Ebola si è risvegliata nella Repubblica Democratica del Congo. Ieri le autorità di Kinshasa hanno dichiarato una nuova epidemia del micidiale virus nella provincia del Kasaï, nel centro del Paese, “Si tratta della sedicesima epidemia registrata da noi”, ha precisato il ministro della sanità congolese, Samuel Roger Kamba Mulamba.
Repubblica Democratica del Congo: nuova epidemia di ebola, la sedicesima
Dalla fine del mese scorso a oggi sono morte almeno 16 persone. Il primo caso è stato segnalato il 20 agosto, quando una donna incinta di 34 anni si è presentata all’ospedale di Boulapé, Kasaï, con sintomi allarmanti: febbre alta, vomito, astenia, emorragie. Tra le vittime ci sono anche quattro membri del personale sanitario del nosocomio.
Si teme aumento dei casi
Secondo un bilancio ancora provvisorio, sono stati registrati 28 casi sospetti nel Kasaï. Il tasso di mortalità è attualmente stimato al 53,6 per cento.
“Stiamo agendo con determinazione per fermare rapidamente la diffusione del virus e proteggere le comunità”, ha assicurato il dottor Mohamed Janabi, direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità per l’Africa. Ma OMS prevede un aumento degli infetti.
Rintracciare contatti del malato
Il ministro della Sanità ha tuttavia cercato di rassicurare la popolazione. “Abbiamo le competenze necessarie per affrontare l’epidemia”.
“Per contenere il diffondersi della febbre emorragica – ha spiegato il capo del dicastero della Sanità – bisogna rintracciare tutte le persone entrate in contatto con il malato, prenderle in carico e vaccinarle con Ebanga (ansuvimab-zykl, un farmaco antivirale a base di anticorpi monoclonali, approvato per il trattamento dell’infezione da ebolavirus tipo Zaire, ndr)”.
Le autorità sanitarie ritengono che la nuova ondata del virus sia del ceppo Zaire, contro il quale esiste un vaccino. Secondo l’OMS, il Congo-K dispone attualmente di una scorta di 2.000 dosi, che ora dovranno essere trasportate da Kinshasa nel Kasaï.
Epicentro in zona isolata
Per fortuna, hanno evidenziato le autorità competenti, l’epicentro dell’epidemia si trova in una zona isolata: per raggiungerla occorre almeno un giorno di viaggio in auto da Tshikapa, capoluogo della provincia del Kasaï.
La grave febbre emorragica è endemica nella ex colonia belga, dove periodicamente si ripresenta. La prima epidemia di ebola scoppiò nel Paese il 26 agosto 1976, a Yambuku, una città nel nord di quello che allora si chiamava Zaire. Il virus colpì un’insegnante di 44 anni, Mabalo Lokela, dopo un viaggio nell’estremo nord del Paese. Immediatamente si pensò che la donna fosse affetta da malaria. Ben presto si presentarono altri sintomi. Loleka mori l’8 settembre 1976.
Immagine al microscopio del virus Ebola
I morti durante questa prima epidemia apparsa in Congo, nella valle del fiume Ebola (da cui il nome del virus), furono 280. Durante quella del 1995 morirono alcune suore italiane a Kikwit. Gli ammalati che furono contagiati dal virus nel 2000 a Gulu, in Uganda, furono curati nell’ospedale italiano Lachor, un efficiente complesso diretto dal compianto dottor Piero Corti, che l’aveva fondato pochi anni prima assieme alla moglie Lucille, medico anche lei.
Esistono due tipi di corrispondenti di guerra. Il primo tipo non partecipa alle conferenze stampa. Non implora generali e politici di concedergli interviste. Si assume dei rischi per riferire dalle zone di combattimento. Riferiscono ai loro telespettatori o lettori ciò che vedono, che è quasi sempre diametralmente opposto alle narrazioni ufficiali. Il primo tipo, in ogni guerra, è una piccola minoranza.
Poi c’è il secondo tipo, il gruppo informe di sedicenti corrispondenti di guerra che giocano alla guerra. Nonostante ciò che dicono agli editori e al pubblico, non hanno alcuna intenzione di mettersi in pericolo. Sono contenti del divieto israeliano di accesso ai giornalisti stranieri a Gaza. Chiedono ai funzionari briefing informativi e conferenze stampa.
Collaborano con i loro supervisori governativi che impongono restrizioni e regole che li tengono lontani dal combattimento. Diffondono pedissequamente tutto ciò che viene loro fornito dai funzionari, gran parte del quale è falso, e fingono che siano notizie.
Partecipano a piccole gite organizzate dai militari – spettacoli di facciata – dove possono vestirsi e giocare ai soldati e visitare avamposti dove tutto è controllato e coreografato.
I nemici mortali di questi impostori sono i veri reporter di guerra, in questo caso i giornalisti palestinesi a Gaza. Questi reporter li smascherano come adulatori e servili, screditando quasi tutto ciò che diffondono. Per questo motivo, gli impostori non perdono mai l’occasione di mettere in dubbio la veridicità e le motivazioni di chi lavora sul campo. Ho visto questi serpenti farlo ripetutamente al mio collega Robert Fisk.
Quando il reporter di guerra Ben Anderson è arrivato all’hotel dove erano accampati i giornalisti che coprivano la guerra in Liberia – secondo le sue parole, “ubriacandosi” nei bar “a spese dell’azienda”, avendo relazioni extraconiugali e scambiandosi “informazioni piuttosto che uscire e raccogliere informazioni” – la sua immagine dei reporter di guerra ha subito un duro colpo.
“Ho pensato: finalmente sono tra i miei eroi”, ricorda Anderson. “Questo è il posto in cui ho sempre voluto essere. Poi io e il cameraman con cui ero, che conosceva molto bene i ribelli, siamo stati con loro per circa tre settimane. Siamo tornati a Monrovia. I ragazzi al bar dell’hotel ci hanno chiesto: ‘Dove siete stati? Pensavamo foste tornati a casa’. Abbiamo risposto: ‘Siamo andati a seguire la guerra. Non è questo il nostro lavoro? Non è quello che dovreste fare voi?’.
