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Uganda: turisti fatti a pezzi con i machete nel santuario dei gorilla

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
3 marzo 1999

Gli estremisti hutu, responsabili nel 1994 del genocidio di 800 mila tutsi e hutu moderati in Ruanda, hanno messo mano di nuovo alla loro arma preferita, il machete. Ieri otto turisti occidentali (4 britannici, 2 americani e 2 neozelandesi), rapiti nel parco di Bwindi in Uganda, sono stati mutilati e massacrati con i lunghi coltellacci. Si trattava di quattro uomini e quattro donne: una di esse, prima di essere uccisa, è stata violentata.

“Quella che si è presentata alle squadre di soccorso – racconta il quotidiano Monitor di Kampala – è stata una scena raccapricciante: mani, braccia, gambe sparse dappertutto”. Gli hutu, i residui delle milizie estremiste interahamwe e dell’esercito ruandese, provenienti dalle loro basi in Congo, hanno assalito il campo di Bwindi all’alba di lunedì catturando 31 turisti, tra cui la numero due dell’ambasciata francese Anne Peltier e le sue due figlie. Gli ostaggi dapprima vengono spogliati.

“Un’ora dopo – racconta la diplomatica – ci ordinano di infilare le scarpe. Vogliono portarci via. Chiedo di vedere il capo. Ci parliamo in francese e gli spiego che la sua azione non serve a niente, che è meglio che ci lasci andare. Non ho negoziato, ma alla fine lui decide di liberare più di metà degli ostaggi, comprese molte donne e le mie bambine”.

I ribelli trattengono gli americani e i britannici, uomini e donne, più i neozelandesi. Gli hutu considerano statunitensi e inglesi acerrimi nemici. Li accusano di aver aiutato i tutsi, etnia rivale, a impadronirsi del potere in Ruanda nel 1994 e oggi di sostenere i ruandesi e gli ugandesi nella guerra contro il regime di Laurent Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo. Il commando quindi scappa, probabilmente per raggiungere il Congo da cui era venuto, con quattordici ostaggi. Ma l’esercito ugandese è già all’inseguimento.

Scoppia una battaglia. I ribelli, forse perché circondati, forse per vendetta, trucidano gli otto turisti utilizzando quei metodi raccapriccianti che li hanno resi famosi nel 1994, quando massacravano indistintamente uomini, vecchi inermi, donne incinte, ragazzini e bimbi in fasce: li fanno a pezzi con i machete. Sei, invece, vengono liberati dai soldati o nel caos riescono a fuggire. Questa versione è accreditata anche dall’ambasciatore inglese a Kampala Michael Cook. Qualcuno nella capitale sospetta invece che gli stranieri potrebbero essere rimasti colpiti durante la battaglia. Negli ambienti diplomatici di Kampala l’ipotesi che circola con più insistenza è quella di un’operazione terroristica commissionata da Kabila, il presidente della Repubblica Democratica del Congo. Le truppe ugandesi e ruandesi sono impegnate in Congo a sostegno dei ribelli che combattono il regime al potere a Kinshasa e in agosto, quando era scoppiata la rivolta, Kabila aveva annunciato rabbioso: “Porteremo la guerra a Kampala e a Kigali”.

Quindi aveva immediatamente invitato a Kinshasa i capi dei ribelli ruandesi hutu e di quelli ugandesi e li aveva riforniti di armi. L’ azione di ieri – è l’ipotesi dei diplomatici a Kampala – va inquadrata in questo piano. I guerriglieri sapevano che nel campo di Bwindi avrebbero trovato turisti bianchi e i loro mandanti intendevano screditare il governo ugandese (che si vanta di guidare un Paese stabile e in via di sviluppo) e portare un colpo al cuore al turismo del Paese nemico, fonte di cospicue entrate in valuta pregiata. Kabila ha combattuto contro le truppe hutu ruandesi, alleate del presidente Mobutu Sese Seko, nel 1996 – 1997 durante la sua trionfale avanzata alla conquista di Kinshasa. Aveva avuto ampie responsabilità nei massacri di civili hutu rifugiati nel Congo, l’allora Zaire.

Ma a quel tempo i suoi protettori erano quei ruandesi e ugandesi oggi suoi nemici. I ribelli non erano finora mai riusciti a entrare in Uganda. Le loro azioni si erano limitate al confine e nell’agosto scorso quattro turisti erano stati sequestrati (uno rilasciato, tre sono ancora prigionieri). Bwingi è per i visitatori la base di partenza per le escursioni nella cosiddetta Foresta Impenetrabile, dove vivono quasi 300 esemplari di gorilla di montagna, i primati con i comportamenti più simili all’uomo. Quadrumani della stessa famiglia sono presenti anche sui versanti ruandese e congolese dello stesso massiccio montuoso, ma a causa della guerra lì il turismo non è praticabile.

Fino a ieri la vacanza a Bwindi era richiestissima e per andarci occorreva prenotare un anno prima. L’escursione per vedere i gorilla costa (guida compresa) dai 120 ai 250 dollari (dalle 200 alle 400 mila lire circa), una cifra notevole per il governo ugandese che ne incassa una cospicua parte. Tre settimane fa il presidente del Wwf Italia, Fulco Pratesi, aveva visitato il parco ugandese e aveva partecipato alla cerimonia di gemellaggio con il Parco Nazionale d’Abruzzo. “Tutto era tranquillo, non c’erano guardie armate o particolari misure di sicurezza”, racconta Pratesi. Durante la sua visita era stato lanciato un logo comune alle due oasi: un gorilla di montagna seduto di fronte a un orso marsicano.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

 

Sudan: un Paese nel baratro

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Karthoum, 10 settembre 1998

“Lei che viene dall’Europa avrà sicuramente qualche birra in quella valigia. Invece di pagarmi la corsa, me ne regala una?”. Il tassista non ha ritegno, si chiama Mohammed, dal nome del profeta… “Si, sono musulmano”, spiega, “prego 5 volte al giorno, ma questo non c’entra niente col taglio della mano, la proibizione di bere alcol, l’islamizzazione forzata. Il Corano è tolleranza, pace, fratellanza, emancipazione sociale. Questo regime al potere qui a Khartoum lo interpreta in modo diverso e picchia duro. Lo fa solo per mantenere la gente nell’ignoranza e conservare il potere”. Mohammed ha 63 anni e si esprime con un ottimo inglese. Ha studiato in una scuola di comboniani, ai tempi del colonialismo. Come lui, la pensano tanti altri nella capitale sudanese.

Nel nostro Paese – dice sottovoce Osman, uno dei leader del movimento studentesco che ha organizzato dimostrazioni antigovernative all’Università di Khartoum (un morto, ucciso dalla polizia) – negli anni ’50 e ’60 s’era sviluppato il più grosso Partito comunista africano. La cultura laica e liberale è stata la base della crescita di una forte borghesia. Come può oggi la società accettare un ritorno alla sharia?”.

Osman teme gli agenti: “La sicurezza ha occhi ovunque, se mi vedono con un giornalista occidentale, mi sbattono in galera”. Ma tu preghi 5 volte al giorno? Scoppia una grossa risata. “Ci mancherebbe altro, però talvolta sono costretto a farlo. Vado in moschea perché controllino che sia un buon musulmano. Qui è tutto così. Anche chi si dichiara favorevole a un’applicazione più rigida della legge coranica, poi in privato la viola regolarmente”.

