del Ruanda con un messaggio ad Africa ExPress, ha comunicato di aver catturato una serie di villaggi: Ruzizi, Nyamasheke, Karongi, Rutsiro, Ngororero, Nyabihu, Rubavu. A parte gli ultimi due, che sono nei dintorni di Gisenyi, gli altri si trovano sulla costa orientale del Lago Kivu.

Non abbiamo potuto controllare la veridicità di questa notizia. Se fosse provata, la conquista di questi villaggi sarebbe stata possibile solo grazie all’intervento dell’esercito del Burundi, cosa verosimile perché il suo governo è controllato dagli Hutu, che collaborano con FDLR.

Protezione siti minerari

Oggi all’alba a GOMA, come ci hanno segnalato i nostri stringer in loco, i miliziani dell’M23 si sono dati alla caccia dei mercenari rumeni che, come ha già segnalato Africa ExPress, sono presenti a Goma e nei dintorni per combattere contro l’M23 e proteggere i siti minerari governativi. Nei combattimenti di qualche giorno fa gli irregolari hanno inflitto gravi perdite alle truppe ruandesi che quindi vorrebbero catturarli e mostrarli ai giornalisti.

In questi video che abbiamo già pubblicato e ripubblichiamo, si vedono i rumeni in azione.

I contractor rumeni sono stati arruolati dalla Amani Sarl, filiale congolese della società bulgara Agemira, una compagnia controllata dai servizi segreti francesi.

Capo del contingente fino a qualche mese fa era il colonnello Romuald Létondot, un paracadutista veterano dell’esercito francese, che ha servito in Mali, Senegal, Togo, Afghanistan and Kosovo.

Paga mensile

La paga mensile di questi soldati di ventura varia dei 5 mila ai 6 mila dollari: esentasse certo, ma senza assicurazione.

Gli uomini, rumeni soprattutto, ma anche bulgari, moldavi, georgiani e bielorussi, sono reclutati da Horatiu Potra, fondatore della società di mercenari RALF, che ha il quartier generale a Sibiu in Romania.

La foto qui sotto lo mostra il 2 gennaio dell’anno scorso con due militari congolesi a Goma. Potra è un mercenario rumeno che ha fatto parte della Legione Straniera francese negli anni Novanta.

Guardia del corpo

E’ stato anche la guardia del corpo principale dell’emiro del Qatar alla fine degli anni ’90 e ha prestato servizio nella Repubblica Centrafricana sotto l’ex presidente Ange-Félix Patassé.

Horatiu Potra, tra due dei suoi uomini congolesi

Africa ExPress ha anche provato a confermare la presenza di elementi del corpo mercenario russo Africa Corps (gli ex Wagner), come ci è stato segnalato. Nonostante le voci insistenti, nessuno dei nostri stringer a Kinshasa, Goma e Kigali, è stato in grado di verificale l’informazione.

Ancora questa mattina a Kinshasa la popolazione è scesa in piazza e ha assalito le ambasciate di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Kenya e Uganda. L’ambasciata ruandese è stata date alle fiamme.

La gente ne ha approfittato per saccheggiare alcune case private, come si può vedere nel video inviatoci da uno dei nostri stringer.

Sempre ieri, Willy Ngumbi Ngengele, vescovo di Goma, ha lanciato un appello, chiedendo a tutte le parti coinvolte nell’attuale conflitto armato e alla popolazione di mostrare assoluto rispetto per la vita umana e per le infrastrutture private e pubbliche.

Stasera a Goma, senza elettricità, senza acqua corrente e senza internet, il silenzio era rotto da colpi d’ama da fuoco. La diplomazia è a lavoro per fermare le armi, ma la soluzione non sembra facile.

Gli interessi in gioco sono enormi e gli appetiti delle grandi multinazionali smisurati. Occorre aspettare domattina per vedere alla luce del sole come si è sviluppata la situazione.

Africa ExPress
@africexp
©RIPRODUZIONE RISERVATA

 

I video pubblicati a corredo di questo articolo sono esclusivi e girati dagli stringer di Africa ExPress

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Non solo russi: anche mercenari rumeni, bulgari e georgiani all’assalto delle ricchezze del Congo-K

 

Orrore in Kenya: continua le serie infinita di femminicidi

Dal Nostro Corrispondente
Costantino Muscau
Nairobi, Gennaio 2025

I poliziotti gli hanno chiesto: “Che cosa porta in quello zaino? Possiamo vedere?”. L’uomo, un giovane falegname, ha risposto senza scomporsi: “Che cosa c’è nel mio zaino? Il corpo di mia moglie, anzi alcuni pezzi, il resto è a casa”.

È un orrore senza fine. E senza confini la Spoon river delle donne. L’Italia nel 2024 ne ha contate 109.

Il falegname, John Kiama Wambua, arrestato in Kenya con i resti della moglie nello zaino

In Kenya il femminicidio sta raggiungendo livelli quantitativi e raccapriccianti inimmaginabili.

Sposato da 3 settimane

Il falegname si chiama John Kiama Wambua, ha 29 anni, e si era sposato appena tre settimane fa.

All’alba di martedì 22 gennaio è stato fermato dagli agenti  nel distretto di Huruma, una baraccopoli, a est di Nairobi.

L’uomo trasportava sulle spalle uno zaino nero stracolmo e si muoveva in modo giudicato sospetto.

I poliziotti hanno pensato che Wambua nascondesse qualcosa di illegale, hanno perquisito il bagaglio rigonfio  e, “con loro grande sorpresa – si legge in una dichiarazione della Direzione delle indagini criminali (DCI) del Kenya – hanno trovato il torace di una donna. L’uomo non appariva per niente turbato”.

Moglie 19enne

I poliziotti sono andati a casa del falegname, un monolocale in lamiera, hanno trovato un coltello da cucina insanguinato, vestiti intrisi di sangue e, sotto il letto, altre parti del corpo (non tutte) del cadavere della moglie, la diciannovenne Joy Fridah Munani.

Il resto del corpo smembrato (la parte inferiore) è saltato fuori sabato mattina, 25 gennaio, in un sacco, lungo le rive del lurido fiume Mathare. A scoprilo, un ragazzo di strada che setacciava i detriti del fiume alla ricerca di qualcosa di utile.

Non è la prima volta che la cronaca e la società devono occuparsi di così truci episodi.

Rinchiusa in un sacco

All’inizio del 2024, Rita Waeni, 20 anni, studentessa della Jomo Kenyatta University of Agriculture and Technology (JKUAT), venne smembrata e rinchiusa in un sacco. Anche allora l’indignazione fu diffusa, come adesso.

Stavolta, dopo l’ultimo bestiale femminicidio, il 15esimo nelle prime tre settimane del 2025, ha spinto un alto magistrato, il procuratore Gilbert Sikwe, a denunciare  l’allarmante crescita del numero di donne che vengono massacrate e ha sollecitato le forze di polizia a compiere approfondite indagini.