“La visione romantica che avevo dei corrispondenti esteri è stata improvvisamente distrutta in Liberia”, ha continuato. “Ho pensato che, in realtà, molti di questi ragazzi fossero pieni di stronzate. Non sono nemmeno disposti a lasciare l’hotel, figuriamoci lasciare la sicurezza della capitale e fare davvero del giornalismo”.
Questa linea di demarcazione, che si è verificata in ogni guerra che ho coperto, definisce il giornalismo sul genocidio a Gaza. Non è una divisione di professionalità o cultura. I giornalisti palestinesi denunciano le atrocità israeliane e smascherano le menzogne israeliane. Il resto della stampa non lo fa.
I giornalisti palestinesi, presi di mira e assassinati da Israele, pagano con la vita, come molti grandi corrispondenti di guerra, anche se in numero molto maggiore. Israele ha ucciso 245 giornalisti a Gaza secondo una stima e più di 273 secondo un’altra. L’obiettivo è quello di nascondere il genocidio nell’oscurità. Nessuna guerra di cui mi sono occupato si avvicina a questi numeri di morti. Dal 7 ottobre, Israele ha ucciso più giornalisti “che la guerra civile americana, la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, la guerra del Vietnam (compresi i conflitti in Cambogia e Laos), le guerre in Jugoslavia negli anni ’90 e 2000 e la guerra post-11 settembre in Afghanistan, messe insieme”. I giornalisti in Palestina lasciano testamenti e video registrati da leggere o riprodurre alla loro morte.
I colleghi di questi giornalisti palestinesi della stampa occidentale trasmettono dal confine con Gaza indossando giubbotti antiproiettile ed elmetti, dove hanno tante possibilità di essere colpiti da schegge o proiettili quante di essere colpiti da un asteroide. Si affrettano come lemming alle conferenze stampa dei funzionari israeliani. Non sono solo nemici della verità, ma anche nemici dei giornalisti che svolgono il vero lavoro di cronaca di guerra.
Nel frattempo, i due fotografi e io fummo arrestati e picchiati dalla polizia militare saudita infuriata, furiosa perché avevamo documentato la fuga in preda al panico delle forze saudite, mentre cercavamo di lasciare Khafji.
A funeral for Palestine TV correspondent Mohammed Abu Hatab. Hatab was killed, along with his family members, in an airstrike on his home in Khan Yunis, Gaza. (Photo by Abed Zagout/Anadolu via Getty Images)
Il mio rifiuto di rispettare le restrizioni imposte alla stampa durante la prima guerra del Golfo ha spinto gli altri giornalisti del New York Times in Arabia Saudita a scrivere una lettera al redattore estero dicendo che stavo rovinando i rapporti del giornale con l’esercito. Se non fosse stato per l’intervento di R.W. “Johnny” Apple, che aveva seguito la guerra del Vietnam, sarei stato rimandato a New York.
Non biasimo nessuno per non voler andare in una zona di guerra. È un segno di normalità. È razionale. È comprensibile. Quelli di noi che si offrono volontari per andare in combattimento – il mio collega Clyde Haberman del New York Times una volta ha scherzato dicendo: “Hedges si paracaduterà in guerra con o senza paracadute” – hanno evidenti difetti di personalità.
Ma biasimo coloro che fingono di essere corrispondenti di guerra. Fanno danni enormi. Diffondono false narrazioni. Mascherano la realtà. Fungono da propagandisti consapevoli o inconsapevoli. Screditano le voci delle vittime e scagionano gli assassini.
Quando ho coperto la guerra in El Salvador, prima di lavorare per il New York Times, la corrispondente del giornale ripeteva diligentemente tutto ciò che le veniva fornito dall’ambasciata. Questo ha avuto l’effetto di far dubitare i miei redattori – così come i redattori degli altri corrispondenti che hanno riportato la guerra – della nostra veridicità e “imparzialità”. Ha reso più difficile per i lettori capire cosa stava succedendo. La falsa narrazione ha neutralizzato e spesso sopraffatto quella reale.
La calunnia usata per screditare i miei colleghi palestinesi – sostenendo che sono membri di Hamas – è tristemente familiare. Molti giornalisti palestinesi che conosco a Gaza sono, in realtà, piuttosto critici nei confronti di Hamas. Ma anche se avessero legami con Hamas, che importanza avrebbe? Il tentativo di Israele di giustificare gli attacchi contro i giornalisti della rete mediatica al-Aqsa, gestita da Hamas, è anche una violazione dell’articolo 79 della Convenzione di Ginevra.
Ho lavorato con giornalisti e fotografi che avevano una grande varietà di convinzioni, compresi marxisti-leninisti in America Centrale. Ciò non impediva loro di essere onesti. Ero in Bosnia e in Kosovo con un cameraman spagnolo, Miguel Gil Moreno, che in seguito è stato ucciso insieme al mio amico Kurt Schork. Miguel era membro del gruppo cattolico di destra Opus Dei. Era anche un giornalista di grande coraggio, grande compassione e probità morale, nonostante le sue opinioni sul dittatore fascista spagnolo Francisco Franco. Non mentiva.
La copertina del libro di Chris Hedges tradotto il italiano
In ogni guerra che ho coperto, sono stato attaccato perché sostenevo o appartenevo a qualsiasi gruppo il governo, compreso quello statunitense, cercasse di schiacciare. Sono stato accusato di essere uno strumento del Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí in El Salvador, dei sandinisti in Nicaragua, dell’Unità Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca, dell’Esercito di Liberazione Popolare Sudanese, di Hamas, del governo musulmano in Bosnia e dell’Esercito di Liberazione del Kosovo.
