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Genocidio a Gaza: quando le vittime vengono trasformate in carnefici

Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
23 luglio 2025

Francamente dispiace constatare come un intellettuale capace di ingegnose e articolate combinazioni ed elaborazioni teoriche sia caduto superficialmente nelle braccia della antistorica narrazione del genocidio che sta devastando la Palestina e la Striscia di Gaza. Con un articolo pubblicato da il Mulino  il professor Sergio Della Pergola abbandona ogni remora civile e si lancia in una esposizione piuttosto curiosa con interpretazioni storiche discutibili e giudizi infondati, o meglio fondati solo su considerazioni di parte. Il tutto per giustificare una acritica adesione al sionismo di Netanyahu e alla difesa dei massacri indiscriminati sulla popolazione civile a Gaza da parte delle truppe israeliane.

Genocidio a Gaza

Ad esempio, il docente comincia il suo saggio parlando di “un piano concordato fra la Repubblica islamica dell’Iran e i suoi alleati in Medioriente, in particolare Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, orientato a distruggere lo Stato d’Israele”.

Non sapevo che il professor Sergio Della Pergola fosse un investigatore o un giornalista investigativo e che fosse riuscito a mettere le mani su documenti che provano la presenza di questo piano. Sarei felice di saperne di più. Per esempio, dov’è questo piano? Chi ha trovato queste prove?

Bandita la parole genocidio

Nel lungo articolo, ripeto pieno di inesattezze e di interpretazioni personali, Della Pergola non usa mai la parola genocidio. Invece massacro viene utilizzata solo in relazione al disumano attacco di Hamas del 7 ottobre.

Non si è accorto Della Pergola che a Gaza è in corso un genocidio. E chi lo commette è proprio Israele. Non è una mia opinione o l’opinione di qualche acritico filopalestinese. E’ un fatto documentato. Un fatto analizzato da massimi esperti internazionali, anche israeliani. Certo, non accecati dal sionismo.

Israele, caro professor Della Pergola, non tiene conto di regole internazionali, e di delibere di organismi come la Corte Internazionale di Giustizia che già ben 16 mesi fa aveva ammonito. “Fermate Israele prima che abbia inizio il genocidio”. Pare che Della Pergola non sappia che la Corte e non solo, anche le Nazioni Unite, abbia dichiarato l’occupazione israeliana illegale, una forma di aggressione condita con segregazione razziale di sudafricana memoria.

Smantellare le colonie

La Corte ha chiesto lo smantellamento delle colonie in Cisgiordania e il ritiro dell’esercito. Ma non solo: ha anche ricordato che l’autodifesa non si invoca contro chi è sotto occupazione.

Non possiamo e non vogliamo negare che l’assalto di Hamas del 7 ottobre sia stato ignobile come qualunque attacco contro i civili inermi. Ma si rende conto, professore, che lo sterminio di civili di Gaza è enormemente più disumano, feroce e crudele? A me sorprende che un intellettuale come lei non riesca cogliere la differenza tra la violenza esercitata dagli oppressori e quella messa in atto dagli oppressi. O forse non riesce a cogliere la difformità perché fuorviato da un’ideologia sionista che somiglia sempre più a quella nazista?

Caro professore, il genocidio lo commette chi vuol distruggere deliberatamente, totalmente o parzialmente, un gruppo in quanto tale. Non contano i mezzi, che siano camere a gas, machete, droni, cannonate.  Il disegno è quello che conta: ammazzare, torturare, affamare, spezzare mentalmente o fisicamente, infliggere intenzionalmente condizioni di vita intollerabili a un gruppo allo scopo di distruggerlo. Questo si chiama genocidio. Questo facevano i nazisti per raggiungere il loro obiettivo: distruggere intenzionalmente gli ebrei.

Civili inermi ammazzati

Professor Della Pergola, io le chiedo: a Gaza non sta succedendo la stessa cosa, ma contro i palestinesi? Israele non sta forse ammazzando civili inermi con bombe, proiettili e droni? Il bilancio parla di 60.000 morti tra cui oltre 16 mila bambini. Lo Stato ebraico, professore non ha raso al suolo case, scuole, chiese, ospedali, campi agricoli pure cimiteri? E oggi non sta deliberatamente impedendo che aiuti alimentari e sanitari raggiungano migliaia di persone malate, ferite e affamate?

Gaza: bimbi ammazzati

Lo sa professore che i morti per fame, malattie, ferite non curate, stenti potrebbero essere 300 mila? E sa che lo Stato che lei difende ha torturato prigionieri, anche medici e giornalisti, alcuni dei quali stuprati pure con cani e bastoni. Lei lo sa che le prigioni di quello che molti definiscono impropriamente “l’unico Paese democratico del Medio Oriente” sono piene di prigionieri senza processo inchiodati da accuse quasi mai corroborate da prove?