Proteste società civile

Questo, a dire il vero, la società civile lo chiede da tempo. Esattamente un anno fa, il 27 gennaio, migliaia di donne e uomini hanno marciato a Nairobi e in altre grandi città del Kenya chiedendo la fine della violenza contro le donne al grido “Siamo esseri umani”, “Smettetela di ucciderci!”

In dicembre centinaia di donne sono scese di nuovo in piazza nella capitale del Kenya per protestare contro il massacro senza fine. La polizia le ha accolte disperdendole con i gas lacrimogeni.

Alto tasso femminicidi

Il Kenya, purtroppo è noto, ha uno dei tassi più alti in Africa di questo genere di assassini. All’origine di questo scempio in genere ci sono le mura domestiche, “il luogo più pericoloso per una donna”, ha scritto l’ONU.

Amanti, mariti, parenti sono spesso i carnefici. Spinti da rabbia, gelosia, possesso, disprezzo o, come si sospetta nel caso del falegname, addirittura da fanatismo satanico.

Ma non mancano neppure altre barbare motivazioni.

Stregoneria

Il 22 gennaio quattro uomini sono stati condannati dalla Alta Corte della contea di Kisii (sud ovest del Kenya) a 40 anni di carcere ciascuno per aver linciato quattro donne tra i 57 e 85 anni, accusate di stregoneria. Giudicato colpevole anche il figlio di uno dei quattro, al quale sono stati inflitti solo 15 anni di prigione, perché minorenne all’epoca dei fatti (ottobre 2021).

Le poverette erano state estratte a forza dalle loro capanne del villaggio Nyagonyi da un gruppo di 16 persone armate di machete, coltelli, bastoni. Portate in aperta campagna, erano state trucidate e bruciate. E questo nonostante una delle vittime designate, per avere salva la vita, avesse offerto tutto il denaro ricavato dalla vendita di una mucca (soldi che le sarebbero serviti per curarsi). Gli assalitori (dodici dei quali scagionati per insufficienza di prove) hanno incassato la somma, ma non per questo hanno risparmiato la “presunta” strega.

Inchiesta

The Daily Nation, in un’inchiesta sconvolgente, pubblicata proprio il 23 gennaio a ridosso dell’ultimo orrido delitto, ha scritto che, tra il gennaio e novembre 2024, sono state ben 172 le donne sterminate, 22 in più rispetto al 2023.

In prima pagina, il quotidiano, ha pubblicato le foto di 6 delle ultime vittime; fra esse due tredicenni e la prima dell’anno, Jane Wanjru, di 26 anni, trovata senza vita in un pozzo a Mukurweini, nella contea di Nyeri (Kenya centrale).

Un report dell’ONU parla di 47 donne kenyane uccise in media alla settimana. Secondo la rete regionale di organizzazioni di dati che traccia questi omicidi sulla base di resoconti giornalistici, (Africa Data Hub) dal 2016 nel Paese sono state eliminate almeno 500 donne e ragazze.

Africa Data Hub: donne uccise in Kenya

Tutti questi dati, però, stridono con quelli forniti dalla Direzione della polizia criminale. Il direttore dell’agenzia, Mohamed Anun, ha parlato di 94 casi negli ultimi 3 anni. Di essi 65 sarebbero finiti davanti ai giudici.

Task Force governo

Il governo sembra che si stia dando una mossa, spinto dall’ indignazione collettiva. Il 18 gennaio scorso è stata formata una task force di 42 membri per tentare di porre freno a questa escalation sanguinosa. Alla guida è stato messo l’ex vice capo della Giustizia, Nancy Makokha Baraza, una 68enne che è stata la prima donna in Kenya a ricoprire questa carica.

Una donna modello per una generazione di studentesse di Legge, anche perché la sua tesi di dottorato in Giurisprudenza fu sul diritto degli omosessuali.

Baraza, però, nel 2011 vide traballare carriera e prestigio. Questo perché entrando in un famoso centro commerciale, il Village Market, rifiutò di sottoporsi alla perquisizione di rito e minacciò di sparare alla guardia. Ne segui’ una querelle che si concluse nel 2012 con le sue dimissioni.

Ora è stata “resuscitata” dal presidente William Ruto, al quale la ex magistrata si è impegnata a presentare entro tre mesi l’analisi dei casi di violenza di genere e di femminicidio e programmare un’azione a difesa delle donne.

Femminicidio endemico

“Il femminicidio in Kenya deve essere considerato un fatto endemico, che attraversa tutta la società, e deve diventare una emergenza nazionale”, ha commentato Anna Ireri, direttrice di Fida, la federazione delle avvocate che si batte da oltre 30 anni contro ogni discriminazione verso donne e i bambini.

“Non bastano leggi repressive e operazioni di polizia –  ha rincarato Nelius Njuguna, consigliere legale della Commissione dei diritti umani in Kenya (KHRC) -. È a livello sociale che bisogna agire prima di tutto, nelle famiglie e nelle scuole. È lì che bisogna sradicare il male”.

Njuguna non ha molta fiducia nel Governo. A dicembre la sua organizzazione protestò con fermezza contro la repressione poliziesca delle donne che manifestavano.

“Come può essere credibile il presidente Ruto che dice di stanziare 100 milioni di scellini (circa 735 mila euro, ndr) per combattere il femminicidio e poi interrompe con la violenza una marcia che chiede la fine del femminicidio?”

Due generi: uomo e donna

Lo stesso Ruto l’altro giorno ha ufficialmente dichiarato di essere d’accordo con il presidente Trump: in Kenya esistono solo due generi, l’uomo e la donna.

Collins Jumaisi Kalisha, il serial killer evaso dalla prigione

Intanto il presunto serial killer più spietato della nazione, Collins Jumaisi Kalisha, è uccel di bosco dopo essere evaso il 24 agosto 2024. È accusato dell assassinio di almeno 42 donne!

Sul sito della Direzione delle investigazioni criminali fa bella mostra una sua foto di ricercato, accompagnata dalla promessa di una ”significativa ricompensa “ per chi favorisce la sua cattura.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Kenya e Uganda sotto shock per il femminicidio della runner Rebecca Chepetegei

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Guerra in Congo-K: Goma in mano ai ribelli e alle truppe ruandesi

Africa ExPress
27 gennaio 2025

Nella tarda serata di ieri i ribelli M23  e soldati ruandesi sono entrati a Goma, capoluogo del Nord-Kivu, provincia nell’est della Repubblica Democratica del Congo. La popolazione li ha accolti in festa.

 

Durante la notte è stato diffuso un comunicato stampa dell’Alliance Fleuvre Congo, nel quale si ordina ai soldati congolesi di consegnare le armi a MONUSCO (Missione di pace dell’ONU) e di radunarsi nello stadio questa mattina.

L’Alliance Fleuvre Congo è una coalizione politico militare fondata poco più di un anno fa (il 15 dicembre 2023) in Kenya. Ne fanno parte diciassettepartiti politici e due gruppi militari, tra cui l’M23. La guida Corneille Yobeluo Nangaa ex presidente della Commissione Elettorale Indipendente. Obbiettivo primario dell’AFC (per altro sottoposto a sanzioni da parte del governo americano)è quello di rovesciare il governo del presidente Félix Tshsekedi.