John Simpson della BBC, come molti giornalisti occidentali, sostiene che “il mondo ha bisogno di reportage onesti e imparziali da testimoni oculari per aiutare le persone a farsi un’idea sulle questioni importanti del nostro tempo. Finora questo è stato impossibile a Gaza”.
L’ipotesi che se i giornalisti occidentali fossero a Gaza la copertura migliorerebbe è ridicola. Credetemi. Non sarebbe così.
Israele vieta l’accesso alla stampa straniera perché in Europa e negli Stati Uniti c’è un pregiudizio a favore delle notizie riportate dai giornalisti occidentali. Israele è consapevole che la portata del genocidio è troppo vasta perché i media occidentali possano nasconderla o oscurarla, nonostante tutto l’inchiostro e lo spazio che dedicano agli apologeti israeliani e statunitensi. Israele non può nemmeno continuare la sua campagna sistematica di annientamento dei giornalisti a Gaza se deve fare i conti con i media stranieri presenti sul posto.
Le menzogne israeliane amplificate dai media occidentali, compreso il mio ex datore di lavoro, il New York Times, sono degne della Pravda. Bambini decapitati. Bambini cotti nei forni. Stupri di massa da parte di Hamas. Razzi palestinesi vaganti che causano esplosioni negli ospedali e massacrano civili. Tunnel segreti e centri di comando nelle scuole e negli ospedali. Giornalisti che dirigono le unità missilistiche di Hamas. Manifestanti contro il genocidio nei campus universitari che sono antisemiti e sostenitori di Hamas.
Ho seguito il conflitto tra palestinesi e israeliani, per lo più a Gaza, per sette anni. Se c’è un fatto indiscutibile, è che Israele mente come respira. La decisione dei giornalisti occidentali di dare credibilità a queste menzogne, di attribuire loro lo stesso peso delle atrocità israeliane documentate, è un gioco cinico. I giornalisti sanno che queste bugie sono bugie. Ma loro, e i mezzi di informazione che li impiegano, privilegiano l’accesso – in questo caso l’accesso ai funzionari israeliani e statunitensi – rispetto alla verità. I giornalisti, così come i loro redattori e editori, temono di diventare bersagli di Israele e della potente lobby israeliana. Non c’è alcun costo per tradire i palestinesi. Sono impotenti.
Denunciate queste menzogne e vedrete che le vostre richieste di briefing e interviste con i funzionari saranno rapidamente respinte. Non sarete invitati dagli addetti stampa a partecipare alle visite organizzate alle unità militari israeliane. Voi e la vostra testata giornalistica sarete oggetto di feroci attacchi. Sarete messi al bando. I vostri redattori vi licenzieranno o vi toglieranno l’incarico. Questo non fa bene alla carriera. E così, le menzogne vengono diligentemente ripetute, per quanto assurde.
È patetico vedere questi giornalisti e le loro testate, come scrive Fisk, lottare “come tigri per entrare a far parte di questi ‘pool’ in cui sarebbero censurati, limitati e privati di ogni libertà di movimento sul campo di battaglia”.
Quando i giornalisti di Middle East Eye Mohamed Salama e Ahmed Abu Aziz, insieme al fotoreporter di Reuters Hussam al-Masri e ai freelance Moaz Abu Taha e Mariam Dagga – che avevano lavorato con diversi media, tra cui l’Associated Press – sono stati uccisi in un attacco “double tap” – progettato per uccidere i primi soccorritori arrivati per curare le vittime dei primi attacchi – al Nasser Medical Complex, come hanno reagito le agenzie di stampa occidentali?
“L’esercito israeliano afferma che gli attacchi all’ospedale di Gaza hanno preso di mira quella che definisce una telecamera di Hamas”, ha riportato l’Associated Press.
“L’IDF sostiene che l’attacco all’ospedale fosse mirato alla telecamera di Hamas”, ha annunciato la CNN.
“L’esercito israeliano afferma che sei ‘terroristi’ sono stati uccisi lunedì durante gli attacchi all’ospedale di Gaza”, recitava il titolo dell’AFP.
“Le prime indagini indicano che la telecamera di Hamas era l’obiettivo dell’attacco israeliano che ha ucciso i giornalisti”, ha affermato Reuters.
“Israele sostiene che le truppe hanno visto la telecamera di Hamas prima del mortale attacco all’ospedale”, ha spiegato Sky News.
Per la cronaca, la telecamera apparteneva a Reuters, che ha affermato che Israele era “pienamente consapevole” che l’agenzia di stampa stava filmando dall’ospedale.
Quando il corrispondente di Al Jazeera Anas Al Sharif e altri tre giornalisti sono stati uccisi il 10 agosto nella loro tenda stampa vicino all’ospedale Al Shifa, come è stato riportato dalla stampa occidentale?
“Israele uccide un giornalista di Al Jazeera che secondo loro era un leader di Hamas”, titolava Reuters nel suo articolo, nonostante al-Sharif facesse parte di un team di Reuters che ha vinto il Premio Pulitzer 2024.
Il quotidiano tedescoBild ha pubblicato in prima pagina un articolo dal titolo: “Terrorista travestito da giornalista ucciso a Gaza”.
La raffica di menzogne israeliane amplificate e rese credibili dalla stampa occidentale viola un principio fondamentale del giornalismo, ovvero il dovere di trasmettere la verità al telespettatore o al lettore. Legittima il massacro di massa. Si rifiuta di chiedere conto a Israele delle sue responsabilità. Tradisce i giornalisti palestinesi, quelli che riportano le notizie e vengono uccisi a Gaza. E mette a nudo la bancarotta dei giornalisti occidentali, le cui caratteristiche principali sono il carrierismo e la codardia.
Chris Hedges*
*Christopher Lynn Hedges è un giornalista, scrittore ed ex corrispondente di guerra statunitense, specializzato in politica e società del Medio Oriente
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Dalla Tunisia pubblichiamo il contributo di un intellettuale
che conosce il Paese dal vivo.