Un’affermazione grave, ma vera. Alla fine degli anni ’80 un colonnello della polizia, fustigatore di costumi (di giorno era così spregiudicato da cacciare in galera chi veniva colto a bere alcol), la sera si presentava di nascosto in camera mia all’Hilton, “for a little scotch“.

La legge islamica, basata sulle norme del Corano, viene imposta in Sudan alla fine degli anni ’70 dal dittatore Gafaar Nymeiri. Nymeiri, salito al potere nel ’69, aveva portato il Paese sulla strada di un vago socialismo, comunque rigorosamente laico. A metà percorso si era però “convertito” (forse temeva di fare la fine dello scià di Persia) e aveva chiamato i Fratelli Musulmani (una sorta di massoneria islamica, molto influente in Sudan) al potere.

Introdusse la sharia e chiuse la fabbrica di birra a Khartoum. Alleandosi con gli islamisti pensò di averla fatta franca e di aver allontanato il pericolo di un golpe e invece, nel 1985, un colpo di Stato ispirato dai Fratelli Musulmani lo depose.

I nuovi leader, convinti di godere della fiducia della maggioranza della popolazione, giocano la carta della democrazia. Nel 1986 il Fronte Nazionale Islamico perde invece clamorosamente le elezioni. Si afferma l’Umma party (Umma, in arabo, vuol dire madre) e il suo leader, Sadiq Al Mahadi, diventa Primo ministro. Questa volta è Sadiq a dover fare i conti con gli integralisti. Il suo primo impegno è chiudere la devastante guerra civile con il sud cristiano-animista. Ma i Fratelli Musulmani (guidati dal cognato del premier, Hassan Abdalla Al Turabi) si oppongono. Sadiq, tra il fuoco dei laici che sostengono il negoziato e quello degli integralisti fautori della guerra a oltranza, viene impallinato.

Il 30 giugno ’89 un colpo di Stato taglia le gambe alla giovane democrazia. Lo organizza, ancora una volta, Al Turabi che resta, come sempre, nell’ombra. Il nuovo presidente, Omar Al Bashir; dichiara di voler continuare la guerra con il sud fino alla totale sconfitta del nemico e ordina che la sharia sia applicata con maggiore severità. Comincia l’islamizzazione forzata delle popolazioni cristiano-animiste.

La fame – spiega un funzionario dell’Onu – è stata usata come un’arma. Il conflitto ha provocato cicliche carestie e la gente del sud ha continuato a soffrire. Il numero di persone morte in combattimento è di molto inferiore a quello dei civili uccisi dagli stenti”.

Lo scorso luglio il regime non s’è vergognato a utilizzare la fame come un’arma contro il suo popolo – racconta Bona Malwal, strenuo oppositore del regime e direttore ai tempi della democrazia del quotidiano filosudista Sudan Times -. Con una pubblica cerimonia nella Grande Moschea di Khartoum, 1600 vittime della carestia sono state convertite all’islam. Era presente tutta l’attuale leadership sudanese, che s’è vantata con i Paesi arabi di aver organizzato il più alto numero di conversioni in un sol giorno in tutto il mondo musulmano. La maggior parte di essi era arrivata a Khartoum dal sud, per sfuggire alla fame e alla guerra. Nei campi profughi il cibo veniva consegnato solo ai musulmani. Ecco come si spiegano certi cambiamenti di fede”.

Ma chi incontra Hassan Al Turabi non pensa a un fanatico. La barba bianca cortissima, ben curata, s’intona con il turbante e la jallabia (il camicione tipico sudanese) perfettamente stirata e le babbucce candide. Ciò che viene descritto come un violento antiamericano si limita a poche battute, anche se dense di disprezzo, sulla mancanza di cultura di quel popolo.

Hassan Al Turabi con Massimo Alberizzi durante un’intervista tre anni fa

Quando parla in una delle cinque lingue di cui è padrone, porta il discorso sulla Rivoluzione francese, sulla letteratura latina, sulla ricerca scientifica avanzata, sul ruolo delle religioni nel mondo, sull’importanza della parità tra uomo e donna e si tiene accuratamente lontano dai discorsi fondamentalisti. Un uomo decisamente affascinante, dai modi eleganti e raffinati, con cui si starebbe a chiacchierare per ore e ore.

“Mi dipingono come il diavolo, ma non sono il diavolo. E non sono vere le accuse rivolte al Sudan di aver coperto o addirittura aiutato il terrorismo”, spiega durante una pausa dei lavori del Parlamento di cui è presidente. “Gli americani non ci possono vedere perché non prendiamo ordini da loro. Il nostro è un paese islamico, ma non odiamo i cristiani. Anzi la sharia non si applica a loro”, mente poi spudoratamente. La legge coranica, si badi bene, non consiste solo nel divieto (tutto sommato innocente) di bere alcol, ma in altre regole socialmente più rilevanti: favorire nei posti di lavoro il credente islamico o impedire a una donna di assumere incarichi di alto livello..

I borghesi e gli intellettuali di Khartum lo odiano. Secondo Abdalla, un ingegnere vissuto una decina d’anni a Londra, “lui usa l’Islam per proprio tornaconto e mantenere intatto il suo potere. Nessuno in questo Paese è riuscito a limitare l’influenza dei Fratelli Musulmani. La loro è una sorta di mafia: vuoi un posto di lavoro? Iscriviti alla setta. Cerchi una casa? Altrettanto. Ecco perché quest’esplosione di Islam non è una cosa seria”.

Il regime comunque sembra ben saldo. Le buone amicizie nel mondo islamico non gli mancano e il conflitto nel sud, che pare destinato a durare all’infinito, non lo impensierisce più di tanto. I nemici esterni, Etiopia, Eritrea, Uganda e Congo Democratico, sono impegnati a farsi la guerra a vicenda. Che sia Islam di convenienza o di convinzione è difficile stabilirlo. Quello che è certo è che le conversioni più o meno forzate aumenteranno.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

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Khartoum: “Alla corte di Osama Bin Laden afghani, harem, condizionatori e paraboliche”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 26 agosto 1998

C’è una strada che conduce il terrorista Osama Bin Laden alla “Shifa”, la fabbrica di Khartoum rasa al suolo il 20 agosto dai missili americani perchè sospettata di produrre composti per armi chimiche. Anzi c’è una casa. Il direttore generale della società, Osman Salman, vive nella stessa villa dove, fino a un anno e mezzo fa, abitava Ben Laden, l’uomo accusato di aver organizzato gli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e a Dar es Salaam.

Una coincidenza? Forse. Però curiosa a Khartoum, città che conta 2 milioni d’abitanti. La palazzina si trova nel quartiere residenziale di Al Riad, vicino l’aeroporto, sulla 60esima strada, molto vicina all’ambasciata libica. Ben Laden ci abitava con tutta la sua corte: le guardie del corpo, gli impiegati delle società di cui è proprietario e i servitori. Ma non è la sola residenza che il “banchiere della morte” aveva affittato a suo tempo nel quartiere.

Poco più avanti, una trentina di metri, ce ne sono altre due, circondate dalla stessa recinzione. Lì era ospitato l’harem con le consorti, la servitù femminile, le cucine. Non sono edifici di lusso. Nessuno sfarzo in stile arabo – saudita. Ma si tratta di residenze molto eleganti se paragonate allo standard di vita sudanese: aria condizionata, enormi cisterne sui tetti, generatori d’emergenza (in Africa la corrente manca spesso), garage per auto e jeep, e una gigantesca antenna per captare le tv via satellite.