Da quanto si apprende – le comunicazioni sono difficili, visto che nel capoluogo manca ancora la corrente elettrica, l’acqua e internet – l’aeroporto di Goma è stato chiuso dopo l’esplosione di una granata di 40 mm lanciata da un drone sulla pista.

Da alcuni video si vedono civili congolesi che stanno saccheggiando lo scalo.

Dopo il fallimenti dei colloqui di pace tra Kigali e Kinshasa sotto l’egida dell’Angola, nelle ultime settimane i combattimenti sono ripresi feroci. Da un lato l’esercito governativo  (FADC) e i suoi alleati, i wazalendo (patrioti in swahili), dall’altro i miliziani M23, sostenuti dal Ruanda.

In preda al panico, migliaia di persone sono fuggite dalle proprie case, terrorizzati dai continui scontri a fuoco e dalle violenze.

Migliaia di militari di Paul Kagame sono entrati stanotte e stanno ancora entrando a Goma, il cui confine con il Ruanda corre alla periferia della città. Nei video inviati dai nostri stringer si vedono colonne di veicoli carichi di soldati.

I civili impiegati delle Nazioni Unite si sono rifugiati in alcuni bunker.

Ieri si è tenuto un meeting d’urgenza del Consiglio di Sicurezza del ONU. Durante la seduta il segretario generale dell’organizzazione, Antonio Guterres, ha chiesto l’immediato ritiro dei militari ruandesi dal territorio congolese. Il leader dell’ONU ha inoltre fatto richiesta a Kigali di non appoggiare ulteriormente i miliziani M23.

Il Consiglio ha esortato il Ruanda e la RDC a riprendere i colloqui per raggiungere la pace e affrontare le questioni relative alla presenza dell’esercito ruandese nel Congo orientale e al sostegno congolese alle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, cioè la milizia Hutu erede degli autori del genocidio del 1994, che provocò oltre 800.000 morti tra tutsi e hutu moderati.

Thérèse Kayikwamba Wagner, ministro degli Esteri congolese, ha sottolineato: “Il mondo sta guardando, ora però è arrivato il momento di agire. Ha poi aggiunto:  “Le forze armate ruandesi (RDF) hanno bloccato l’aeroporto di Goma, mettendo così in pericolo voli civili e umanitari e continuano ad attaccare i campi per gli sfollati”.

Mentre il rappresentante del Ruanda durante il Consiglio di sicurezza di ieri ha affermato che la recente militarizzazione della Repubblica Democratica del Congo rappresenta una minaccia senza precedenti per la sicurezza del suo Paese. La presenza di forze congolesi e mercenari è inaccettabile. “Nel frattempo, ha sottolineato, Kigali non rappresenta una minaccia per la MONUSCO, anche se ora sta andando oltre il proprio mandato”.

Il rappresentante ruandese ha poi concluso il suo intervento con queste parole: “La comunità internazionale deve assumersi la sua parte di responsabilità per l’attuale conflitto. Noi siamo impegnati per una soluzione pacifica, ma la RD Congo deve svolgere un ruolo costruttivo e non può esternalizzare tali sforzi”.

L’M23 giura di difendere gli interessi tutsi, in particolare contro i miliziani FDLR.

Dal canto suo, Bintou Keita,  capo della Missione dell’ONU in Congo-K, ha confermato che i ribelli sono presenti vicino alla base di MONUSCO a Munigi, nella periferia nord di Goma. Ha inoltre esortato il Consiglio di Sicurezza a agire rapidamente, perché secondo lei l’M23 sta ricevendo rinforzi ruandesi nell’area di Goma.

Africa ExPress
@africexp
©RIPRODUZIONE RISERVATA

I video che pubblichiamo sono stati prodotti dagli stringer di Africa ExPress

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Guerra totale in Congo-K: truppe ruandesi attraversano la frontiera

Oggi alle 19:30 su Sky TG24 Massimo Alberizzi parla di Congo

0

Stasera alle 19:30 il direttore di Africa ExPress Massimo Alberizzi su Sky TG24 – canale 50 del digitale terrestre, che si può vedere gratis, o via internet – parlerà della guerra che sta sconvolgendo il Congo. Il territorio dell’ex colonia belga dove è in atto il conflitto è ricchissimo e gli appetiti dei Paesi occidentali sono enormi.

 

La nemesi di Israele: accusa di antisemitismo quelle Nazioni Unite che l’hanno voluto

da Centro per la Riforma dello Stato
Giuseppe “Ino” Cassini*
25 gennaio 2025

“Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, purché non si pregiudichino i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche”. Questo scriveva nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Balfour al banchiere Rothschild, principale referente del movimento sionista in Europa.

Ma come ha potuto un semplice “focolare” ebraico in Palestina diventare il “focolaio” di un conflitto che incendia il Medio Oriente da decenni?

Alla domanda ha indirettamente risposto Gideon Levy, editorialista di Ha’aretz: “Non era mai successo che un impero [il Regno Unito] promettesse una terra non sua [la Palestina] a un popolo che non ci vive [gli ebrei] senza chiedere il permesso a chi ci abita [i palestinesi]”.

Effettivamente, in Palestina vivevano all’epoca soltanto 50.000 sabra (ebrei locali) a fronte di 500.000 arabi tra musulmani, cristiani e drusi.

Tre milizie sioniste

Col tempo la popolazione aumentò; e nel dopoguerra gli ebrei scampati ai pogrom e ai lager affluirono in massa, espellendo a forza un milione di palestinesi. Una “pulizia etnica” operata con qualsiasi mezzo.

Tre milizie sioniste (l’Irgun, la Haganà e la banda Stern) si specializzarono in attentati terroristici nei villaggi e a Gerusalemme: il 22 luglio 1946 l’esplosione all’Hotel King David provocò 91 vittime e il 6 gennaio 1948 toccò all’Hotel Semiramis (26 vittime).

Armamenti High tech

Dal 1948 ogni guerra scatenata dai governi arabi si è conclusa rafforzando Israele, che con l’aiuto della Francia si è dotato anche dell’arma nucleare e ora è inserito fra i primi cinque venditori al mondo d’armamenti high tech (con il contributo annuo di 3,8 miliardi di dollari gentilmente offerti dal Pentagono).

John Kerry, ex segretario di Stato USA

“Vogliono tutto – borbottava John Kerry quando era Segretario di Stato – la terra altrui, i soldi nostri, le atomiche loro”. Lo riconosceva già cinquant’anni fa Moshe Dayan: “I nostri amici americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi incassiamo i soldi, prendiamo le armi e snobbiamo i consigli”.

La tragedia toccò l’acme nel 1956, quando Israele si unì a francesi e inglesi nel bombardamento di Suez: un dilemma per le comunità ebraiche d’Egitto, Iraq, Siria e Maghreb, prese tra due fuochi (a Baghdad gli ebrei erano un quarto degli abitanti). Ovviamente i governi arabi confiscarono i beni di chi era partito.