Con una operazione di dubbio valore etico, la curiosa “democrazia” israeliana tenta di trasformare le vittime in carnefici. Non è così che si rende giustizia alla storia.

Tenere i giornalisti lontani

Naturalmente Israele vuole tenere il palcoscenico di questo teatro dell’orrore lontano dagli occhi indiscreti del pubblico e allora che fa? Non fa entrare a Gaza i giornalisti stranieri. Già: i killer più spietati non vogliono testimoni e quando ci sono li ammazzano. Oltre 200 operatori dell’informazione sono stati massacrati a Gaza a sangue freddo.

Professore se lei ignora tutto questo è grave, ma purtroppo fa parte di quella dose di ignoranza che pesa come un macigno sulla coscienza di pseudo intellettuali. Se invece è consapevole del disastro che si sta consumando a Gaza, posso solo constatare una cosa: ha perso ogni briciolo di umanità.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
X: @malberizzi

P.S. L’articolo di Sergio Della Pergola ha provocato la reazione di 22 soci de “Il Mulino” che hanno scritto la loro risposta, che trovate qui. Il direttore della storica rivista della sinistra illuminista, Paolo Pombeni, ha pensato bene di pubblicarla con un suo personale distico che, invece di gettare acqua sul fuoco, rischia di accendere ancora di più gli animi.

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Esecuzioni sommarie, torture e sparizioni: circostanziate accuse a esercito e mercenari russi in Mali

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
24 luglio 2025

Hurman Rights Watch punta nuovamente il dito contro l’esercito maliano (FAMa) e i mercenari russi Wagner (oggi Africa Corps) per l’uccisione di almeno 12 persone e la sparizione di altre 82, tutte di etnia fulani.

Negli ultimi 7 mesi i militari di Bamako, supportati dai soldati di ventura russi, hanno dato la caccia ai fulani, accusati di collaborare con JNIM (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei Musulmani), legato a al Qaeda.

Massacro di fulani in Mali

La ONG per i diritti umani ha raccolto testimonianze e ha documentato uccisioni, case bruciate, torture, arresti e sparizioni nelle aree di Timbuktu, Douentza, Kayes e Ségou. HRW ha chiesto spiegazioni ai ministri di Giustizia e della Difesa di Bamako, ma finora non ha ricevuto risposta alcuna sulla carneficina.

Anche esperti indipendenti dell’ONU hanno denunciato esecuzioni extragiudiziali di fulani. Molti cadaveri sono poi stati ritrovati vicino alla base militare di Kwala come riportato in un articolo di Africa ExPress dello scorso maggio. Human Rights Watch ha menzionato anche questa strage nel suo ultimo rapporto del 22 luglio scorso.

Aumentano rifugiati in Senegal

Proprio a causa dell’insicurezza in Mali e in Burkina Faso, molti cittadini di entrambi i Paesi stanno scappando in Senegal, nel dipartimento di Bakel, nell’est del Paese, al confine con il Mali. I rifugiati hanno dichiarato di essere fuggiti per gli abusi dell’esercito burkinabé e dei suoi ausiliari – Volontari per la Difesa della Patria (VDP) – e dei militari maliani.

Nuovi flussi di migranti maliani e burkinabé verso il Senegal

Da tempo i governativi maliani e i mercenari russi sono concentrati a inseguire i ribelli tuareg dell’Azawad, considerati terroristi come i jihadisti di JNIM e quelli EIGS (Stato Islamico del Grande Sahara). Con la differenza sostanziale però, che questi ribelli combattono per la propria libertà e non per conquistare e occupare nuovi territori.

Nel 2020, da quando i golpisti, hanno preso il potere, il monitoraggio dell’accordo di pace, tra i ribelli dell’Azawad e Bamako è praticamente stato bloccato. Inoltre il ritiro dell’operazione francese Barkhane e la partenza dei caschi blu di MINUSMA (missione di pace delle Nazioni Unite in Mali), hanno risvegliato le ostilità. Nel gennaio 2024 la giunta militare al potere ha annullato il trattato di Algeri stipulato nel 2015 tra il governo di Bamako e i gruppi indipendentisti attivi per lo più nel nord del Paese.

FAMa e i suoi alleati russi si concentrano soprattutto a dare la caccia ai tuareg, che l’anno scorso, durante la battaglia di Tinzaouatène (area in prossimità del confine con l’Algeria), grazie a informazioni ricevute da GUR (servizio di sicurezza ucraino), hanno ucciso anche molti mercenari russi, oltre a soldati maliani.