La casa in cui abitava Osama Bin Laden a Khartoum

All’inizio scovare la casa sembra difficile. Il tassista al quale chiedo di portarmi, si ferma candidamente davanti all’ambasciata libica e insiste: “E qui che abitava”. Si convince dell’errore solo dopo aver parlato con le guardie di Gheddafi, barricate all’interno della legazione e armate fino ai denti. Ma basta poi chiedere ai passanti, per avere indicazioni più precise. La presenza del terrorista, durata più o meno quattro anni, ha lasciato il segno. Ogni cosa, intorno alle sue case, ha preso nome da lui: via Ben Laden, piazza Ben Laden, caffetteria Ben Laden. A questa sorte non si è sottratta neppure la moschea dove pregava, il cui nome vero sarebbe Al Wattah. “La sua corte, tra mogli, figli, segretari, aiutanti e guardie del corpo, contava una sessantina di persone – raccontano alla moschea -. E comprendeva anche gente mutilata, senza gambe, piedi o mani. A vederli, si sarebbero detti reduci afghani. Lui si spostava a bordo di una Toyota Land Cruiser marrone, preceduta da un’altra vettura con cinque uomini di scorta, armati fino ai denti, ma in abiti civili. Tutta roba vietata in Sudan: chi non porta la divisa non può circolare con i mitra spianati”.

Le sue tre mogli (solo in seguito Osama ne avrebbe sposata una quarta), stando ai vicini, comparivano di rado ed erano coperte dalla testa ai piedi”. “Erano saudite, con la pelle candida – racconta la signora Fatima – e sono venute a casa mia per tenere lezioni sul Corano. Ci chiedevano di coprirci il volto, di non lasciare che gli uomini ci vedessero, di seguire regole rigidamente islamiche. Hanno capito che non eravamo in sintonia con loro e, dopo un po’ di insistenza, hanno lasciato perdere”.

Come si chiamassero le tre mogli resta un segreto: “Non usavano il loro nome, ma venivano chiamate con quello dei figli: Umma Abdallah (Umma vuol dire mamma in arabo, quindi la mamma di Abdallah), Umma Hamzas, Umma Khalid”. La matassa diventa ancora più intricata quando si chiede chi abitasse nella casa prima di Ben Laden e dell’attuale direttore della “Shifa”: uno jugoslavo, di cui nessuno ricorda il nome. Qualcuno che viene definito “costruttore di strade”, come il terrorista ricercato.

La gente del quartiere non amava la famiglia dello sceicco integralista: “Se sentivano il suono di una radio mandavano le guardie a chiederci di spegnere tutto. Si badi bene, non abbassare, ma spegnere, perché lui, Ben Laden, non voleva nemmeno lontanamente sentire la musica”. E poi: “La strada era bloccata giorno e notte dai servizi di sicurezza. Non si poteva passare e si era costretti a fare lunghi giri”.

Una precauzione necessaria dal 1994, dopo che un commando dell’organizzazione fondamentalista islamica Al Tafik Al Higra, probabilmente formato da quattro uomini, aveva tentato di ammazzare lo sceicco: “Assalirono la sua casa e quella delle mogli a colpi di mitra – racconta Ahmed, che all’epoca fu testimone oculare del mancato attentato – . Ci fu una vera e propria battaglia. I segni sono ancora sui muri. Rimasero a terra dei morti, ma furono portati via immediatamente perché gli abitanti della zona, che si erano chiusi in casa durante lo scontro, non potessero vederli”.

Nessuno, prima che Ben Laden salisse alla ribalta delle cronache, sospettava si trattasse di un terrorista. “Lo incontravo spesso in moschea e pregavamo assieme – racconta un signore vestito con una candida jallabia, il camicione sudanese che arriva fino alle caviglie, interrompendo le genuflessioni islamiche -. Non parlava di politica ma solo di religione e di Corano. Sembrava proprio una persona perbene e godeva per questo di parecchia considerazione”.

Il quartiere di Al Riad, abitato soprattutto dalla media borghesia di Khartoum, da sempre refrattaria all’islamismo fondamentalista e contraria già di per sé alla legge coranica imposta in Sudan, sembra comunque che l’avesse isolato di proposito. “Di certo Ben Laden in questa zona non ha fatto proseliti – conclude in un bar Ali, accendendo il suo narghilè. – Sa, noi qui rimpiangiamo ancora i tempi (più o meno 15 anni fa) in cui si produceva la Camel Beer (“Birra del Cammello” era la marca). A proposito, non ha per caso con sé qualcosa di serio da bere?”

Massimo A. Alberizzi

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ISLAM, GUERRA E CARESTIA La guerra tra il regime islamico di Khartoum e i ribelli cristiano animisti del Sud ha causato una carestia che negli ultimi mesi ha messo a rischio la vita di oltre 2 milioni di persone. Nella foto in alto, una bambina porta dei viveri sulla testa. Accanto, lo stabilimento distrutto dai missili Usa Osama Ben Laden

 

La rabbia del Sudan dopo il bardamento della Shifa: “Non siamo terroristi”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 24 agosto 1998

Se non fosse stato per il bombardamento Usa della fabbrica “Shifa”, “Salute” in arabo – di medicinali (secondo i sudanesi), di armi chimiche (secondo gli americani) – non sarebbero arrivate da tutto il mondo le decine di giornalisti che hanno invaso Khartoum. Ma stavolta le autorità vogliono far sentire la propria voce contro “l’aggressione della superpotenza americana”. E lanciano la loro sfida agli Usa: il governo, secondo quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri sudanese Mustafa’ Osman Ismail alla Cnn, è disposto ad accogliere una commissione d’inchiesta americana, “con personalità di prestigio come l’ex presidente Jimmy Carter o membri del congresso”, che venga a esaminare la vera natura della fabbrica distrutta dai missili.

Il presidente Omar Al Bashir si era già pronunciato per una commissione indipendente d’indagine istituita dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Di Sudan, in questi anni, si è parlato soprattutto con riferimento alla spaventosa guerra civile che dilania il Paese dal 1983 e alle conseguenze del conflitto: la carestia, la fame, i profughi e le centinaia di migliaia di morti. La lotta armata trova le radici nell’antagonismo tra gli arabi del Nord, ricchi, commercianti, da sempre al potere, e gli abitanti del Sud, africani, cristiani o animisti, considerati inferiori.

A settentrione però, accanto a una borghesia di stretta osservanza islamica, si era sviluppato anche il maggior partito comunista di tutto il continente (escluso il Sudafrica). Una contraddizione che esplode il 30 giungo 1989 quando il generale Omar Al Bashir chiude, con un colpo di Stato, la breve esperienza democratica del presidente civile Sadiq Al Mahadi. Dietro il generale c’è la potente mano della confraternita dei Fratelli Musulmani e del suo leader Hassan Al Turabi, ora presidente del parlamento.

Il Paese viene messo sotto stretta tutela islamica, i partiti chiusi, i giornali censurati: e la guerriglia nel Sud riprende vigore. “E’ stato a quel punto che l’Occidente ha abbandonato il Sudan – spiega un diplomatico -. Sono stati bloccati gli investimenti, congelati gli aiuti. Per sopravvivere, il regime ha chiesto il sostegno agli altri Paesi musulmani. All’Arabia Saudita, innanzitutto, grande amico degli Stati Uniti, ma nello stesso tempo finanziatore dell’islamismo antioccidentale, e anche all’Iran degli ayatollah”.