Intanto, Israele vittoriosa e ben finanziata si lanciò in una politica d’immigrazione a tutto campo. Dalla sola Russia sbarcarono un milione di ebrei, veri e falsi, digiuni di giudaismo (certuni si sono divertiti a disegnare svastiche sui muri).

Solo qualche intellettuale la giudicava un’operazione neo-coloniale ammantata di retorica del kibbutz.

Bastione dell’Europa

Qui iniziamo a capire perché Israele costituisca il “focolaio” di conflitti permanenti in Medio Oriente. Theodore Herzl, fondando nel 1897 il movimento sionista, sognava uno Stato “bastione dell’Europa contro l’Asia, avamposto della civiltà contro la barbarie”.

Così Israele fece di tutto per sradicare le comunità ebree dal Marocco fino allo Yemen, distruggendo quella fiorente convivenza secolare. Diceva Ben Gurion: “Dobbiamo lottare contro lo spirito levantino che corrompe gli individui e la società, e preservare gli autentici valori ebraici come si sono cristallizzati nella diaspora”.

Negazionismo della destra

E Abba Eban: “L’obiettivo è di inculcare in loro uno spirito occidentale, invece di farci trascinare verso un orientalismo contro natura”.

Fino alla radicale negazione da parte di Golda Meir (“I palestinesi non esistono”), ribadita dal ministro Smotrich: “Non esiste un popolo palestinese. Sapete chi è palestinese? Io sono palestinese!”.

Il negazionismo della destra israeliana arrivata al potere fa da inquietante contraltare all’assurdo negazionismo dei neonazisti riguardo alla Shoah.

Per anni senza processo

Oggi la “sola democrazia in Medio Oriente” discrimina chi ebreo non è: ha messo in carcere almeno una volta il 40 per cento dei palestinesi di sesso maschile, molti in “detenzione amministrativa” per anni senza processo; attua esecuzioni mirate senza rispettare le proprie leggi; vieta i matrimoni misti; ha costruito un muro divisorio con i Territori Occupati condannato dalla Corte Internazionale di Giustizia; ha popolato la Cisgiordania di 600.000 coloni illegali, molti ultraortodossi e avidi lettori della Bibbia (che però non dice che è lecito confiscare terre, sradicare uliveti e sparare su contadini inermi).

Il colpo di grazia a ogni speranza di pace è stato inferto da Netanyahu, disposto a ogni bassezza pur di sfuggire alla giustizia israeliana, e ora anche a quella internazionale.

Deferito alla Corte dell’Aia per crimini di guerra, vuole screditare l’ONU, ossia l’istituzione che ha tenuto a battesimo Israele consentendo alla diaspora di creare un proprio Stato nazionale.

Persona non grata

Mai prima d’ora un Segretario Generale dell’ONU era stato dichiarato “persona non grata”; è finito nella lista dei personaggi sgraditi a Netanyahu, che dal palco stesso dell’Assemblea Generale ha osato definire l’ONU “una palude antisemita”.

In sintesi, Israele ricusa la legittimità del diritto internazionale, tra gli applausi di Washington.

L’attuale governo italiano non è da meno: ha fatto discretamente sapere che Netanyahu, se venisse in Italia, non verrebbe deportato all’Aia.

Forse perché l’ospitalità è sacra? Certo, lo conferma la Bibbia: “Non opprimerai il forestiero” (Esodo 23,9).

Il problema è che nella Bibbia si trova anche il modo di giustificare l’occupazione della Palestina: ”Stabilirò il tuo confine dal Mare Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al fiume” (Esodo, 23,31).

Sono migliaia i libri usciti per dimostrare che questo conflitto è il principale tumore dei molteplici focolai di instabilità in Medio Oriente. Eppure basterebbe una sola parola a spiegarlo: IMPUNITA’.

Giuseppe “Ino” Cassini*

*Giuseppe (Ino) Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino, La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.

La guerra continua in Cisgiordania ma lontano dalle telecamere

Guerra totale in Congo-K: truppe ruandesi attraversano la frontiera

Africa ExPress
Kinshasa, 26 gennaio 2024

Mentre scriviamo riceviamo una telefonata dall’aeroporto di Goma, capoluogo del Nord-Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Durante la chiamata si sentono detonazioni di armi pesanti. E il nostro stringer conferma: “La situazione qui è grave, gravissima”.

Truppe ruandesi

Combattimenti sono attualmente in atto tra le forze armate di Kinshasa (FARDC) e quelle di Kigali (RDF) alle porte di Goma e, secondo i nostri stringer, truppe ruandesi sono entrate in territorio congolese ai punti di frontiera 12 e 13 tra Goma (RDC) e Giseny (Ruanda) oggi, poco dopo l’alba.

La popolazione di Goma in fuga

Altre informazioni, ma questa volta non confermate, parlano anche di truppe ugandesi che hanno attraversato il confine con il Congo, ma più a nord.

Morti caschi blu

Intanto MONUSCO ha fatto sapere questa mattina che durante l’ondata di aggressioni degli ultimi giorni da parte dei ribelli M23 sono morti 2 caschi blu. E in Sudafrica è polemica sulla presenza delle truppe di SADC (Missione della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale, in inglese Southern African Development Community): il loro contingente ha contato 7 vittime.

Truppe congolesi in marcia verso il fronte per respingere assalto M23 vicino Goma

SADC è presente nell’est della ex colonia belga dal dicembre 2023 per sostenere FARDC nella lotta contro i ribelli M23, sostenuti dal Ruanda.

Il numero dei feriti tra i caschi blu e i militari di SADC, tra questi alcuni gravi, non è ancora stato reso noto.

Secondo il comunicato di MONUSCO di domenica 26 gennaio 2025, la missione di pace sta evacuando tutto il personale non strettamente necessario.

Cittadinanza in ginocchio

A Goma manca tutto. La cittadinanza è terrorizzata. A causa dei combattimenti in corso nelle immediate vicinanze, il capoluogo è privo di corrente elettrica, è senza acqua e internet

Truppe congolesi schierare fuori Goma

Intanto Kinshasa ha richiamato tutti i suoi diplomatici da Kigali e il Palazzo di Vetro ha confermato la riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza per domani, lunedì.

Africa ExPress
@africexp
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Notizia in aggiornamento

Ultima ora: Vista la gravità della situazione, il Consiglio di sicurezza è stato anticipato a oggi.

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Morti, feriti e sfollati: offensiva su larga scala dei ribelli M23 nell’est del Congo-K

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
25 gennaio 2025

Infuriano senza sosta i combattimenti nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, tanto che persino la comunità internazionale è preoccupata degli sviluppi delle ultime ore.

Consiglio Sicurezza

Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno ordinato ai loro connazionali di lasciare immediatamente Goma, capoluogo della travagliata provincia del Nord-Kivu, nell’est del Paese. Dietro richiesta di Kinshasa, il Consiglio di sicurezza dell’ONU si riunirà lunedì prossimo per un meeting d’urgenza per discutere dell’escalation del conflitto.