Da tempo le relazioni tra Bamako e Algeri sono più che tese, specie dopo le accuse del governo maliano nei confronti di quello algerino di aver abbattuto un drone nella zona di Tinzaouatène, alla frontiera tra i due Paesi. Il mezzo aereo senza pilota avrebbe sconfinato di 2 chilometri nel Paese confinante.

Algeria: via mercenari dalla frontiera

Recentemente il presidente del Paese nordafricano, Abdelmadjid Tebboune, si è reso però disponibile come mediatore tra i ribelli dell’Azawad e il governo di Bamako. Durante un suo lungo intervento nella TV di Stato, il leader algerino aveva precisato: “Se il Mali desidera una nostra mediazione, siamo pronti,  ma l’Algeria non accetterà mercenari ai propri confini”.

Malgrado gli ottimi rapporti con Mosca, Tebboune è stato chiaro: niente soldati di ventura russi davanti alla porta di casa. Per ora Bamako ha respinto “le mani tese” di Algeri. Anzi, la giunta militare di transizione ha persino accusato il suo vicino di ospitare “terroristi (ribelli dell’Azawad, ndr) che vengono ad attaccare il nostro Paese”.

Paramilitari russi del gruppo Wagner, oggi Africa Corps in Mali

Con il ritiro dei mercenari della società privata Wagner, sostituiti con Africa Corps rappresenta, secondo l’Istituto Timbuktu (African Center for Peace studies), una “istituzionalizzazione de facto” della presenza militare russa in Africa.

Nuovi obiettivi di Mosca

In un suo recente rapporto l’Istituto ha evidenziato che la presenza di Africa Corps è finalizzata a diversi obiettivi strategici, tra questi quattro principali: proteggere i regimi militari, garantire l’accesso alle risorse naturali (come la raffineria d’oro vicino a Bamako), stabilire partnership a lungo termine nel settore delle infrastrutture e dell’energia e minare l’influenza occidentale, in particolare quella della Francia.

L’autorevole Centro ha anche sottolineato che tra il 70 e l’80 per cento dei “nuovi mercenari” di Mosca  sono gli stessi che hanno prestato servizio per la società privata Wagner. Dunque nulla di nuovo all’orizzonte.

La relazione del prestigioso Istituto ha sottolineato che l’organizzazione russa creata dal Cremlino assicura anche” la protezione dei leader militari al potere“, consolidando così il sostegno politico ai regimi militari ”senza alcuna condizione legata alla democrazia, tanto meno ai diritti umani”.

I ricercatori che hanno collaborato al rapporto ritengono che le massicce esecuzioni extragiudiziali e gli atti di tortura perpetrati dai partner russi non fanno altro che alimentare il malcontento di alcune comunità e il reclutamento di jihadisti.

Washington: riallacciare rapporti 

Di fronte all’influenza di Mosca in Africa, in particolare nei Paesi di AES (Alleanza degli Stati del Sahel, che comprende Bukina Faso, Mali e Niger), Washington sta tentando di riallacciare i rapporti con i tre Paesi.

Pochi giorni fa, William B. Stevens, sotto-segretario di Stato aggiunto per i Paesi dell’Africa occidentale si è recato a Bamako. L’emissario di Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, ha dichiarato che “Washington sarebbe ben felice di collaborare con il Mali in svariati campi, come, per esempio, impedire ai terroristi di accedere a fonti di finanziamento o bloccare i loro beni nelle banche.

Finora non si è parlato di una presenza militare americana nei Paesi AES, ma in un suo articolo su RFI Serge Daniel, autorevole e apprezzato giornalista di origini beninois,  ha fatto presente che secondo una fonte diplomatica maliana, gli Stati Uniti aiuteranno il Mali almeno fornendo intelligence. Ma ci si chiede come gli americani potranno lavorare in un’area in cui sono presenti mercenari russi? Ovviamente l’argomento non è stato affrontato con la stampa dal vice-sottosegretario di Stato USA.

Business first

E’ chiaro che gli americani vorrebbero anche concludere affari nella ex colonia francese. A questo proposito Stevens ha annunciato la creazione della Camera di Commercio Americana per gli investitori privati americani che desiderano investire in Mali e lavorare con gli imprenditori locali. Fatto particolarmente apprezzato dal ministro degli Esteri della giunta militare di transizione, Abdoulaye Diop.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
X: @cotoelgyes
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Sahel in fiamme: l’Algeria abbatte drone maliano, congelate relazioni diplomatiche

Palestina: la voce censurata degli israeliani antisionisti

Speciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
Milano, 22 luglio 2025

Vengono censurati più dei palestinesi perché rappresentano il nemico interno. Quello che decostruisce la narrazione sionista, strutturata sulla minaccia del nemico esterno.