Durante la guerra del Golfo, Khartoum si è schierata a fianco di Saddam Hussein. Sul territorio sudanese sono stati organizzati campi d’addestramento per gli uomini della Jihad, la guerra santa islamica, probabilmente in cambio di finanziamenti da spendere per combattere contro la guerriglia cristiana del Sudan People’s Liberation Army. Ma se i rapporti con Washington si sono deteriorati ogni giorno di più, la collaborazione con la Francia è stata ed è ancora essenziale. In cambio delle mappe tracciate via satellite delle basi dei ribelli nel Sudan meridionale, Parigi, il 14 settembre 1994, mette a segno un colpo eccezionale.

La sua polizia viene autorizzata ad arrestare nella capitale sudanese uno dei più feroci terroristi, ricercato in tutto il mondo: il venezuelano Carlos. Diverso l’atteggiamento con Osama Ben Laden, il mandante, secondo la Casa Bianca, dei sanguinosi attentati contro le ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam il 7 agosto scorso. “E’ vero, Ben Laden era qui – ha ammesso il ministro dell’Informazione Ghazi Atabani ieri durante una conferenza stampa -. Da noi era considerato un buon costruttore. Poi è andato via spontaneamente”.

Gli è stato chiesto: ci sono state pressioni americane perchè fosse allontanato? “No, assolutamente. D’altro canto ora è ancora peggio. Nessuno sa dove si trovi, neppure gli Stati Uniti”. “Non c’e’ dubbio che il Sudan ha tollerato la presenza di terroristi sul suo territorio – spiega ancora il nostro diplomatico -. Ma e’ difficile pensare che si sia messo a fabbricare armi chimiche e gas nervini. A meno che non l’abbia fatto per conto terzi”.

Nella capitale sudanese la gente ha un atteggiamento controverso verso gli americani. “Hanno compiuto un atto barbarico – spiega il giovane Nur -. Non è in questo modo che riusciremo a sbarazzarci del regime. Potevano usare la loro forza per portare aiuto all’opposizione”. Ma ieri vicino alla fabbrica distrutta dai missili qualcuno ha sussurrato: “Ci domandavamo da tempo cosa ci fosse in quello stabilimento. Di notte era controllato a vista da pattuglie di soldati armati fino ai denti”. L’intervento americano ha provocato sconcerto anche tra gli uomini dell’Onu a Khartoum: “Washington avrebbe dovuto denunciare la presenza di armi chimiche in quella fabbrica, ammesso e non consesso che ne abbia le prove – ha sostenuto Philippe Vorel, coordinatore dell’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite -. Poi avrebbe dovuto chiedere l’intervento del Consiglio di sicurezza per smantellare l’impianto”.

Massimo A. Alberizzi

 

UN PAESE, DUE FEDI

* IL PAESE Il Sudan è uno Stato federale abitato da 27 milioni e 291 mila abitanti, con capitale Khartoum. Ma la dittatura islamica che sta al potere dall’89 di fatto impedisce qualsiasi attività  politica.

* LA GUERRA La divisione tra un Nord abitato da arabi ricchi, di religione musulmana, e un Sud arretrato popolato da africani cristiano – animisti, ha scatenato un conflitto che continua dall’83.

* I PROTAGONISTI Il golpe con il quale il generale Omar Al Bashir ha messo fine nell’89 a una breve esperienza democratica, ha radicalizzato lo scontro con il Sud. Schierati, da una parte il regime islamico di Khartoum, condizionato dall’integralismo del capo del Parlamento El Turabi, dall’altra l’Esercito di liberazione (Spla) guidato da John Garang.

* LA CARESTIA Effetto della guerra è la fame che ultimamente ha messo a rischio 2 milioni e 600 mila persone al Sud.

* LE ALLEANZE Tra Paesi finanziatori del Sudan, l’Arabia Saudita e l’Iran. Buoni i rapporti con la Francia

 

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SOTTO TIRO A sinistra, le macerie della fabbrica di Khartoum bombardata dagli americani: per Washington è un impianto di armi chimiche, per i sudanesi una fabbrica farmaceutica. Sopra, gli uffici Onu a Khartoum sorvegliati nel timore di attacchi

Esecuzioni in piazza a Kigali: “Noi scampati diciamo: meritano questa pena. Giusta punizione per un crimine come il genocidio” (di Massimo A. Alberizzi)

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 22 aprile 1998

Josuè Kaygaho vive a Kigali, ha 40 anni e fa il medico. Ma non è tutto. Josuè è anche il vicepresidente di un’associazione che si chiama Ibuka, un collettivo che raggruppa 19 organismi nati tutti a difesa dei “rescapes”, 200 mila o forse più sopravvissuti al genocidio. “Falchi” dei falchi. Tra i tutsi sono infatti quelli che più premono perchè giustizia sia fatta. “Che i boia vengano fucilati in pubblico o in privato, non fa differenza – dice Josuè Kaygaho -. In pubblico, l’esecuzione acquista però un valore pedagogico. Lo stadio di Nyamirambo a Kigali era pieno di gente. E’ la prova che la popolazione ruandese è d’accordo con il governo”.

E il ruolo di Ibuka? A Kigali tutti sanno che sono state proprio le associazioni dei “rescapes”, i tutsi francofoni contro quelli anglofoni (arrivati dopo il genocidio), a far pressioni sul parlamento perché le esecuzioni avvenissero in pubblico. E’ stata persino ribaltata l’ordinanza emanata dal ministero della giustizia non più di un anno fa, nella quale si parlava di esecuzioni al chiuso, nelle prigioni. “E’ il governo che ha deciso – dice Josuè -. E’ probabile che le prossime esecuzioni saranno al chiuso. Io personalmente allo stadio non ci sono andato. Avevo altro da fare. Ma uno di quelli che hanno ammazzato era Froduald Karamira. Io stavo a Kigali quando lui via radio incitava alle stragi, quando ai check point ordinava di fare a pezzi i tutsi. La gente voleva vederlo morto”.Mappa

Josuè è lui stesso un “rescape“: “Ho fatto parte del “gruppo” dell’Hotel Milles Collines. Ostaggi degli Interahamwe (la guardia civile hutu, ndr)”. I tutsi che si erano barricati in quello che era e che è tornato ad essere uno degli alberghi più lussuosi della città, furono costretti a bere l’acqua della piscina per sopravvivere.

Quando il Fronte Patriottico Ruandese (RPF. formato da altri tutsi nati, cresciuti e addestrati in Uganda) giunse a Kigali, dice Josuè, “io fui liberato in cambio di prigionieri hutu. Io e mia moglie. Tutto quello che è rimasto della nostra famiglia”.

Vendetta è una parola che il vicepresidente di Ibuka non vuole pronunciare. Per chi ha assistito allo scempio delle proprie famiglie, per chi si è salvato nascondendosi sotto mucchi di cadaveri, non esiste altra strada per far giustizia se non la morte dei propri carnefici. In più, i “rescapes” vivono una strana sindrome: quella di essere guardati con sospetto, quasi come collaborazionisti per il solo fatto di essere rimasti vivi. “Il genocidio per loro non è mai finito – dice il vicepresidente di Ibuka -. I guerriglieri hutu continuano ad ammazzarli perché temono che testimonino ai processi. Hanno perduto le case, le terre, ogni bene. Solo adesso sembra che il governo crei finalmente un fondo per loro”. Una sofferenza che genera odio. E l’odio vendetta. L’ora, come dimostrano le 22 fucilazioni di ieri, è già scoccata.