Per motivi di sicurezza lo abbiamo chiamato John Doe.
Tra gli oppositori ci sono molte donne coraggiose,
avvocate, giornaliste, attiviste che lottano
contro i giri di vite del regime del presidente Kais Saied.
Non vogliono rinunciare alle libertà conquistate
e, per il loro impegno civile, vengono criminalizzate e incarcerate.
Speciale per Africa ExPress John Doe 3 settembre 2025
Scrivo queste righe con amarezza e sotto pseudonimo. Vivo da molti anni in Tunisia, un Paese che amo profondamente e dove ogni giorno ascolto nei caffè e nelle strade le voci della gente. Comprendo l’arabo e colgo il malcontento diffuso e la paura che si respira.
Oggi chiunque osi esprimere un’opinione che contrasti, anche lontanamente, con la linea del regime del presidente Kais Saied rischia grosso: processi, prigione, isolamento. Non si tratta di fantasia, ma della vita reale di avvocate, giornaliste, attiviste che hanno avuto il coraggio di parlare.
Tunisia, manifestazione di protesta “Libertà per tutti i prigionieri politici” dice la scritta in arabo
La Tunisia ha rappresentato a lungo un faro di emancipazione, soprattutto per le donne. Il 13 agosto del 1956 fu promulgato il Codice dello Statuto Personale, che abolì la poligamia, introdusse il matrimonio civile e il diritto al divorzio. Fu una rivoluzione nel mondo arabo.
Bourguiba, padre fondatore della Repubblica, voleva donne istruite, libere, parte attiva dello sviluppo nazionale. Per decenni, la Tunisia ha incarnato l’immagine di un Paese moderno, aperto, progressista.
L’impegno civile è criminalizzato
Ma oggi, in Tunisia, la Festa della Donna si celebra tra le mura delle carceri. Abir Moussi, leader all’opposizione del Partito Desturiano Libero, è in carcere dal 2023 per accuse gravissime, condannata a due anni di prigione. La giornalista Chadha Hadj Mbarek, critica contro il governo, aveva fatto dell’informazione un servizio pubblico, è stata condannata a cinque anni.
L’avvocata e opinionista Sonia Dahmani, voce critica e indipendente, è rinchiusa nel carcere femminile di Manouba. A loro si aggiungono attiviste come Imen Ouardani, Sherifa Riahi, Saloua Ghrissa, Saadia Mosbah.
Sono tutte accusate di reati infamanti, ma in realtà punite per aver difeso i più vulnerabili, per non aver accettato di tacere. La Tunisia del 2025 è un Paese dove l’impegno civile è criminalizzato e dove l’azione umanitaria viene perseguita.
Tunisia, la giornalista Chadha Hadj Mbarek e Abir Moussi, leader del Partito Desturiano Libero
Questa deriva autoritaria si intreccia a una crisi economica che logora la vita quotidiana. Dal 2011, dopo la cacciata di Ben Ali, la situazione non ha fatto che peggiorare. Lo ripetono molti tunisini: “Ben Ali era un ladro, ma almeno si viveva meglio”.
Inflazione e disoccupazione
Oggi inflazione e disoccupazione divorano le speranze. Nei negozi e nei mercati mancano spesso beni essenziali e le famiglie faticano ad arrivare a fine mese. La rabbia cresce, ma viene repressa. Chi protesta viene schedato, chi parla rischia di sparire dalle strade per ricomparire davanti a un tribunale.
Non posso tacere
Io non posso tacere. Da straniero ho il privilegio della distanza, ma non l’immunità: vivo qui e scrivere queste parole comporta un rischio. Per questo le firmo con uno pseudonimo. Lo faccio perché credo che la libertà di parola non sia un lusso, ma un diritto universale che riguarda tutti noi. Lo faccio perché so che il silenzio, in queste condizioni, diventa complicità.
La Tunisia non è soltanto un Paese in crisi, ma una società che rischia di spegnere la propria anima. Eppure, la sua storia è fatta anche di dignità e di coraggio. Oggi come ieri, le donne tunisine restano protagoniste, pagano il prezzo più alto ma continuano a incarnare la speranza di una nuova Primavera.
All’esercitazione partecipa anche l’Italia.
Ne ha dato notizia un giornale israeliano. Ripubblichiamo
il suo articolo che va letto
con attenzione specie nell’ultima parte.
dal quotidiano israeliano Shaharit
Tel Aviv, 2 settembre 2025
Il Comando Centrale degli Stati Uniti, CENTCOM, e l’Autorità di Addestramento delle Forze Armate Egiziane stanno partecipando nell’ultima settimana e mezza, a un’esercitazione congiunta con altri 44 Paesi.
L’esercitazione si è aperta con una cerimonia formale presso la base militare di Mohammed Naguib in Egitto. Il Comando Centrale degli Stati Uniti ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “l’esercitazione è una chiara dimostrazione dell’impegno costante degli Stati Uniti a cooperare con le Forze Armate egiziane e altri Paesi per garantire la sicurezza reciproca”.
Tra gli altri, partecipano all’esercitazione militare i seguenti Paesi: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Grecia, India, Pakistan, Giordania, Regno Unito e Italia.
L’esercitazioneBright Star si è tenuta per la prima volta nel 1980 ed è considerata una delle più antiche e significative esercitazioni militari multinazionali nella regione.
Giunta alla sua diciannovesima edizione, l’esercitazione si svolge dal 28 agosto al 10 settembre 2025. partecipano 44 nazioni, e tra gli altri circa 1.500 militari statunitensi.
L’addestramento comprende esercitazioni di guerra convenzionale e irregolare, esercitazioni di comando e controllo, addestramento sul campo e pianificazione integrata di task force congiunte.