In Italia la Rete “Insieme per la Pace in Congo ha mandato una lettera a tutti i parlamentari europei per sollecitare un intervento politico delle istituzioni comunitarie nella ex colonia belga.

Combattimenti vicini a Goma

A solo una ventina di chilometri da Goma sono in atto feroci battaglie tra le forze armate congolesi (FARDC) e i ribelli M23.

Presenza militari di Kigali

Le Nazioni Unite hanno pubblicato in proposito un rapporto stilato da un gruppo di esperti. Nella loro ultima relazione hanno tra l’altro sottolineato che la presenza di truppe ruandesi in Congo-K è piuttosto consistente. Attualmente sarebbero dispiegati tra 3.000 e 4.000 uomini, che combattono accanto ai guerriglieri dell’M23. Le Forze di Difesa del Ruanda (FDR) dirigerebbero de facto le operazioni dei ribelli.

Escalation del conflitto nell’est del Congo-K

Il gruppo armato prende il nome da un accordo firmato dal governo del Congo-K e da un’ex milizia filo-tutsi il 23 marzo 2009. La formazione ha ripreso le ostilità nel primo trimestre del 2022 ed è sostenuto dal vicino Ruanda.

Morto governatore

Dopo l’uccisione del governatore militare del Nord-Kivu, Peter Cirimwami, il presidente del Congo-K, Felix Tshisekedi, ha presieduto personalmente una riunione strategica del Consiglio superiore della difesa.

Il governatore è morto al suo arrivo a Kinshasa dove era stato trasferito dopo essere stato colpito da un colpo di arma da fuoco. Era sul fronte di guerra, a Saké – la città dista una ventina di chilometri da Goma – da giovedì scorso.

Contingente SADC

Dal dicembre 2023 in Congo sono presenti le truppe di SADC (Missione della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale, in inglese Southern African Development Community), con 4.500 soldati provenienti da Malawi, Sudafrica e Tanzania. Sostengono le forze armate congolesi nella lotta contro i ribelli e finora hanno avuto solo un ferito.

Feriti caschi blu

Secondo la MONUSCO (Missione di pace dell’ONU nella RDC) alcuni caschi blu sono stati feriti. Le Forze di Reazione Rapida (QRF, l’unità d’élite della Missione ONU), sono state attivamente impegnate in intensi combattimenti con l’artiglieria pesante.

Wazalendo (cioè patroti)

Secondo quanto riporta Radio OKAPI, emittente e giornale online di MONUSCO, anche questa mattina la situazione è molto tesa attorno la città di Saké nel territorio di Nyiragongo, (Nord-Kivu).

L’esercito congolese sostenuto dai suoi alleati, in particolare i Wazalendo (patrioti in lingua swahli), le forze di pace della MONUSCO e i soldati della forza regionale SADC, stanno tentando di liberare le località di Mubambiro e Matcha, ancora occupate dai ribelli dell’M23, intorno al centro di Saké.

Congo-K: civili in fuga

Fonti locali hanno riportato che durante tutta notte e anche questa mattina si sono sentiti colpi di armi pesanti e leggere a Goma. I combattimenti molto vicini alla città hanno provocato guasti alla linea elettrica e in diversi quartieri manca la corrente.

Monito dell’ONU

Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha fermamente condannato le nuove offensive lanciate da M23, dopo il fallimento della mediazione tra Congo-K e Ruanda sotto l’egida dell’Angola. Il capo del Palazzo di Vetro ha chiesto ai ribelli di cessare immediatamente gli assalti e di rispettare il cessate il fuoco siglato l’estate scorsa.

Vista la presenza di forze ruandesi sul territorio congolese a sostegno dei ribelli, come esposto nel rapporto degli esperti dell’ONU, il portavoce di Guterres, Stéphane Dujarric, ha dichiarato: “Tutti gli attori devono rispettare la sovranità e l’integrità territoriale della RDC e cessare ogni sostegno ai gruppi armati, congolesi o stranieri”.

Il sanguinoso conflitto sta coinvolgendo anche le province di Ituri e del Sud Kivu (entrambe nell’est del Paese). A Nyundo (villaggio nel Sud Kivu), giovedì scorso sono stati uccisi due civili e diversi altri sono stati feriti durante scontri tra FARDC e M23. I ribelli, che volevano occupare il villaggio, sono stati però respinti dall’aviazione congolese.

“Proteggete i civili”

Con l’intensificarsi dei combattimenti, oltre 400mila persone sono fuggite dalle proprie case. L’UNHCR esorta tutte le parti a dare priorità alla protezione della popolazione, a rispettare la natura civile dei siti per sfollati e ad astenersi dall’uso di esplosivi e armi pesanti in tali aree.

Sfollati nel Congo-K vicino a Goma, Nord-Kivu

Gli ospedali sono quasi saturi di civili feriti. Donne, bambini e anziani vulnerabili vivono in condizioni di sovraffollamento e precarietà, con accesso limitato a cibo, acqua e servizi essenziali. Ma chi sente il grido di dolore della povera gente, dei bambini rimasti orfani, costretti a vivere nei campi per sfollati, derubati della loro infanzia e spesso senza protezione di un familiare?

 

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotorlgyes
©RIPRODUZIONE RISERVATA

La pace può attendere: bloccati colloqui tra Congo-K e Ruanda

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

 

La guerra continua in Cisgiordania ma lontano dalle telecamere

Speciale per Africa Express
Alessandra Fava
22 gennaio 2025

A Gaza c’è una tregua temporanea. Ma intanto lo Stato di Israele attacca il Nord della Cisgiordania con bombardamenti e svuota il campo profughi di Jenin creato nel 1948.

Parla di “cessate il fuoco temporaneo” il premier israeliano Benjamin Netanyahu e non fa presagire niente di buono, specie dopo che Elise Stefanik, nominata da Trump stesso ambasciatrice Onu per gli USA, ieri davanti alla Commissione esteri del Senato statunitense, ha detto che rimane dell’idea che Israele abbia “ha un diritto biblico sulla Cisgiordania”.

https://youtu.be/m3taciX7E2Y

In Israele infuriano le polemiche sulla tregua. I sostenitori dell’estrema destra sono convinti che il governo stia rilasciando palestinesi che diventeranno domani dei terroristi e cercheranno di combattere Israele.

Sostegno elettorale

Di un vero e proprio accordo di pace di fatto non ne parla nessuno. Netanyahu è interessato in primis a mantenere il sostegno dei suoi elettori in vista delle prossime elezioni, ma sicuramente suonano solo come una minaccia le parole che ha detto ieri a Sky News, a proposito della conversazione tra lui e il presidente Donald Trump:

“Abbiamo parlato mercoledì, si è congratulato per l’accordo e ha sottolineato che la prima fase è un cessate il fuoco temporaneo. Verso le prossime fasi dell’accordo stiamo considerando aspetti importanti, e per riportare a casa tutti gli ostaggi e raggiungere tutti gli obiettivi della guerra, sia il presidente Trump che il presidente Biden hanno fornito pieno sostegno al diritto di Israele di riprendere il cambattimento, se Israele arriva alla conclusione che i negoziati della seconda fase sono inutili. Davvero apprezzo la decisione di Trump di togliere tutte le restrizioni alla fornitura di munizioni e servizi essenziali allo Stato di Israele. Se dovessimo riprendere la guerra, lo faremo con nuovi modi e con una forza tremenda”.