Massimo A. Alberizzi
twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

Ruanda: fucilazione in piazza, la folla fa festa. Ignorati tutti gli appelli internazionali alla clemenza. I condannati legati al palo e bendati, un bersaglio sul petto (di Massimo A. Alberizzi)

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 22 aprile 1998

La gente urla di gioia, applaude, fischia. I quattro corpi senza vita dei condannati a morte, ciascuno legato a un palo da dieci giri di corda, sembrano sacchi vuoti da cui il sangue continua a zampillare. E quel sangue esaspera l’eccitazione tutt’intorno a noi. “E’ finito, finito. Andate via”, gridano i soldati del servizio d’ordine, che – armati di grossi rami appena strappati dagli alberi – respingono le prime file della folla. I preparativi per la grande festa delle esecuzioni erano cominciati all’alba: camionette di giovani scorrazzano per le vie di Kigali, la capitale, quasi a guidare quanta più folla possibile verso i due punti della città dove è stato preparato il patibolo: fuori dallo stadio di calcio di Nyamirambo e nel quartiere periferico di Nyamata.

Qui a Nyamirambo, alle 10, saranno uccisi quattro dei 22 hutu condannati a morte per aver organizzato e perpetrato il genocidio degli hutu moderati e dei tutsi nel 1994. Alle 9.30 nello spiazzo chiamato “tappeto rosso”, dal colore della terra che lo ricopre e che diventerà presto rosso-sangue, si sono già raggruppate 10 mila persone. Mezz’ora dopo sono almeno 30 mila. Ci son tutti, anche donne e bambini. Molti sono sopravvissuti al genocidio.

Gli spettatori sono impazienti. Come a teatro partono applausi e fischi per incitare a far presto. Poi il primo boato di gioia: alle 10.20 arriva il convoglio con i quattro da fucilare. I loro nomi sono stati tenuti segreti fino all’ultimo. Solo quando scendono dalla camionetta vengono riconosciuti. Tra loro c’è una donna, Rose Virginie Mukankusi. Era il capo del quartiere di Muhima, proprio quello dove ora sta per essere ammazzata. “Lei conosceva tutti gli abitanti e quindi additava chi era hutu e chi era tutsi”, racconta Claude, il mio vicino.,ucchio di morti

A lei è destinato il più lontano dei quattro pali piantati a terra. Ha un’aria spavalda e cammina con passo veloce, il capo eretto. Forse attende la morte come una liberazione. Al primo palo viene condotto Elia Nizeimana. Era un viceprefetto. Per ogni dieci case aveva nominato un capo il cui compito era quello di indicare chi dei suoi vicini era hutu e chi tutsi. Il genocidio avrebbe avuto come primi carnefici proprio quei piccoli, insignificanti leader dell’ultima ora.

In terza posizione Silas Munyagishali. Era un procuratore che faceva incarcerare i tutsi e gli hutu moderati: qualcuno avrebbe poi pensato ad ammazzarli in cella.

L’ultimo è Frodwal Karamira, un’ovazione quando scende dalla camionetta. E’ il più conosciuto e il più odiato. Era vicepresidente del Movimento Democratico Ruandese ma soprattutto era l’uomo d’affari considerato la mente satanica del genocidio. “E’ lui cha ha comprato e distribuito le decine di migliaia di machete con cui gli estremisti hanno sistematicamente massacrato e fatto a pezzi gli avversari”, spiega il nostro informatore.

I giornalisti vengono in continuazione spintonati, minacciati, infastiditi. Vietatissimo fare fotografie: davanti a noi si schierano giovani tutsi enormi per ostacolare la vista dello spettacolo che ormai sta per cominciare. Chi parla con i “muzungo”, i bianchi, viene sgridato con violenza. “Un soldato mi ha minacciato: ‘Se gli dai ancora informazioni, stasera ti ammazzo'”, racconterà più tardi, Pierre, un uomo che mi stava vicino e viene costretto ad allontanarsi.

I quattro condannati vestono l’uniforme carceraria rosa. Pantaloni al ginocchio per gli uomini, gonna per la donna. Sono scalzi. Il volto è impassibile. Non cercano di scappare. Non pronunciano una parola. La regia di questa messa in scena destinata a scolpirsi nella testa della gente è perfetta. I poliziotti procedono a legare i condannati minuziosamente e con calma. Vogliono impedire che possano afflosciarsi sulle ginocchia. La corda viene passata intorno al loro corpo una, due, tre, dieci volte. La grossa matassa finisce per ingarbugliarsi e devono intervenire in due per cercare di venirne a capo.Casa mitragliata

Un uomo, in giacca e cravatta, si avvicina ai quattro e controlla che l’imbragatura tenga. Il tempo scorre lento, la gente non ulula più, si gode la scena. Arriva un agente che porta sacchetti neri che infila sulla testa dei condannati e quindi li fissa con un altro cordone al collo. Ancora un controllo per vedere se veramente la vista è impedita. Il caldo diventa soffocante.

Ma i preparativi non sono finiti. Manca il grembiulino bianco con un rettangolo nero che viene fissato al petto dei quattro. E’ il bersaglio. I condannati vengono lasciati così, in pasto al delirio del pubblico per 20 minuti. I polpacci neri che si vedono scoperti sembra stiano tremando, ma forse e’ solo un’impressione. E’ molto probabile che siano stati dei brutali assassini, che si siano macchiati dei peggiori crimini, ma quello che stanno subendo in questo momento è vendetta. Pura vendetta. Non giustizia.

Tutti si aspettano che il plotone di esecuzione si schieri ordinatamente davanti ai quattro pali per prendere la mira. Invece no. Da un drappello di poliziotti che sembra stiano chiacchierando in attesa di un ordine preciso, si staccano di corsa quattro agenti che cominciano a sparare ciascuno a una vittima. Quattro colpi che puntano a quel rettangolo nero ben in mostra sul torace, solo a Virginie un proiettile finisce in pieno viso. Il cappuccio si alza e lascia scoperta la faccia, ingessata su una smorfia di terrore.rwanda-wanted Kabuga

Il lavoro non è ancora finito. Arriva un ufficiale e sfodera la rivoltella. I colpi di grazia alla testa sono due per ciascuno. I corpi restano agganciati ai pali come marionette. La gente vuol vedere da vicino. Un ragazzino si impadronisce di quello che resta degli occhiali di Silas Munyagishali. I corpi vengono portati via su quattro camionette scoperte. Una porta sul fianco la scritta: “Dono dell’Unicef al governo del Ruanda” Sarebbe dovuta servire per insegnare a vivere, invece aiuta chi persegue la vendetta di Stato.

Ora la folla può sfogarsi con i giornalisti: “Dov’era il tuo Paese quando ci ammazzavano tutti?”, urla una donna. Cercano di afferrare penne, orologi, occhiali. Un uomo mi strappa il taccuino e scappa. Viene bloccato da un soldato che controlla di cosa si tratti, strappa le pagine dove sono stati raccolti gli appunti e me lo restituisce. Ma quelle note non servono a molto, le immagini sono già stampate nella mia testa.