L’esercitazione comprenderà anche seminari accademici, operazioni di comando e controllo e un simposio di leader senior per promuovere il dialogo strategico. “Bright Star 25 riflette la profonda fiducia e la continua cooperazione tra Stati Uniti ed Egitto, nonché il nostro impegno comune per la stabilità regionale”, ha dichiarato l’ammiraglio Brad Cooper, comandante del CENTCOM.
“Quest’anno, oltre 40 nazioni partner si uniscono a noi, impegnate ad affinare le proprie capacità di combattimento attraverso scenari impegnativi e integrati. La capacità di unire forze così numerose, con capacità che vanno oltre i domini e i confini, sottolinea la solidità delle relazioni costruite nel corso di decenni e la fiducia che i nostri partner forniscono lavorando a stretto contatto con le forze statunitensi per soddisfare le complesse esigenze di sicurezza odierne”.
L’esercitazione, che le forze armate statunitensi stanno conducendo insieme a quelle egiziane, potrebbe indicare stabilità in termini di sicurezza per l’Egitto.
Negli ultimi mesi, sono emerse diverse inquietanti segnalazioni di armamenti egiziani insoliti e di un’intensa attività militare nella regione del Sinai, con affermazioni secondo cui gli egiziani stanno violando l’accordo di pace con Israele e potrebbero prepararsi a uno scontro con esso.
Un’esercitazione guidata dagli Stati Uniti con l’esercito egiziano e decine di altri Paesi mostra la profondità delle relazioni tra le forze armate statunitensi ed egiziane.
Ciò è ancora più importante date le tensioni politiche tra Egitto e Stati Uniti, poiché il presidente egiziano continua a visitare la Casa Bianca per timore che Trump eserciti pressioni affinché assorba Gaza nel suo territorio”.
Shaharit
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Africa Express e il quotidiano online gemello, Senza Bavaglio, hanno scelto senza alcun indugio di aderire e sostenere l’iniziativa lanciata da Reporters Sans Frontières, dal sito Avaaz e dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti di chiedere con decisione al governo israeliano di fare entrare i giornalisti a Gaza.
Da oggi, ogni giorno, sulle home page delle nostre testate verrà pubblicato un richiamo ai giornalisti uccisi a Gaza mentre espletavano il loro lavoro di testimoni. Stigmatizziamo le volgari e pretestuose accuse di Israele secondo cui i nostri colleghi erano terroristi di Hamas.
I nostri due quotidiani saranno presenti alla manifestazione indetta dalla Cgil per Gaza in programma in parecchie piazze italiane, sabato 6 settembre, cui hanno aderito anche la Federazione Nazionale della Stampa e l’Associazione Lombarda dei Giornalisti.
Ci associamo alle dichiarazioni di Alessandra Costante, segretaria generale della Federazione nazionale della Stampa Italiana (FNSI): “Quanto sta accadendo nella Striscia non è solo la mattanza di giornalisti, ma è l’uccisione di un popolo: fra le vittime del massacro ci sono anche migliaia di bambini e per questo è giusta, corretta e necessaria una mobilitazione di tutta la società e non soltanto di una parte”.
Anche il sindacato dei giornalisti della Lombardia (ALG) si unisce alla Cgil nel chiedere che “si fermi la barbarie in corso” e che il governo italiano “si schieri dalla parte della pace, della giustizia e del diritto internazionale”.
Come giornalisti di Africa ExPress e di Senza Bavaglio invitiamo i colleghi e le colleghe a manifestare la propria solidarietà in nome della libertà di stampa e dei diritti umani.
La KoBold Metals ha ottenuto i diritti di esplorazione nella Repubblica Democratica del Congo. La società americana, sostenuta dai multimiliardari Jeff Bezos , patron di Amazon, e Bill Gates, tra gli altri co-fondatore di Microsoft nel 1975, si è aggiudicata 7 licenze di esplorazione per il litio altri minerali critici.
Il sottosuolo della ex-colonia belga è ricchissimo di minerali. Si posiziona al primo posto a livello mondiale per l’estrazione del cobalto, è in seconda posizione per quanto riguarda il rame e ha inoltre vaste riserve di litio e tantalio.
Primo accordo siglato a luglio
Un primo accordo con la società statunitense è stato siglato già a fine luglio con le autorità congolesi. Qualche giorno fa la KoBold Metals si è aggiudicata altre sette licenze per l’esplorazione di litio.
Congo-K: Manono Roche Dure, miniera di litio
Dal registro minerario del Congo-K si evince che le concessioni riguardano terreni situati nelle province di Tanganyika e Haut-Lomami, tra cui quattro nel territorio di Manono, dove si trova anche l’immenso giacimento di litio di Roche Dure.
L’accordo con KoBold è strategico per Kinshasa, perché è un primo passo per attrarre capitali e tecnologie occidentali nel settore dei minerali critici. Sperano di ridurre così la loro dipendenza dalle aziende cinesi che attualmente dominano gran parte della produzione di cobalto e rame nel Paese.
Jeff Bezos e Bill Gates
La Kobold, fondata nel 2018 e sostenuta da Breakthrough Energy Ventures, annovera tra i suoi investitori Bezos, Gates e la società di venture capital Andreessen Horowitz. L’azienda promuove l’uso dell’intelligenza artificiale (AI) e di tecnologie informatiche avanzate per accelerare la ricerca di rame, cobalto, nichel e litio.
In base all’accordo quadro siglato a luglio con Kinshasa, la KoBold, con sede in California, si è impegnata a lanciare un programma di esplorazione su larga scala.
Africa Museum Bruxelles
L’azienda americana vorrebbe digitalizzare i documenti geologici, risalenti per lo più all’era coloniale e conservati presso l’Africa Museum a Bruxelles. La KoBold desidera renderli accessibili al pubblico attraverso il Servizio Geologico Nazionale della Repubblica Democratica del Congo.