Gli israeliani antisionisti sono delegittimati, screditati e perseguitati dai sionisti che vivono in Israele. E totalmente ignorati dall’intera comunità sionista internazionale. La loro voce non esiste all’interno della narrazione politica e giornalistica, ma loro gridano.

Un portavoce dell’organizzazione antisionista israeliana no-profit Zochrot, che da anni lotta a favore del popolo palestinese, spiega: “Facciamo parte di una generazione che si sta liberando dalle nozioni datate di supremazia ebraica e bianca, imparando che la vera pace può essere raggiunta solo attraverso meccanismi di giustizia. Chiediamo il riconoscimento e la responsabilità per i crimini del 1948, il sostegno del diritto al ritorno e l’impegno a costruire una società giusta per tutti in Palestina”.

La paura di strumentalizzazioni esterne e ripercussioni interne è forte, ma, con il passare degli anni, la loro battaglia sta diventando uno dei pochissimi strumenti di contrasto alla legittimazione del genocidio, dell’occupazione armata e del colonialismo economico. “Dire la verità e mettere in luce le strutture coloniali di potere e oppressione è sempre stata la nostra missione. Finché queste strutture rimangono, nessuno può vivere realmente in sicurezza.

Abbiamo avuto la conferma di questa dolorosa verità il 7 ottobre 2023, quando i militanti di Hamas hanno ucciso centinaia di civili, tra cui persone che conoscevamo e amavamo. Da quel giorno, continuiamo a ricevere questo crudele promemoria ogni ora, mentre Israele bombarda indiscriminatamente la Striscia di Gaza in una campagna di vendetta e distruzione senza precedenti” denunciano gli israeliani di Zochrot.

“Le perdite sono dolorose ma non possiamo solo piangere perché mentre lo facciamo, i funzionari israeliani e molti, troppi, nell’opinione pubblica del nostro Paese, continuano a chiedere più sangue invocando la pulizia etnica, il genocidio e una seconda Nakba (catastrofe). I bombardamenti sulle carovane dei palestinesi in fuga, e i corpi estratti dalle macerie, dimostrano che si tratta di un piano. Quindi dobbiamo ricordare a noi stessi, e a tutti, che la Nakba non è mai finita. E che tutto ciò che vediamo deriva dalla creazione della Striscia di Gaza, progettata per essere un ‘ghetto’ pieno di rifugiati. Oggetto di pulizia etnica per creare lo stato di Israele”, spiegano.

Attivisti israeliani di Zochrot che chiedono lo scambio tra prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre 2023

“Diciamo chiaramente che la sicurezza degli israeliani non può dipendere dall’oppressione e dall’espropriazione dei palestinesi. Piuttosto, la nostra sicurezza e il nostro benessere dipendono l’uno dall’altro. In mezzo alla morte e alla distruzione, non è mai stato così importante sostenere la visione della decolonizzazione, del ritorno dei rifugiati, compresi quelli di Gaza, e di uno spazio condiviso, giusto e pacifico per tutti coloro che vivono qui”, commentano.

Poi continuano:”La responsabilità di porre fine al ciclo di violenza spetta a noi, e dovrebbe essere raggiunta attraverso la decolonizzazione. Quando ogni via pacifica o disciplinata verso la liberazione è bloccata, le persone oppresse rispondono con la violenza a decenni di violenza inflitta a loro. L’uccisione di innocenti, soprattutto di bambini, non è mai giustificata, eppure l’unico modo per prevenirla è smantellare i sistemi di oppressione che sono la causa principale di tutto quello a cui abbiamo assistito”, spiegano questi giovani israeliani antisionisti.

“La violenza che subiamo non dovrebbe sorprenderci se scegliamo il silenzio e beneficiamo dei privilegi a spese di un’altra popolazione. Abbiamo il potere di fare la differenza – continuano e aggiungono – È tempo di renderci conto che la giustizia deve essere una parte fondamentale della nostra visione. Dobbiamo valutare ogni vita allo stesso modo. Senza questi principi, la violenza persisterà perché non ci si può aspettare che l’altro viva una vita di oppressione senza resistenza”.

Zochrot promuove la resistenza antisionista contro la politica sionista del governo di Israele: “Il cambiamento è possibile. Ma chi ha il potere di porvi fine? I palestinesi hanno sopportato una lunga storia di occupazione, colonialismo e violenza. Quando parliamo di porre fine al ciclo della violenza, è Israele, in quanto forza occupante e potente, che detiene la chiave per rendere tutto questo una realtà. E la società israeliana deve scegliere una strada diversa. Un vero cambiamento può avvenire solo attraverso una trasformazione del regime esistente che riconosca e si assuma la responsabilità delle continue ingiustizie della Nakba e garantisca l’attuazione del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, ponendo fine al ciclo di violenza”.