Massimo A. Alberizzi
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massimo.alberizzi@gmail.com

“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Arusha (Tanzania), 22 aprile 1998

Eccolo Giorgio Ruggiu, l’italo-belga accusato di incitamento al genocidio e crimini contro l’umanità per la mattanza avvenuta in Ruanda tra aprile e giugno 1994. Secondo l’accusa, dalle onde di “Radio Mille Colline” avrebbe lanciato appelli agli hutu perché trucidassero quanti più tutsi possibile.

 

Radio Mille Colline, Ruanda

“Che aspettate? Le tombe sono vuote. Prendete i machete e fate a pezzi i vostri nemici”, avrebbe urlato ai microfoni. Oggi è lì, alla sbarra del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda per un’udienza preliminare. Un uomo piccolino, magro. Con occhiali enormi, sul viso scarno e pallido. Il capo avvolto in una kefir bianca e la barba rasata sotto il mento, alla maniera dei musulmani ortodossi che abitano sulla costa orientale africana.

Parla con voce pacata, quasi sussurra. Si è convertito all’Islam e ora si chiama Bashir. Le mani giunte reggono il tradizionale rosario maomettano. Sembra un eremita. Eppure sono in tanti a ricordare i suoi appelli micidiali: “Schiacciateli tutti come scarafaggi”.

Giorgio Ruggiu dal 23 luglio dell’anno scorso è detenuto, assieme ad altri 22 ruandesi (ex capi degli squadroni della morte, alti ufficiali dell’esercito, ex politici del passato regime hutu), in un’ala del penitenziario di Arusha che l’Onu ha affittato dalla Tanzania per rinchiudervi i presunti responsabili dei massacri.

Giorgio Ruggiu durante il genocidio ai microfono della Radio

Le celle sono piccole, ma tutte con toilette. I prigionieri hanno a disposizione computer, radio e telefono. I giudici del Tribunale, in contraddizione con i diritti della difesa e con lo stesso articolo 58 del regolamento dell’organismo Onu, hanno deciso di proibire agli imputati di parlare con i giornalisti.

Quest’intervista è stata quindi ottenuta violando le regole. Anche gli avvocati di Ruggiu, il tunisino Mohammed Aouini e il belga Jean Louis Gilissen, cercano di rivelare il meno possibile sul loro assistito per non irritare i magistrati. “I giudici vogliono provare che si è trattato di genocidio organizzato e pianificato – esordisce l’unico imputato bianco e non ruandese -. In realtà è stata una follia collettiva. La gente ha cominciato a uccidere ed era impossibile fermarla. È vero che sono andato in onda parlando a favore degli hutu. Non è vero che abbia incitato all’odio razziale e tanto meno al genocidio. Sfido chiunque a produrre una registrazione in cui io usi il verbo ‘uccidete'”.

C’è però chi racconta che una volta lei, in uniforme, assieme a dei miliziani hutu, ha raggiunto la chiesa della Sacra Famiglia stracolma di profughi, dove padre Wenceslas Munyeshyaka stava collaborando alla selezione delle vittime: i fedeli tutsi da una parte per essere massacrati, gli hutu dall’altra. Tre tutsi sarebbero stati portati dal sacerdote davanti ai suoi microfoni per un’intervista. Avrebbero dovuto dire che tutto andava bene.

“Conosco la chiesa della Sacra Famiglia ma nego di esserci andato con miliziani hutu. Non ho mai indossato l’uniforme, né sono mai stato scortato. Queste testimonianze sono false”.

Giorgio Ruggiu è nato a Liegi quarant’anni fa da padre italiano, emigrato in Belgio nel 1950 da Cossoine, un piccolo paese in provincia di Sassari. Aveva cominciato come minatore poi aveva sposato un’insegnante belga ed era passato a lavorare nei cantieri edili. “Ho ancora il passaporto italiano, il mio congedo militare è a posto e parte della mia famiglia vive in provincia di Latina”, precisa.

Il suo italiano è stentato e preferisce esprimersi in francese o in inglese. In Belgio, agli inizi degli anni ’90 era entrato in contatto con gruppi di studenti universitari hutu. “Sono un idealista e mi sono appassionato alla loro causa e ho partecipato al ‘Gruppo di riflessione belga-ruandese’. Così quando mi hanno offerto un lavoro in Ruanda ci sono andato. Si trattava di organizzare programmi per una nuova radio. ‘Una radio che avrebbe detto la verità’, mi fu spiegato. Sapevo che era a favore del presidente Juvenal Habyarimana. Seguivo le istruzioni che mi davano, ma non ho mai lanciato appelli per uccidere chicchessia”.

Parecchi testimoni sostengono che la radio incitava ad ammazzare non solo i tutsi e gli hutu moderati, ma anche i belgi ritenuti responsabili dell’attentato compiuto il 6 aprile 1994 all’aereo dove viaggiava Habyarimana e che gli costo’ la vita.

“Non posso dirlo, io non conosco la lingua kinyarwanda e non so cosa trasmettessero gli altri. Credo però che nessuno pianificasse il genocidio. È una follia, ripeto, che ha invaso la gente. Tutti si sono messi ad ammazzare senza pietà e forse senza capire perché. Io stesso sono stato minacciato dagli hutu. Un giorno ho assistito a una mutilazione di massa: c’erano uomini, donne, bambini a cui erano state mozzate le gambe e le braccia. I corpi continuavano a vivere nella sofferenza atroce. Mi son fatto avanti e ho chiesto: ‘Ammazzateli. Non lasciateli soffrire così’. Per tutta risposta mi sono trovato una pistola puntata alla tempia da un miliziano che mi ha ordinato: ‘Stai zitto o ti uccido'”.

Come mai è diventato musulmano? “Il comportamento di alcuni preti in Ruanda mi ha profondamente scioccato. Durante il mio primo viaggio nel 1993 ho visto cose che mi hanno fatto riflettere. Parecchi sacerdoti cattolici facevano della religione un business”.

Che affari? “Per esempio, vendevano falsi certificati di battesimo e soprattutto di matrimonio, per dimostrare unioni inesistenti. Poi durante la mia fuga sono finito a Mombasa. Lì mi ha protetto un gruppo di somali. Un giorno durante una retata della polizia keniota, su ordine del Tribunale Internazionale, uno di questi amici mi ha detto: ‘Resta chiuso nella tua stanza e tieni stretta al petto questa copia del Corano’. Così ho fatto. Gli agenti hanno guardato dappertutto arrestando parecchi ruandesi ma non mi hanno scovato. Nell’islam ho trovato una risposta a tutte le domande che mi assillavano prima e durante i massacri”.

Ruggiu è stato dipinto come un Robespierre, ma non sembra averne né la forza, né la volontà. Sembra piuttosto un uomo manipolato. In questi anni ha scritto un libro in cui racconta la sua tragica verità sui massacri. Lo tiene gelosamente custodito e non vuole renderlo pubblico finché non comincerà il processo, la cui data non è stata ancora fissata. Le accuse sono atroci. Ma saranno i giudici a decidere se è vero tutto quello che gli viene attribuito. Compreso l’ordine lanciato via radio: “A ognuno il proprio belga”.