Impegno bellico

Il rinnovo dell’accordo USA-Israele quindi è un nuovo impegno bellico e il presidente Trump ha tolto anche eventuali sanzioni o limitazioni nei viaggi contro i coloni accusati di aggredire i palestinesi nella West Bank.

Quindi quelle del premier non sembrano le parole su un accordo stabile e neppure su una pace duratura. La tregua durerà probabilmente quel che basta per liberare tutti o parte degli ostaggi israeliani catturati da Hamas il 7 ottobre 2023.

Sempre peggio

Intanto in Cisgiordania la situazione è sempre peggiore. I Territori Occupati, da decenni hanno una circolazione limitata da check point fissi e mobili che venivano rafforzati a seconda dei casi.

Assopace Palestina in un comunicato sostiene che ci sono ora 898 blocchi nei Territori Occupati, di cui 173 sono cancelli di ferro installati dopo il 7 ottobre.

Check point chiusi

Inoltre da ieri sono stati chiusi i check point dei centri principali, e quindi sono tagliate fuori Ramallah, Hebron, Qalqilya, Betlemme e Salfit.

Khatima davanti alle rovine della sua serram, distrutta il 13 gennaio 2025, a Al Funduq, a est di Qalqilya (foto Ocha)

Si continua a morire e combattere a Jenin, nel nord della Cisgiordania, la città ribelle per eccellenza, dove per reazioni alla stasi dell’Autorità palestinese, Hamas rischierebbe di vincere le elezioni (se si tenessero le elezioni).

Nelle ultime ore solo a Jenin sono morti 10 palestinesi, per cui il conto dei morti solo qui e da inizio d’anno sale a 22. Per le strade si spara. I carri armati hanno distrutto molte strade di accesso alla città. 

E stanno anche svuotando il campo profughi di Jenin, creato nel 1948 da famiglie che hanno lasciato le aree della costa occupate da Israele. Questa volta però, insieme all’esercito israeliano, prendono parte alle azioni di guerra anche le forze di polizia dell’Autorità palestinese.

Fatah screditato

Il partito di Fatah, ormai screditato agli occhi di tanti palestinesi e dato nei sondaggi ormai perdente anche nella West Bank, cerca di ridurre la forza di Hamas, pur sapendo che almeno per governare Gaza dovrà fare i conti anche con questa forza politica.

Nelle ultime ore sono state bombardate e distrutte completamente anche abitazioni nel distretto di Jenin e molti abitanti parlano di “gazificazione” per indicare una distruzione di aree abitate come avvenuto a Gaza nell’ultimo anno e mezzo.

Case distrutte dall’esercito israeliano con attacchi aerei a Burquin nel distretto di Jenin – foto AFP

Le Nazioni Unite parlano di 2 mila rifugiati sempre a Jenin, vale a dire gente a cui hanno distrutto la casa. Hamas denuncia anche un assalto all’ospedale di Al-Razi a Jenin dove l’esercito israeliano avrebbe catturato combattenti feriti.

Attacchi dei coloni

Mentre a Gaza infuriava la guerra ufficiale, nel 2024, OCHA (l’agenzia dell’ONU che si occupa delle violazioni dei diritti umani) ha documentato mille vittime nei Territori Occupati, 1.432 attacchi dei coloni israeliani, di cui 204 incidenti con molotov e materiale incendiario con cui hanno bruciato abitazioni, strumenti agricoli.

L’associazione pacifista e contro l’occupazione Peace Now ha contato 56 nuovi insediamenti illegali nel 2024, di cui 8 in area B (accordo di Oslo). Il furto di terra parte da una piccola casa prefabbricata deim difesa dall’esercito. Qui il report completo:

https://peacenow.org.il/en/at-least-seven-outposts-established-in-palestinian-controlled-area-b
Un outpost a est di Tekoa in zona B, foto Peace Now.

Ma Israele non vuole occhi indiscreti o imparziali su quanto accade. Infatti sono stati revocati “temporaneamente” i permessi ad entrare in Cisgiordania per tutti i giornalisti del canale televisivo Al Jazeera, ma a farlo – anche qui – è stata l’Autorità palestinese con sede a Ramallah.

No ai giornalisti

La motivazione è che i giornalisti dell’emittente producevano “materiale e notizie che ingannavano e fomentavano litigi”.

Dietro questa decisione ci sarebbe il partito di Al Fatah che ha bloccato l’attività della tv a Jenin, Tubah e nella West Bank in generale per impedire di documentare la lotta tra la fazione politica ora in minoranza legata all’Autorità palestinese di Mahmud Abbas e le nuove leve che fanno riferimento ad Hamas.

La rete tv qatariota ha risposto con un comunicato che il divieto impedisce la copertura dell’escalation militare nella West Bank. D’altra parte Israele aveva già fatto chiudere l’ufficio di Ramallah.

https://network.aljazeera.net/en/press-releases/al-jazeera-deplores-palestinian-authority%E2%80%99s-decision-close-its-office-west-bank-and

Naturalmente anche a Gaza i giornalisti internazionali non hanno il permesso di entrare.

Giustificazione ufficiale

La giustificazione ufficiale è che l’entrata della stampa non fa parte dell’accordo tra le parti. Ma è evidente uno, che l’esercito israeliano non vuole che si scoprano i crimini (sono disperse almeno 7 mila persone) e due, Hamas non vuole che si indaghi su quanto resta della rete di tunnel e della struttura militare in generale.

Ma c’è un effetto quasi distopico nel vedere le foto dei poliziotti che dirigono il traffico tra le rovine, coordinati da Hamas che è sempre al governo ufficiale della Striscia.

Procedura dei visti

Che si vogliano eliminare tutti i testimoni risulta anche dal fatto che gli operatori di 200 ONG italiane non hanno ricevuto il rinnovo del visto per lavorare a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est.

Anzi la procedura dei visti per i cooperanti prima della durata di un anno rinnovabile per quattro, sarà in futuro sottoposta a un dipartimento fatto da Ministero della diaspora, con rappresentanti di ministri della difesa, esteri, polizia e servizi segreti (articolo di Chiara Cruciati su Il manifesto 21 gennaio 2025).

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

Altri Articoli sulla guerra a Gaza li trovate QUI

Gaza: le speranze e le fragilità del cessate il fuoco

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero
+39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress
e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Silvia Romano e Cecilia Sala intrighi e misteri di due storie con notevoli analogie

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Malindi, Gennaio 2025

Gli intrighi e i misteri sul sequestro di Silvia Romano, denunciati da Africa ExPress, mostrano alcuni risvolti inquietanti che, se analizzati con attenzione, richiamano alla mente l’altrettanto strana vicenda dell’incarcerazione di Cecilia Sala, in Iran, e dell’arresto di Mohammed Abedini, alla Malpensa.