Abbiamo contattato anche l’organizzazione israeliana Mesarvot, una rete di attivisti israeliani contro il servizio militare. “Traditori”, così vengono chiamati coloro che rifiutano di far parte del braccio armato del governo sionista.

Tal Mitnick, firmatario della lettera di rifiuto sottoscritta da più di 250 adolescenti israeliani, è stato uno dei primi ad essere incarcerato con l’accusa di diserzione: “Sono qui oggi alla base di Tel Hashmer e mi sto rifiutando di arruolarmi. Credo che l’aggressione criminale a Gaza non sia la soluzione agli atroci attacchi di Hamas. La violenza non elimina la violenza. E per questo mi rifiuto di arruolarmi”, ha dichiarato prima dell’arresto.

I giovani di Mesarvot sono israeliani dell’estrema sinistra radicale in Israele e nonostante le ripercussioni continuano a manifestare il loro dissenso: “Smutrich ha ammesso che Gaza è un ghetto. Pensavamo di essere gli unici a vedere una situazione così scioccante al punto da ricordarci il più grande trauma della nostra storia, ma a quanto pare lo pensa anche il leader religioso sionista. Allora perché quando lo diciamo noi ci chiamano traditori? La differenza è che Smutrich vede questo crimine contro l’umanità e lo considera un mezzo utile al suo scopo: il trasferimento di queste persone, o come dice lui un’immigrazione forzata, e gli insediamenti a Gaza. Israele sta pianificando le sue azioni e quello che sta accadendo ci mostra che non è una guerra contro Hamas, ma contro tutti i palestinesi. Non è fatta per rispondere ai cittadini – sottolinea il movimento di resistenza israeliano e continua – Perdono la fiducia (consenso), ma ottengono vendetta e controllo”.

A Gerusalemme sono presenti anche gli ebrei della comunità ebraica ortodossa antisionista Neturei Karta. Rabbi Yisroel Dovid Weiss, diventato ormai un punto di riferimento internazionale spiega: “Noi siamo la voce della vera comunità religiosa e rappresentiamo la legge ebraica secondo gli insegnamenti della Torah. Siamo a Gerusalemme, nei Territori Occupati, in Argentina, in Sud America, a New York, a Londra e in diverse altre parti del mondo. E ci opponiamo totalmente all’esistenza dello Stato di Israele”.

“Israele si definisce ‘Stato ebraico’, ma il giudaismo si oppone al concetto di occupazione. Ci vieta di uccidere e rubare le terre degli altri – racconta e continua – Nasce tremila anni fa. È la religione degli ebrei e dobbiamo obbedire alla legge ebraica. Noi viviamo rispettando la nostra cultura tramandata nei secoli. Il sionismo invece è un movimento nato molto tempo dopo. È fondato sull’ideologia nazionalista.

La creazione di uno Stato ebraico e un esercito armato va contro la legge ebraica. È difficile dire quanti ebrei e quanti sionisti conoscono la differenza, ma posso assicurare che la maggior parte si oppone al sionismo. L’esistenza dello Stato di Israele, oltre a non essere concepita nella Torah, è fondata sull’occupazione del popolo palestinese. Duemila anni fa, quando Gerusalemme fu distrutta, i profeti ci hanno vietato espressamente di ricostruire un Regno ebraico.

Quando i sionisti definiscono Israele ‘Stato ebraico’, dicono il falso. Nella storia, noi ebrei non abbiamo mai avuto problemi con i musulmani. Ovviamente le religioni sono diverse, ma abbiamo sempre convissuto in pace. Anche in Palestina. Quando sono arrivati i sionisti e hanno occupato la terra in nome degli ebrei hanno commesso un reato inaccettabile. Si sono appropriati della religione e della Stella di David in nome di Dio”, afferma.

“Il nome ‘Israele’ serviva per comprare il consenso internazionale della comunità cristiana. I sionisti utilizzano il giudaismo per ottenere supporto. Utilizzano la nostra identità per legittimare l’esistenza di uno Stato sionista”, continua. “Il Governo israeliano rappresenta i sionisti, non gli ebrei, ma insiste a definirsi ‘Stato ebraico’ davanti all’Europa e agli Stati Uniti. Se parli contro Israele, quindi, diventi un antisemita”, sottolinea il Rabbino.