Massimo A. Alberizzi
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Attacchi, complotti e minacce trema il regime di Gheddafi. Ma ora il regime nega tutto

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
Milano, 7 aprile 1996

Sirte, città libica che si affaccia sul golfo omonimo. Ultima settimana di febbraio. E’ in corso il Congresso del Popolo libico, un rituale che serve a consacrare il regime e il suo leader, Mohammar Gheddafi. Il dittatore deve tenere un discorso ma, per motivi di sicurezza, non si sa quando. Qualcuno dei suoi oppositori, però, conosce i suoi programmi.

Un’auto viene imbottita d’ esplosivo all’inverosimile. Si vuole tentare di far saltare tutta la sala dove si tengono i lavori. La macchina si dirige verso il luogo dell’attentato ma, poco lontano, viene intercettata dalla guardia scelta di Gheddafi. Nello scontro a fuoco che ne segue il veicolo esplode: muoiono 17 agenti e 3 terroristi.

Nonostante le autorità libiche abbiano fatto di tutto per tenere la notizia segreta, le informazioni sono trapelate in questi giorni, allorché alcuni testimoni da Sirte hanno raggiunto Alessandria, in Egitto. A dimostrazione che l’ azione é stata effettivamente tentata resta il fatto che la guardia personale del colonnello è stata in gran parte cambiata: “Ora compaiono facce nuove, che nessuno ha mai visto”, ha raccontato un viaggiatore libico che ha richiesto l’anonimato.

“Muoversi tra Tripoli e il confine egiziano diventa ogni giorno più difficile – prosegue il nostro interlocutore al telefono -. Posti di blocco, controlli, perquisizioni. Da Sirte a Bengasi si viene fermati in continuazione. Credo che dopo la sommossa dei giorni scorsi a Bengasi il regime tenti di evitare possibili infiltrazioni verso la capitale. Anche andare a Sud, verso l’oasi di Kufra è assai difficoltoso. La polizia obbliga a lunghe deviazioni”.

La mappa della Libia. Al confine con l’Algeria,verso il Niger si trova Ghat il villaggio dove sono stati rapiti gli italiani e il canadese

La notizia dell’attentato a Gheddafi giunge nel momento in cui la pressione americana contro la dittatura si fa più pesante. Secondo Washington, le autorità libiche stanno costruendo sotto terra la più grande fabbrica di armi chimiche al mondo nell’oasi di Tarhunah, 60 chilometri a Sud est di Tripoli. Il segretario alla difesa William Perry non ha escluso un’ azione militare per neutralizzarla. Perry è volato al Cairo per far accennare l’idea a Mubarak. A fine marzo a Bengasi c’è stata una rivolta, il carcere è stato attaccato per liberare i prigionieri. Le forze di sicurezza hanno represso le dimostrazioni nel sangue ma i ribelli, rifugiatisi sulle montagne hanno continuato a dare battaglia per alcuni giorni.

Gli attacchi alle carceri hanno dei precedenti. Nel novembre scorso due evasioni simultanee si sono verificate dalle prigioni di Derna e di Tripoli sempre provocate da commandos che hanno assalito dall’esterno. Almeno quattro agenti erano stati uccisi e una trentina di detenuti liberati. La società libica e rigida e fortemente controllata. Le spie sono ovunque.

“Nonostante ciò – spiega il nostro interlocutore – ci sono organizzazioni che portano a segno colpi di mano con estrema decisione”. Chi sono? “Difficile dirlo – è la risposta -. Sembra, ma non è assolutamente certo, che si tratti di integralisti islamici ed effettivamente i metodi usati dai terroristi avallano questa ipotesi. Un mese fa, ad esempio, tre uomini sono stati sgozzati sulla tangenziale sud di Tripoli. Si parlava di regolamento tra trafficanti di droga (il cui consumo è in forte aumento in tutto il Paese) ma in realtà si è trattato di una vendetta contro uomini del regime, giustiziati secondo i metodi dei fondamentalisti del Gia (Gruppo Islamico Armato) algerino”. Esistono poi gli oppositori laici legati al National Front for the Salvation of Libya, NFSL, guidati dal colonnello Khalifa Haftar.

L’ ufficiale era il comandante della grossa base aerea di Uadi Dum, costruita dai libici in Ciad negli anni 80, quando le truppe di Gheddafi occupavano il nord di quel Paese. Nell’ 87 Uadi Dum cadde nella mani delle truppe ciadiane (che avevano il sostegno logistico dei francesi). Khalifa fu catturato, rinnegò il dittatore e diventò il leader militare dell’ NFSL. “Alla rivolta di Bengasi potrebbero aver partecipato anche loro. In realtà non è ben chiaro ciò che sta succedendo. Forse le minacce americane servono anche a far uscire allo scoperto le opposizioni al colonnello”.

Massimo A. Alberizzi

 

Gino Strada con 4 volontari nell’inferno del Ruanda

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 10 agosto 1994

Alfonsine ha 18 anni. Aveva lasciato un campo profughi al confine con la Tanzania e assieme alla sua numerosa famiglia aveva deciso di tornare a Kigali. Il gruppo era quasi arrivato e lei lo guidava, prima di una lunga fila indiana. E’ finita su una mina e ora le due gambe le sono state amputate sotto il ginocchio. E’ incinta e, nonostante tutto, la gravidanza procede bene. La sorella che stava dietro di lei è rimasta uccisa sul colpo da una scheggia che le ha trafitto la tempia.

Ruanda 1994

Mustafà, invece, è un ragazzino; aveva attraversato la strada che divide la sua casa da quella di un amichetto con cui voleva andare a giocare. Anche lui ha trovato una mina sul suo cammino e anche lui ha le gambe amputate.

Ordigni micidiali.

Questi sono due dei pazienti ricoverati all’ospedale centrale di Kigali, riaperto da pochi giorni da un medico italiano, il milanese Gino Strada. Il dottor Strada è diventato famoso per avere partecipato più volte al Maurizio Costanzo Show dal cui palcoscenico ha lanciato la battaglia contro le mine antiuomo. “Sono ordigni micidiali che colpiscono i civili, donne e bambini soprattutto. Non hanno alcun senso strategico. Non servono per vincere le guerre ma solo per vendicarsi sugli avversari”.

Anche ieri mattina il dottor Strada stava amputando una gamba all’ennesimo viandante che rientrava a casa. Uscito dalla sala operatoria ha imprecato: “Perché devono accadere queste cose? Che colpa hanno i civili la cui vita è stata distrutta? Chi fabbrica e vende questi disumani strumenti di morte è un pazzo criminale. Vengano qui a vedere che macello”.

Il Ruanda è pieno di mine e perfino camminare per Kigali al di fuori delle strade asfaltate è pericoloso. “Ho aperto l’ ospedale da pochi giorni e mi sono già arrivati una decina di casi. Tutte persone ferite nel centro abitato”. Il dottor Strada è il leader di Emergency, una organizzazione non governativa che si occupa dei civili vittime della guerra e per statuto non può accettare fondi pubblici. “Troppo spesso gli aiuti sono coinvolti in scandali e storie poco chiare, senza contare che almeno il 50 per cento del budget di queste associazioni finisce per essere utilizzato per la sussistenza dell’organizzazione stessa. Noi non abbiamo neanche una sede da mantenere. I privati che ci finanziano diventano soci e possono andare a verificare come vengono spesi i soldi che ci danno”.