Soprattutto dopo che alcuni testimoni sentiti in Kenya hanno raccontato alcune cose e chiarito altre sul rapimento di Silvia Romano.

Malindi, Kenya

Il sequestro, è la versione unanime di alcuni testimoni, incontrati a Malindi e in Sudafrica, è stato voluto dagli americani che hanno organizzato uno schiaffo all’Italia per punirla, colpevole, secondo Washington di aver venduto armi all’Iran nonostante l’embargo imposto dagli Stati Uniti.

Selezionare la fonte

Non occorre andare in giro per Malindi a chiedere informazioni su quella oscura storia. Basta far sapere alle persone giuste che un giornalista italiano è in città e le notizie arrivano “da sole”. Certo occorre fare una cernita e selezionare la fonte per evitare di essere ingannati.

La prima regola, valida ancora di più in Africa, è non pagare mai le informazioni. A pagamento è molto facile riceverne a palate, ma normalmente si tratta di fake news, la cui collocazione giusta è il cestino delle immondizie.

Rapita a Chakama

Silvia è stata sequestrata il 20 novembre 2018 a Chakama, un villaggio a un’ottantina di chilometri da Malindi e liberata il 9 maggio del 2020.

La guest house per i volontari di Africa Milele a Chakama

La prima informazione che vado a verificare e che trovo esatta è quella che riguarda Johnny. L’uomo – mi raccontò – inseguì i rapitori che avevano appena catturato Silvia. Trovò abbandonate le motociclette con cui era stata portata via la ragazza. Il motore era ancora caldo. Chiamò quindi la polizia.

Al cellulare, mi disse, i tutori dell’ordine l’avevano fermato: “Non muoverti. Aspetta i rinforzi”. Così in attesa di aiuti (che non sono mai arrivati) erano state perse le tracce. Quando parlò con me – Silvia era ancora prigioniera – Johnny era rammaricato di non essere riuscito a far nulla per salvarla.

Trovato morto

Il mio informatore qualche tempo fa è stato trovato morto. Il suo decesso è stato archiviato come incidente di moto, ma il buco al centro della sua testa non ha convinto chi lo conosceva bene: “E’ stato ammazzato”.

La vicenda del sequestro di Silvia Romano è apparsa subito abbastanza confusa e misteriosa. Noi di Africa ExPress avevamo già manifestato perplessità su quel rapimento che avevamo considerato anomalo.

Dubbi accentuati

I nostri dubbi si erano accentuati ancora di più subito dopo l’inchiesta de Le Iene che aveva mostrato parecchie incongruenze e un ruolo di primo piano giocato da personaggi inquietanti legati ai servizi segreti.

Oggi, alla luce di nuovi indizi rivelati a Malindi, la storia del rapimento di Silvia appare più chiara. Noi avevamo già messo in evidenza che questa zona del Kenya, verso il confine con la Somalia, è affollata da spie e agenti segreti, informatori o semplici antenne.

Il territorio è soggetto a infiltrazioni e incursioni da parte degli islamisti che arrivano dalla Somalia.

Controllare i movimenti

A noi era apparso subito strano che i kenioti, con la loro possibilità di essere aiutati dagli americani e dagli inglesi, che nel Paese africano ancora hanno una forte presenza militare e di intelligence, non fossero riusciti a controllare i movimenti dei rapiti in fuga con la loro vittima.

Grazie al sostegno finanziario dei nostri lettori eravamo stati in grado di organizzare un’accurata inchiesta in più puntate.

Silvia Romano

Sempre Johnny aveva raccontato che durante la fuga, Silvia camminando tra cespugli e arbusti, si era procurata graffi e piccole ferite e si era ammalata. Durante il trasferimento in Somalia per curare la loro vittima, i rapitori si erano fermati in un villaggio tra Malindi e il confine somalo, Garsen.

Lì erano rimasti qualche giorno. Ma chi conosce Garsen, sa che quel piccolo centro è un coacervo di spie ed è spesso visitato da pattuglie di militari americani, talvolta travestiti da turisti di passaggio e quindi in abiti civili.

Possibile che nessuno si sia accorto della presenza di quella ragazza bianca passata di lì? E che nessuno abbia segnalato strani movimenti alle autorità keniote e agli americani? Nessuno ha saputo delle domande fatte al farmacista per scegliere le medicine giuste?

“E’ inverosimile – sibila tra i denti il funzionario, aggiungendo – anche perché, almeno ufficialmente, tutti la stavano cercando. Sono certo che gli americani sapevano perfettamente dov’era la ragazza. Non solo non hanno fatto niente per bloccare i rapitori, ma hanno addirittura agevolato il loro passaggio in Somalia aiutati, in questo, dai militari kenioti che sono dispiegati proprio in quella parte dell’ex colonia italiana”.

Investigatori italiani bloccati in hotel

Quindi americani e kenioti erano a conoscenza dei movimenti del commando di rapitori e della loro vittima?

“Certo – spiega il nostro informatore – e questo chiarisce molte cose. Per esempio perché non sono mai state avviate indagini serie sulla vicenda. I carabinieri del ROS sono venuti in Kenya ma non si sono mossi dal loro alloggio. Le autorità keniote, è la versione ufficiale, non gli hanno dato il permesso di muoversi. Probabilmente erano le stesse autorità italiane che non hanno fatto nulla per facilitare le indagini degli investigatori spediti in Kenya”.

Queste domande ce le eravamo già poste sia durante la prigionia di Silvia, sia dopo la sua liberazione, quando le Iene avevano trasmesso in televisione la loro inchiesta a puntate. Assieme alla  collega americana, Hillary Duenas, ci eravamo mossi senza problemi in lungo e in largo, parlando con testimoni, magistrati, poliziotti, uno dei quali aveva rilasciato un’intervista a volto coperto denunciando la mancanza di volontà inquisitoria.

Perché noi sì e gli investigatori dei carabinieri no?

Nella nostra indagine avevamo visitato l’albergo di Mombasa in cui Silvia aveva soggiornato prima di andare a prendere servizio a Chakama. Eravamo stati accolti dalla proprietaria con un sorriso: “Finalmente è arrivato qualcuno”.

Nessun funzionario di polizia, né italiano, né keniota si era fatto vivo. Nessuno dei carabinieri, nessun diplomatico. Com’era stato possibile che nessuno avesse pensato di indagare anche in quell’hotel?

C’è anche da chiarire il ruolo che ha svolto la Turchia nel rapimento di Silvia Romano. “I turchi che in Somalia sono presenti con un contingente militare, sapevano perfettamente dove era tenuta prigioniera la ragazza, ma non hanno rivelato niente a nessuno – spiegano a Malindi -. Perché”?

Risposta immediata

La risposta arriva immediata chiara e precisa dal nostro interlocutore. “Il rapimento è stato voluto dagli americani per punire l’Italia che aveva venduto armi (probabilmente tecnologia nucleare) all’Iran”. Un affronto pesante agli Stati Uniti che avevano appena inasprito le sanzioni a Teharan.