La narrazione politica e giornalistica omette e censura un dettaglio fondamentale: anche i palestinesi sono semiti, quindi la parola “antisemitismo” è costantemente decontestualizzata: “La nostra comunità esisteva già in Palestina. Ci sono fotografie che ci ritraggono insieme agli arabi. Vivevamo insieme, in pace”, ricorda Rabbi Yisroel Dovid Weiss e conclude:”Palestinesi ed ebrei sono vittime dello stesso oppressore”.

Valentina Vergani Gavoni
valentinaverganigavoni@gmail.com
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Lieto evento in casa Alberizzi: è nata a Milano Mariblu Angela

Africa ExPress
Milano, 22 luglio2025

 Nella clinica Mangiagalli di Milano è nata questa mattina alle 7:22 Mariblu Angela Alberizzi, figlia di Misha Alberizzi, (figlio a sua volta di Massimo, direttore di Africa ExPress, e della giornalista Simona Fossati) computer engineer (ingegnere informatico) nella sede dell’ONU di Montreal in Canada, e della gentile consorte Nicole Pagani.

La piccola, che pesa 3,220 chilogrammi ed è alta 48,5 centimetri, e la sua mamma sono in ottime condizioni di salute. A lei, ai suoi genitori e al suo fratellino Martin e alla sorella più grande Marahja, i più fervidi auguri della redazione e dalla grande famiglia di Africa ExPress.

https://www.africa-express.info/2016/05/11/13377/

Sudan, una guerra caduta nell’oblio: così si continua morire sotto le bombe e di fame

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 luglio 2025

Il Sudan, teatro della più grande crisi umanitaria del momento con oltre 11 milioni tra sfollati e persone che hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi, è una guerra ampiamente oscurata per conflitti e tensioni politiche in altre parti del mondo.

Dall’inizio della guerra civile si stima che siano morte oltre 150 mila persone, ma probabilmente sono molte di più. A tutt’oggi non si vedono spiragli di pace all’orizzonte. E gli scontri, iniziati nell’aprile 2023 tra le Rapid Support Forces (RFS) capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti,” e le forze armate sudanesi (SAF) di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, leader del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, proseguono senza sosta. Il conflitto viene implementato anche “grazie” a svariati attori esterni, come Emirati Arabi Uniti, Libia e non solo.

Nuove sanzioni UE

Venerdì scorso il Consiglio Europeo ha adottato un nuovo pacchetto di sanzioni nei confronti di due personaggi e di due compagnie legate alle parti in causa. Si tratta di due comandanti militari, uno legato a SAF e l’altro alle RFS.

Abu Aqla Mohamed Kaikal in passato aveva disertato dalle RSF per poi unirsi a SAF nel 2024. È stato governatore dello Stato di Jazeera dopo la presa di potere dei paramilitari. E’ ritenuto responsabile di aver preso di mira i Kanabi, un gruppo storicamente emarginato, durante il periodo in cui è stato a capo delle Sudan Shield Forces (raggruppamento armato che combatte con i governativi).

Mentre Hussein Barsham ha svolto un ruolo di primo piano nelle operazioni delle RSF che hanno portato ad atrocità di massa, tra cui uccisioni mirate, violenze etniche, sfollamenti e violenze contro i civili, in particolare nel Darfur.

Le due società colpite dalla scure di Bruxelles sono Alkhaleej Bank e Red Rock Mining Company. La prima è in gran parte di proprietà di società legate ai membri della famiglia di Hemetti e svolge un ruolo essenziale nel finanziamento delle operazioni delle RSF.

La Red Rock Mining Company, la cui società madre è già sotto sanzioni USA, UE e GB, è accusata di agevolare la produzione di armi e veicoli per SAF. Il settore minerario è particolarmente importante perché alimenta il conflitto in Sudan. I giacimenti sono spesso collegati a zone di guerra e rappresentano siti strategicamente rilevanti per le parti in conflitto.

Le sanzioni dell’UE comprendono congelamento di beni e quello di fondi o risorse economiche. Inoltre, alle persone è stato vietato anche l’ingresso nei Paesi dell’Unione europea.

Massacro di civili

Intanto a metà luglio un gruppo di avvocati per i diritti umani sudanesi ha accusato i paramilitari di aver razziato e incendiato villaggi nello Stato del Nord Kordofan e di aver ucciso quasi 300 persone, tra cui bambini e donne incinte.

Sudan: RFS nuova offensiva contro civili inermi in Kordofan

I legali hanno riferito ai reporter di al-Jazeera che nel villaggio di Shag Alnom, più di 200 persone sono state massacrate, bruciate vive nelle loro case o fucilate. In altri piccoli comuni vicini sono stati uccisi altri 38 civili e decine sono stati rapiti. Il giorno seguente, sempre secondo gli avvocati, è stato attaccato anche il centro abitato di Hilat Hamid dove si è consumato un altro bagno di sangue: 46 abitanti ammazzati, tra loro anche bambini e donne incinte.