Africa Museum, Bruxelles
Il fatto sta causando un certo imbarazzo in Belgio, visto che è già in corso un progetto di digitalizzazione di tali archivi a fini di ricerca, sostenuto da finanziamenti dell’UE.
Pretese di società australiana
Kinshasa ha assegnato alla società statunitense una licenza a Manono, contestata però da un’azienda di esplorazione mineraria australiana, precisando di essere ancora titolare del permesso. La AVZ Minerals (ASX:AVZ), attraverso la sua joint venture locale Dathcom Mining, ha portato il caso davanti al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti.
L’anno scorso, il tribunale aveva emesso misure provvisorie, ordinando al Congo-K di riconoscere i diritti di AVZ in attesa di una sentenza definitiva. La società australiana ha ora sottolineato che la licenza concessa alla KoBold, coprirebbe parti dello stesso perimetro e violerebbe l’ordinanza della Corte.
La guerra nell’est non si placa
E mentre i miliardari Bezos e Gates tentano la loro scalata economica in Congo-K, la gente continua a morire nell’est del Paese. Malgrado trattati e dialoghi di pace la guerra infuria ancora tra AFC/M23 e le forze armate congolesi e i loro alleati Wazalendo (milizia patriottica).
Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), durante la sua visita nel Paese nei giorni scorsi, ha visitato alcuni abitanti di Saké (che dista una ventina di chilometri da Goma, capoluogo del Nord-Kivu). Sono ex sfollati, appena ritornati a casa. Grandi ha fatto presente che vivono in capanne nella miseria più totale e senza assistenza alcuna.
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Dal Nostro Esperto di Questioni Militari Antonio Mazzeo
31 agosto 2025
Mentre in Marocco si moltiplicano le manifestazioni popolari contro il genocidio del popolo palestinese a Gaza, si consolida la partnership tra le forze armate di Rabat e le industrie belliche israeliane.
Nei giorni scorsi nella regione orientale del Paese, l’esercito ha testato il nuovo missile supersonico “Extra” prodotto da Elbit Systems Ltd, una delle maggiori aziende del settore aerospaziale di Israele, con quartier generale ad Haifa.
Modernizzazione apparato militare
Le esercitazioni con l’uso dei missili “Extra” sono state pianificate nell’ambito del programma di modernizzazione dell’apparato militare. Fonti delle forze marocchine hanno spiegato che questo sistema d’arma consentirà di rafforzare le capacità di strike in profondità.
Elbyt Systems: missile EXTRA a lunga gittata
Gli “Extra” sono razzi di artiglieria da 306 mm; possono trasportare testate esplosive da 120 chilogrammi e colpire centri di comando e comunicazione, installazioni logistiche e infrastrutture di trasporto, fino a 150 chilometri di distanza.
“Il sistema missilistico è particolarmente efficace nelle operazioni in territorio urbano ma consente di svolgere missioni con accuratezza e successo in anche in altri diversi ambienti”, spiegano con enfasi i manager di Elbit Systems.
Il test degli “Extra” sono stati svolti dall’esercito con l’impiego del sistema lanciarazzi PULS (Precise and Universal Launching System) recentemente acquisito dall’azienda israeliana con un contratto di 150 milioni di dollari. Oltre agli “Extra” il sistema PULS può lanciare anche i Predator Hawk, con calibro da 370 mm e un raggio operativo fino a 300 chilometri, accrescendo significativamente la flessibilità operativa delle forze armate marocchine.
Rafforzare rapporti con Israele
“Con il test dei nuovi missili si invia un chiaro messaggio non solo di tipo militare ma anche geopolitico”, riporta la testata specializzata Israel Defense. “Inoltre, questo rappresenta un altro step nel rafforzamento dei legami nel campo della sicurezza e diplomatici tra il Marocco ed Israele dopo il rinnovo delle relazioni tra Rabat e Tel Aviv nel 2020”.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, (a sinistra) e il re del Marocco, Muhammad VI
Negli scorsi mesi le autorità militari marocchine avevano sottoscritto con Elbit Systems pure un contratto per la fornitura di 36 semoventi ruotati di artiglieria ATMOS(Autonomous Truck MountedHowitzer System)da 155 mm.
“L’ATMOS è un sistema molto flessibile che consente di installare cannoni da 105 mm e 155/39 – 155/52 mm su telai di diversa provenienza, con cabina blindata per la protezione di equipaggio ed artiglieri”, riporta Ares Difesa.
I sistemi di artiglieria ATMOS sono dotati di sofisticati apparati computerizzati di comando e controllo del fuoco che consentono il caricamento automatico in grado di erogare fino ad 8 colpi al minuto ed ingaggiare bersagli entro un raggio di circa 40 chilometri.
I semoventi possono ospitare da due a sei militari di equipaggio. Gli ATMOS sono avio trasportabili da velivoli come i C-130 “Hercules” prodotti dal colosso statunitense Lockheed Martin.
Speciale per Africa ExPress Francesco Casillo
Agosto 2025
Lo scorso 15 Giugno Papa Leone XIV durante l’Angelus domenicale ha dedicato una preghiera alla strage di 200 cristiani in Nigeria. E la cosa ha spiazzato non poco gli osservatori perché nessun notiziario aveva parlato del Paese africano nei giorni precedenti. E neanche in quelli successivi.
Il villaggio dove c’è stato il massacro si trova nello Stato del Benue. Non ci sono state avvisaglie di ciò che stava per accadere. Il gruppo di killer si era appostato nella foresta adiacente. Il governatore Caleb Muftwang ha parlato di “genocidio”. E lo ha fatto perché lo scorso aprile erano state massacrate altre 55 persone. E molte altre ancora prima. Dal 2018 ad oggi massacri continui.
Nigeria, Benue State Allevatori fulani contro agricoltori
Secondo il presidente nigeriano Bola Tinubu, la misura è colma. Ma la radice del problema è nota da anni. Dal 2023 al 2025 oltre 1000 persone sono state uccise allo stesso modo nel solo stato del Benue.