“Gli esecutori materiali del ratto in Kenya hanno consegnato Silvia ad altra gente e al confine somalo ad altri ancora, quelli che l’hanno tenuta in custodia fino alla liberazione. Comunque i mandanti non vanno cercati né da noi, né in Somalia”.

Complicità inquietanti

“In quel rapimento – sottolinea sempre il nostro interlocutore che per motivi di sicurezza non vuole che sia rivelato il suo nome – ci sono complicità inquietanti che nessuno vuol rivelare. Non c’era nessuna volontà di trovarla”.

Ma le domande che restano in sospeso sono: “Qual è, o quali sono le contropartite pagate per la liberazione di Silvia Romano? E a chi?”

Cecila Sala: anche la sua vicenda presenta parecchi lati oscuri

Le stesse domande valgono per Cecilia Sala e per la sua liberazione dalle galere iraniane, nonché per Mohammed Abedini, per il suo rilascio dal carcere milanese di Opera.

“Nel caso di Silvia Romano credo che le contropartite siano state molto più alte di quanto è stato ipotizzato, ma d’altronde c’era molto da coprire – è la conclusione dell’anonimo interlocutore, che conclude – Se è stato pagato del denaro è per garantire il silenzio, non per ottenere la liberazione”.

Mohamed Abedini, detenuto in Italia

Noi di Africa ExPress non siamo riusciti a recuperare le prove (se esistono) di un coinvolgimento americano nel rapimento di Silvia Romano. Chi sa e che ha le prove non vuol parlare: “Troppo pericoloso”.

Per ora a noi è stato sufficiente mettere in evidenza che ci sono molti misteri e molte cose che non quadrano e non si riescono a giustificare. I due casi, quello di Silvia Romano e quello di Cecilia Sala, presentano analogie notevoli: i rapporti tra Italia, Iran e Stati Uniti.

Due vicende che coprono gli stessi interessi in contesti diversi. Le nostre indagini andranno avanti, anche se, a questo punto, sarebbe la politica a dover, in nome della trasparenza e della democrazia, spiegare cosa c’è dietro le vicende di queste due donne.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
X @malberizzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R

Gli articoli sul rapimento di Silvia Romano e l’inchiesta de Le Iene e di Africa Express li trovate qui

Sudan: esercito accusato di torture e omicidi di sud sudanesi

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 gennaio 2025

Anche in questo inizio 2025 la maggior parte dei media internazionali dà poco spazio alla peggiore crisi umanitaria della storia recente. Non si arresta la scia di morte in Sudan per mancanza di cibo e cure a causa delle incessanti violenze

Sudan: morti, violenze, fame

La guerra continua

I combattimenti tra i due guerrafondai, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, de facto presidente e capo dell’esercito, non risparmiano i civili, prime vittime di questa guerra.

Sanzioni USA

Nemmeno le sanzioni imposte dagli Stati Uniti sia a Hemetti prima e, qualche settimana dopo a al-Burhan, sono riuscite a bloccare i sanguinosi attacchi verso la popolazione, ormai allo stremo.

al-Burhan, presidente del Sudan e capo comandante delle forze armate (a sinistra), Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, capo delle RSF

L’amministrazione di Biden, pochi giorni prima di cedere il testimone a quella di Trump, ha sanzionato anche il capo dello Stato sudanese perché sotto la sua leadership “sono stati commessi attacchi letali contro i civili, compresi bombardamenti aerei contro infrastrutture protette, come scuole, mercati e ospedali”.

UA condanna uccisione sud sudanesi

Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, domenica scorsa ha condannato fermamente anche le violenze e le brutali uccisioni di cittadini sud sudanesi a Wad Madani, nello Stato di Al Jazirah in Sudan. Faki Mahamat ha chiesto a tutti gli attori interessati di continuare a collaborare con l’UA per una risoluzione pacifica dell’intollerabile conflitto in Sudan.

Soldati governativi

I responsabili delle violenze contro i civili sono i militari governativi, dopo aver ripreso il controllo della città di Madani, capoluogo di Aljazeera State. Secondo International Service for Human Rights (ISHR, ONG indipendente fondata nel 1984, con uffici a Ginevra e New York), le vittime sarebbero per lo più donne e bambini, ma SAF (Sudan Armed Forces, l’esercito sudanese) non avrebbe nemmeno risparmiato gli uomini.

Si tratta di persone provenienti dal Sud Sudan, Darfur e Sudan occidentale, ma residenti nella zona da decenni. I soldati di al-Burhan le avrebbero accusate di aver collaborato con i paramilitari delle RSF mentre l’area era sotto il loro dominio (dicembre 2023 – gennaio 2025).

Coprifuoco in Sud Sudan

Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir

Anche il presidente sud sudanese, Salva Kiir, ha protestato contro le uccisioni dei connazionali in Sudan. E pochi giorni fa il suo omologo sudanese ha formato un comitato d’inchiesta per indagare sui gravi fatti commessi dai militari nell’Aljazeera State.

16 sudanesi uccisi

I sud sudanesi sono rimasti scioccati dalle uccisioni dei loro connazionali in Sudan e a tutta risposta hanno iniziato a aggredire i sudanesi residenti nel loro Paese. Lunedì la polizia sud sudanese ha dichiarato che la scorsa settimana 16 cittadini sudanesi sono stati uccisi durante gli scontri, scoppiati nella capitale Juba e in altre regioni. A tutta risposta Salva Kiir, per evitare ulteriori spargimenti di sangue, ha imposto un coprifuoco sul territorio nazionale e ha invitato la popolazione alla calma.

Pulizia etnica

Anche nel Darfur settentrionale non si arrestano gli attacchi delle RSF e le milizia arabe, loro alleate, contro gruppi etnici africani, in particolare contro i fur e gli zaghawa.

Sudan, attacchi con droni a un mercato di Omdurman

Il 13 gennaio scorso, durante un attacco con droni a un mercato, altri 120 morti e 150 feriti a Omdurman, città gemella di Khartoum, sull’altra sponda del Nilo. Si suppone che il lancio delle bombe sia stata opera di SAF, visto che l’area della piazza Ombada Dares è controllata dai paramilitari di Hemetti.

E’ quasi impossibile sapere quante persone siano morte e quanti siano stati i feriti in questa sanguinosa guerra, scoppiata nell’aprile 2023. La gente continua a scappare dalle proprie case. Secondo gli ultimi dati ONU, gli sfollati sarebbero ora 11,5 milioni, mentre altri 3,4 milioni avrebbero cercato protezioni nei Paesi limitrofi. Inoltre, oltre 25 milioni di persone, cioè la metà della popolazione sudanese, soffrono la fame.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Anche a Natale nell’inferno del Sudan si muore: sotto le bombe o di fame

Vuoi contattare Africa ExPress? Manda un messaggio WhatsApp con il tuo nome e la tua regione (o Paese) di residenza al numero +39 345 211 73 43

Ci si può abbonare gratuitamente ad Africa Express sulla piattaforma Telegram al canale https://t.me/africaexpress e sul canale Whatsap https://whatsapp.com/channel/0029VagSMO8Id7nLfglkas1R