Va precisato che nei diversi villaggi colpiti dalla furia dei paramilitari non erano presenti obiettivi militari. E secondo OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti) dopo i sanguinosi attacchi, oltre 3.000 persone hanno lasciato le proprie case.

Morti nel deserto durante la fuga

E non capita di rado capita che chi fugge trova situazioni peggiori di quelle cha ha lasciato. Proprio in questi giorni 17 sfollati sono morti durante la fuga nel deserto. Avevano intrapreso il viaggio a Tina, nel Darfur, al confine con il Ciad, con la speranza di raggiungere Ad-Dabba nel Northern State del Sudan. La triste sorte degli sfollati è stata confermata da Abdul Rahman Ali Khairi, Humanitarian Aid Commissioner della regione. I sopravvissuti, tra loro anche 10 donne e 13 bambini, sono stati traferiti all’ospedale militare di Dongola.

Hiam Omar, funzionario dello Stato per lo sviluppo dell’infanzia, ha precisato che alcuni degli sfollati sono stati aggrediti dalla RSF subito dopo aver lasciato Tina.

Espulsioni di massa dalla Libia 

Mentre venerdì, l’Agenzia per la lotta all’immigrazione clandestina di Bengasi ha annunciato che le autorità della parte orientale della Libia hanno espulso più di 700 migranti sudanesi.

Secondo AP i poveracci sarebbero stati rispediti in patria perché affetti da malattie contagiose, come epatite, AIDS. Mentre altri tra i settecento deportati avrebbero alle spalle condanne penali importanti o sarebbero stati mandati fuori dal Paese per “motivi di sicurezza”.

Non è la prima volta che la Libia organizza espulsioni di massa di sudanesi. L’ultima risale allo scorso maggio. Secondo l’UNHCR, ben 500 fuggitivi sarebbero stati spediti da Al Kufra verso la zona di confine tra Sudan, Ciad e Libia. Il gruppo sarebbe stato poi “accolto da personale militare e di sicurezza dell’ex protettorato anglo-egiziano”.

Combattimenti nel Darfur settentrionale

Intanto continuano i combattimenti tra le due fazioni a al-Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, l’unico feudo rimasto ancora sotto controllo dei governativi nella regione. Da mesi la città è costretta a vivere sotto bombe e pallottole. Gran parte della popolazione è fuggita, gli ospedali sono praticamente tutti distrutti e i convogli con aiuti umanitari sono regolarmente sotto attacco. Mancano i beni di prima necessità e, secondo l’ONU, il 40 per cento dei bimbi sotto i cinque anni ancora presenti in città soffrono di malnutrizione acuta. A al-Fasher lo stato di carestia è stato proclamato già alcuni mesi fa.

Sudan: i bimbi defraudati del loro futuro, le prime vittime di questa guerra

E sono proprio i bambini le prime vittime di questo assurdo conflitto. Oltre al cibo, mancano anche i vaccini. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il Sudan è il Paese dove viene effettuato il minor numero di immunizzazioni a livello globale. Fino al 2022 (prima dell’inizio della guerra) il 90 per cento dei bambini sudanesi veniva sottoposto a vaccinazioni di routine, mentre ora si sono ridotte al 48 percento, perché il sistema sanitario è al collasso.

Cornelia Toelgyes
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Sudan inferno in terra: guerra senza sosta da Khartoum al Darfur

Ai ribelli del Sudan armi cinesi via Emirati: e Khartoum rompe i rapporti diplomatici

Gaza: la strategia israeliana dei corpi smembrati per distruggere l’identità di un popolo

Speciale Per Africa ExPress
Valentina Vergani Gavoni
Milano, 19 luglio 2025

Eliminare un popolo significa distruggere la sua identità, farla a pezzi e impedire alle vittime del genocidio di ricostruirla. I corpi palestinesi smembrati dalle bombe israeliane descrivono il reale obiettivo della politica del governo sionista: non lasciare traccia della loro esistenza.

“I palestinesi, però, hanno creato una nuova forma di resistenza alla pulizia etnica”, ha raccontato, in collegamento da Gerusalemme Est, Nadera Shalhoub-Kevorkian, intellettuale femminista palestinese, durante un incontro alla Casa delle Donne di Milano, giovedì 17 luglio scorso.

Collegamento da Gerusalemme Est con Nadera Shalhoub-Kevorkian, durante l’incontro del 17 luglio

Esperta in criminologia e studi sul genocidio, ha spiegato come i palestinesi – davanti ai resti dei propri cari – non si arrendono alla ricerca di qualcosa che possa ricostruire l’identità dei loro corpi smembrati. “In una fossa comune senza tombe e senza nomi, tra pezzi di carne lacerati avvolti da sacchi di plastica, anche un oggetto personale come la stoffa di un indumento può restituire il volto di una madre”, ha sottolineato la criminologa palestinese.