Capo tradizionale
Rivolgendosi a Tinubu, il capo tradizionale James Ayate ribadisce: “Non è un conflitto pastori-agricoltori, non è uno scontro tra comunità, non sono schermaglie o vendette trasversali, è una invasione genocida pianificata e calcolata oltre ad una operazione che dura da decenni per accaparrarsi nuovi pascoli”.
Ed il riferimento va dritto agli estremisti fulani che occupano villaggi interi cacciano i contadini con la forza.
Etnia presente in tutto il nord della Nigeria, i fulani hanno peso politico e militare ma non un proprio territorio essendo originari delle tribù nomadi del Sahel che praticano la transumanza.
Il gruppo terroristaFulani Ethnic Militia (FEM) ha mietuto oltre 36.000 vittime tra il 2019 ed il 2024 e causato oltre 500.000 sfollati. Secondo alcune fonti, cinque volte le vittime di Boko Haram, classificato come tra i 5 gruppi terroristi più pericolosi al mondo, la FEM agisce quasi indisturbata godendo di forti protezioni politiche negli stati nel Nord est della Nigeria.
Patto con i terroristi
Le comunità agricole cristiane dello stato di Kaduna hanno accusato apertamente il governatore Uba Sani di aver stretto un patto con i terroristi per sradicare le loro comunità e permettere l’insediamento dei fulani provenienti dalle aride regione del Sahel.
Ad oggi 2.316 miglia quadrate sono state sottratte agli agricoltori e vengono controllate dalla milizia Fulani sotto lo sguardo delle autorità locali e federali.
Accuse che trovano conferma anche nella strage nel Benue. Le 200 persone sono state uccise a pochi passi da una postazione militare installata proprio per proteggere le comunità. I soldati non hanno fatto nulla né quando gli assalitori si sono nascosti per giorni nei dintorni, né durante l’attacco quando alcuni abitanti erano riusciti a raggiungere la postazione per chiedere aiuto.
Franc Utoo, un giovane avvocato residente in uno dei villaggi attaccati racconta: “Sapevamo che quella notte avrebbero attaccato il nostro villaggio […], avevamo avvisato le forze dell’ordine ma non è successo niente. A causa dell’attacco tutti si erano riuniti a dormire nelle scuole, nelle chiese e nei mercati: sarebbe stato pericoloso restare divisi soprattutto per chi abitava in luoghi isolati. Quando gli assalitori sono arrivati i nostri giovani hanno provato a respingerli ma loro hanno puntato ai luoghi dove ci eravamo raccolti. Ecco perché ci sono così tanti resti ammassati”.
Ad oggi il governo nigeriano ha creato diverse task force per contrastare gli attacchi ai villaggi. Ma le comunità locali lamentano il fatto che i politici parlino di “banditi” invece di ammettere come sostiene la gente del posto che c’è uno scopo politico dietro la mattanza di decine di migliaia di contadini.
In Nigeria i riflettori sono tutti puntati sui terroristi di Boko Haram, che da anni cercano di creare un califfato a ridosso del confine con il Niger mietendo migliaia di vittime. Ma i numeri indicano nella milizia fulani un soggetto di gran lunga più pericoloso e letale che meriterebbe di certo una attenzione maggiore.
Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
29 agosto 2025
“Shine on you, crazy diamond”, continua a brillare pazzo diamante… Lo si potrebbe dire, con le parole dei Pink Floyd, di Faith Cherotich. Ma anche di Emmanuel Wanyonyi, di Nelly Chepchirchir e di Fantaye Belayneh.
Sono i giovani atleti (tre kenyani e un’etiope) che hanno illuminato il celebre stadio ovale Letzigrund di Zurigo nella piovosa serata di giovedì 28 agosto.
la kenyana Feith Cherotich prima classificata nel 3000 siepi
Feith Cherotich, 21 anni, già vincitrice della medaglia di bronzo ai campionati mondiali 2023 e ai Giochi Olimpici 2024 di Parigi nei 3000 siepi, ha dominato letteralmente una gara corsa in solitario, durante il Weltklasse Zurich 2025.
Emmanuel Wanyonyi, pure 21enne, si è imposto sugli 800 metri.
Nelly Chepchirchir, 22 anni, ha bruciato all’ultimo metro due australiane sui 1500.
L’etiope Fantaye Belayneh, 25 anni, ha anticipato due rivali americane sui 3 mila metri femminili. Una vittoria tintasi di giallo: inizialmente l’oro, infatti, era stato assegnato alla sua giovanissima connazionale Aleshing Baweke, 19 anni, giunta in realtà quinta. All’origine dell’errore, il fatto che entrambe avessero gareggiato con un pettorale identico!
Successo degli africani
Insomma l’Africa dell’Atletica Leggera è tornata a casa dalla Svizzera con un carico di diamanti, ma anche con qualche… zircone, a 15 giorni dai campionati mondiali di Tokyo (13-21 settembre).
La Weltklasse Zurich 2025 è la 97a edizione del meeting di Atletica leggera che si celebra nella città elvetica. Si tratta della quindicesima e ultima tappa del massimo circuito internazionale itinerante, noto come Wanda Diamond League.
Il sito ufficiale dichiara con fierezza che dal “1928 la Weltklasse Zurich si è affermata come l’evento di atletica leggera più prestigioso della durata di un giorno“ (in realtà dura due giorni).
I vincitori di questo capitolo conclusivo hanno conquistato il prestigioso diamante da 4 carati (valore 80 mila dollari), più un assegno di 8 mila dollari.
E qualche delusione
Ma non tutto è stato luccicante per gli atleti africani: nei 1500 metri maschili hanno subito un’amara lezione proprio i keniani: ben tre (Reynold Cheruyot, 21, Phanuel Koech,18, e Timothy Cheruiyot, 29) si sono classificati in successione alle spalle dell’olandese Niels Laros, 20.