Due settimane di ramazza

I volontari di Emergency, 5 persone in tutto, sono arrivati a Kigali alla fine di luglio. L’ ospedale generale era stato abbandonato in condizioni pietose. Hanno ramazzato per un paio di settimane e recuperato almeno il blocco operatorio e un padiglione con una quarantina di letti. Lavorano praticamente da soli.

Medici e infermieri ruandesi, quasi tutti tutsi, sono stati trucidati dagli hutu in fuga: “I miliziani del vecchio regime sono entrati e, letto per letto, hanno ammazzato chi non era dei loro. Alla fine han fatto fuori i dottori”. L’ ospedale di Kigali mantiene il prestigio che lo circondava. E pieno di apparecchi sofisticati, di materiale raro e difficile da trovare perfino nei centri europei. I letti sono moderni e ben tenuti. Dopo la ripulitura a fondo le stanze sono tornate a brillare (a parte qualche vetro rotto) ma mancano l’elettricità e l’ acqua, e i corridoi sono desolatamente vuoti.

Come tutta Kigali anche l’ospedale è fantasma. “Qui c’è tutto, proprio tutto, e siamo appena al di sopra dello standard africano. Mancano il personale e i pazienti. Vorremmo, entro una settimana, mettere in funzione altri 120 letti, necessari se i profughi dovessero rientrare in massa. Ma come facciamo senza personale locale che ci aiuti?”.

Settori dell’ Onu

Il dottor Strada nei giorni scorsi ha duramente contestato la teoria, sostenuta da alcuni dei nuovi dirigenti ruandesi e tollerata da alcuni settori delle Nazioni Unite, secondo cui i profughi avrebbero dovuto rientrare alle loro case a piedi e senza alcun aiuto. Una sorta di selezione naturale che avrebbe costretto i più deboli e gli ammalati a morire per strada e risparmiato i più forti.

Per fortuna l’ipotesi è stata scartata ma il solo fatto che sia stata presa in considerazione getta un’ombra inquietante sul futuro di questo martoriato Paese: lutti e massacri potrebbero non essere ancora finiti.

Massimo A. Alberizzi
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Il pianto di Audrey Hepburn: “Ho visto l’inferno somalo “

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Ginevra, 2 ottobre 1992

Sconvolta in viso e nell’animo. Così Audrey Hepburn, ambasciatrice dell’Unicef (fondo dell’ Onu per l’ infanzia), e’ tornata dalla Somalia dove ha passato poco meno di una settimana. “Per giorni e giorni mi ero preparata a un’esperienza del genere. Pensavo e ripensavo e ho letto un mucchio di documentazione, ma non c’ è stato nulla da fare. Non ci si può preparare a un viaggio nell’inferno. In Somalia – esordisce l’incantevole protagonista di tanti film che hanno fatto sognare una generazione – si sta consumando un olocausto, con la gente che aspetta soltanto di morire. I documentari, le fotografie, i giornali non riescono a dare una dimensione esatta della tragedia, che è peggiore di qualsiasi descrizione. Il Paese ha bisogno di aiuto e va aiutato, non riesco neppure a esprimere quel che sento. Non trovo le parole, né in inglese, né in italiano, né in francese”.

Poi racconta d’un fiato: “Il mio areo è sceso a Chisimaio, una sabbia rossa, secchissima. Siamo andati a visitare i campi profughi e i villaggi. Mi sono accorta che case e capanne erano circondate da piccole dune. Dapprima non ci ho fatto caso, poi mi hanno spiegato: erano tombe. Ne ho viste ovunque; lungo i fiumi, a ridosso dei sentieri. Sparse qua e là . Durante il mio viaggio sono arrivate le piogge e le tombe si sono letteralmente ‘sciolte’. I cadaveri sono tornati alla luce contaminando l’ acqua che li trascinava”.

L’eroina di “Sabrina”, “My fair lady”, “Colazione da Tiffany”, “Vacanze romane” parla con voce rotta dall’ emozione: “I temporali invece della vita hanno portato la morte. Malattie, infezioni e poi il freddo cui tante persone non hanno resistito. Molti vivono senza un tetto e le poche capanne rimaste in piedi non sono più coperte di paglia come una volta. Ora sono piene di buchi”.

1° Settembre 1992 – Questa immagine è di Robert Wolders/Corbis Sygma

Le lacrime solcano le guance quando passa a parlare dei bambini, certo i più colpiti dalla fame e dalla guerra: “Sono scheletrini viventi con incastrati due occhi. Aspettano solo di essere nutriti, non hanno emozioni. Se gli passi una mano davanti al viso non reagiscono, lo sguardo resta fisso nel vuoto. Colpisce poi l’innaturale silenzio, assoluto, che c’è accanto a loro. Questi bimbi non parlano, non ridono, non scherzano come i loro coetanei nel resto del mondo. Sono traumatizzati dalla fame. Oh, che voglia di abbracciarli, accarezzarli! Ma toccandoli hai paura di fargli male quasi il loro corpo fosse sul punto di disintegrarsi, di diventare polvere”.

“In un campo di Chisimaio – ricorda ancora commossa l’ambasciatrice dell’ Unicef – ho notato che non c’erano bimbi sotto i 10 anni. Come mai? Ho chiesto. Mi hanno risposto che erano tutti morti. D’altra parte sotto un albero c’erano due piccoli sorridenti. Mi sono detta: “Beh, finalmente”. Sono andata vicino e mi sono seduta accanto. Parlavo, ma loro non mi sentivano, continuavano a sorridire; poi mi sono accorta che erano legati alla pianta. Il padre, accasciato lì accanto ma ancora in vita, ha spiegato che doveva far così, altrimenti si sarebbero allontanati senza trovare più la strada del ritorno. Non riconoscevano più nessuno, traumatizzati com’erano dall’omicidio della madre, sventrata in loro presenza, e dai tanti assassinii cui avevano assistito”.

“Forse Dio ha tanto da fare in questo periodo che ha scordato la Somalia – mormora scuotendo la testa l’ attrice -. Colpisce non tanto la morte, che forse conduce a un mondo migliore, quanto la sofferenza. E per morire di fame le sofferenze devono essere atroci. Le immagini che ho visto in questi giorni mi ossessionano. Se chiudo gli occhi mi sfilano davanti come in un film. Non riesco più a dormire. Talvolta, di giorno, mi appisolo. Ma di notte no, non posso”. Audrey Hepburns sottolinea poi l’ importanza delle organizzazioni umanitarie. “Sono l’ unico ostacolo posto tra questa povera gente e la morte”.

Poi usa una metafora: “Tengono la testa a galla a chi è completamente immerso nelle sabbie mobili. Ma è difficile che resistano all’ infinito. Mancano i soldi, i mezzi, le strutture e anche gli uomini son pochi. E necessario un appello a tutto il mondo, ai singoli perchè reagiscano e mandino aiuti a chi aiuta”. “Certo . ammette – in Occidente c’ e’ la crisi, specie in Italia, ma qui si tratta di salvare un popolo intero che rischia di essere cancellato dalla faccia della Terra. Con un piccolo, piccolissimo sacrificio in più ciascuno di noi potrebbe far tanto. E prima di tutti vanno salvati i bambini. Senza di loro sarà impossibile ricostruire la nazione somala. Sarebbe un genocidio sulla coscienza di tutto il mondo”.

Massimo A. Alberizzi
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Le foto sono Courtesy UNICEF