Amarezza “neras” anche sui 100 e 200 metri piani: il sudafricano Akani Simbine,31 anni, è stato sconfitto (per un centesimo(!) dallo statunitense Christian Coleman, 29 anni. E sui 200 metri, il campione olimpico Letsile Tebogo, 22 anni, del Botswana, è stato beffato da un’altro americano, Noah Lyles, 28 anni.
Zurigo, Svizzera: lo stadio Letzigrund
Comunque, “Brillano i diamanti e per l’Atletica mondiale è tempo di finali” , ha commentato Olympics.com parlando di questo ultimo grande appuntamento prima dei mondiali giapponesi di settembre.
Un evento, questo elvetico, profondamente sentito e radicato tanto che anche quest’anno c’è stato il tutto esaurito nonostante il meteo inclemente.
dal quotidiano israeliano Lechathila
Gerusalemme, 28 agosto 2025
La stragrande maggioranza di coloro che si sono registrati per l’operazione sono ultra-ortodossi. Le giornate di reclutamento si terranno la prossima settimana
Martedì alle 00:00 si è conclusa l’operazione di amnistia delle IDF (Israel Defence Forces, l’esercito israeliano) per disertori e renitenti alla leva, prorogata di altri cinque giorni rispetto alla data originariamente fissata per il 21 agosto.
Durante l’operazione, circa 250 disertori si sono registrati per l’operazione di regolarizzazione, di cui circa 120 nei primi tre giorni.
Dei 250 registrati, il numero è stato distribuito come segue: circa 180 provenivano dal settore haredi, un numero relativamente significativo tra i disertori haredi, che ammontano a circa 4.500.
Ebrei ultraordossi, Israelel
Al contrario, circa 80 disertori si sono registrati dal settore generale, su circa 10.000 disertori totali. Tuttavia, le IDF affermano che solo 180 di coloro che si sono registrati si arruoleranno effettivamente alla fine, dopo l’esame e l’adeguamento.
Nell’ambito dell’operazione straordinaria, svoltasi dal 17 al 26 agosto, le IDF hanno offerto un’ultima possibilità ai renitenti alla leva e ai disertori che non avevano ancora iniziato il servizio nell’esercito di arruolarsi senza una pena detentiva o di detenzione.
La registrazione è stata effettuata tramite un modulo digitale inviato via SMS direttamente ai renitenti alla leva e ai disertori, oppure tramite i call center speciali dell’unità Meitav istituiti a tale scopo.
Gli iscritti potranno partecipare a due giornate di reclutamento centralizzate la prossima settimana, durante le quali saranno sottoposti a un processo di reclutamento abbreviato e unico.
Durante queste giornate di reclutamento speciali, i coscritti riceveranno una panoramica completa del servizio nelle IDF e saranno assegnati a una varietà di incarichi militari.
Il processo accelerato ed eccezionale includerà tutte le consuete fasi di reclutamento e selezione – test di idoneità fisica, test psicotecnici, visite mediche e selezioni professionali – ma invece del consueto processo che dura circa due anni dal momento in cui viene ricevuto il primo ordine fino all’arrivo alla base di addestramento, tutto avverrà lo stesso giorno e, al termine, le reclute si recheranno direttamente alle basi di addestramento.
L’operazione eccezionale è stata condotta sullo sfondo della guerra prolungata e su più fronti in corso dal 7 ottobre e dell’urgente necessità di aumentare il numero totale di truppe in tutte le formazioni militari.
Nella realtà di una guerra su più fronti contemporaneamente – Gaza, Libano, Giudea e Samaria, e altri fronti – le IDF si trovano ad affrontare sfide di personale ed è necessario aumentare il numero di soldati effettivamente in servizio.
Come spiegato dalle IDF in una dichiarazione ufficiale: “Dal 7 ottobre a oggi, lo Stato di Israele è stato coinvolto in una guerra intensa e su più fronti. L’attuale situazione di sicurezza richiede un aumento del numero totale di truppe, e pertanto le IDF stanno intensificando le azioni di contrasto nei confronti di coloro che non hanno adempiuto al proprio dovere e si sono presentati per il servizio militare”.
L’operazione è stata inoltre caratterizzata da un approccio pragmatico da parte delle IDF, consapevoli del fatto che alcuni renitenti alla leva e disertori hanno evitato di arruolarsi in passato a causa delle preoccupazioni relative alle conseguenze legali.
L’operazione è progettata per rimuovere queste barriere e ampliare la base di reclute, offrendo al contempo una seconda possibilità a coloro che desiderano correggere il proprio status.
Il messaggio trasmesso dalle IDF è che chiunque dimostri un genuino desiderio di arruolarsi immediatamente e sia qualificato per farlo potrà regolarizzare il proprio status senza arresto o detenzione.
Tuttavia, le IDF hanno chiarito che l’operazione non ha modificato la politica generale nei confronti di disertori e renitenti alla leva.
Dopo la conclusione dell’operazione ieri a mezzanotte, le IDF torneranno alla loro politica abituale: i disertori saranno catturati, processati e incarcerati come consuetudine fino ad ora e, in pratica, si prevede addirittura un aumento delle sanzioni.
La condizione principale per coloro che si registrano per l’operazione è di svolgere regolarmente il servizio militare senza assenze, diserzioni o richieste di esenzione. Solo il rispetto di questa condizione consentirà la conclusione definitiva del procedimento legale in questione.
L’assenza di coloro che si sono registrati fino alla data di segnalazione, senza effettivo arresto o pena detentiva. L’operazione mira quindi non solo ad aumentare il numero di reclute, ma anche a garantire che si tratti di un reclutamento di qualità di persone che intendono sinceramente servire e contribuire all’esercito e alla sicurezza dello Stato.
Quotidiano ultraordosso “Lechathila”
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