Una resistenza all’ideologia colonialista che tenta di indebolire l’identità del popolo colonizzato riducendo il corpo delle vittime in un’arma di distruzione: “Chi non muore sotto le bombe viene imprigionato nelle carceri israeliane dove le malattie, come la scabbia, vengono trasmesse attraverso il contatto fisco. Una strategia, anche questa, che ha come obiettivo la disgregazione”, sono le parole di Nadera Shalhoub-Kevorkian. I palestinesi, però, resistono al contagio e non smettono di cercarsi per restare uniti.

La locandina dell’incontro alla “Casa delle donna” con i relatori Nadera Shalhoub-Kevorkian e Ashraf Kagee

Il popolo palestinese è infatti percepito come un corpo unico, sia dai palestinesi stessi che dall’intera comunità internazionale. Se la Palestina non esiste come Stato sovrano, esiste come identità nazionale “che sta combattendo non solo per se stessa ma per tutto il mondo”, ha aggiunto Nadera Shalhoub-Kevorkian.

Con lei era presente anche Ashraf Kagee, psicologo sudafricano che ha lavorato molti anni a Gaza: “I palestinesi stanno resistendo al colonialismo economico capitalista perpetuato dai bianchi a partire dal genocidio sperimentato tra l’altro dai nativi americani. Non potrebbero fare quello che stanno facendo senza il supporto degli alleati occidentali”, ha affermato. Subito dopo ironizzando ha aggiunto: “La disumanizzazione dei popoli non bianchi è legittimata da guerre di ‘civilizzazione’ che l’uomo bianco ‘civilizzato’ si arroga il diritto di dover combattere per il bene del mondo intero”.

Gaza: fosse comuni per i cadaveri smembrati, non identificati

La strategia dello smembramento riflette la disgregazione delle classi sociali “che il sistema capitalista produce”, ha spiegato Ashraf Kagee. Dal punto di vista psicologico, però, quello che sta accadendo a Gaza richiede “un nuovo vocabolario perché i termini che utilizziamo non sono sufficienti per descrivere la realtà”, ha sottolineato.

“I palestinesi non devono avere la responsabilità di resistere al colonialismo economico capitalista per tutto il resto del mondo”, ha commentato infine Nadera Shalhoub-Kevorkian. “Anche gli occidentali possono farlo continuando a informarsi. Devono studiare, manifestare e non smettere mai di parlare”, hanno concluso entrambi.

Valentina Vergani Gavoni
valentinaverganigavoni@gmail.com
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Lotta contro il tempo per impedire che la Siria precipiti nell’anarchia

NEWS ANALYSIS
Giovanni Porzio
di ritorno da Damasco, 19 Luglio 2025

Quanto contano i simboli per i popoli del Medio Oriente? Me lo chiedevo alcuni mesi fa ad al-Qrayya, un polveroso villaggio siriano una ventina di chilometri a sud di Suwaida, mentre assistevo alle celebrazioni in onore di Sultan Pasha al-Atrash, condottiero dei Drusi durante la rivolta antifrancese del 1925.

Una grande folla si accalcava nella tomba-santuario del leader scomparso nel 1982: inni patriottici e sventolio di vessilli drusi, uomini a cavallo di scalpitanti giumente arabe, miliziani armati delle brigate di autodifesa, giovani donne nel costume tradizionale. Gli anziani con il fez, l’abito scuro, gli stivaloni e i lunghi baffi ricurvi parevano usciti da un vecchio dagherrotipo.

La immagini dell’Associated Press riprendono gli scontri dei gnomi scorsi tra drusi e beduini

I capi religiosi, volti antichi incorniciati da fluenti barbe bianche, incutevano rispetto. I discorsi finivano tutti con lo slogan reso celebre da Sultan Pasha: ad-din li-llah wa al-watan li-jami, la religione è per Dio, la patria è per tutti.

Drusi in allarme

Non era uno slogan casuale. Da quando l’ex jihadista Ahmed al-Sharaa ha conquistato il potere a Damasco, i drusi sono in allarme. Temono che il nuovo regime, nonostante i proclami inclusivi e la dichiarata volontà di salvaguardare le diversità culturali di cui è composto il mosaico siriano, possa privarli dell’autonomia di cui sono fieri e tenaci assertori.

Si sentono tra due fuochi: da una parte il governo che tenta faticosamente di estendere la propria autorità su un Paese frammentato, lacerato da divisioni etniche e religiose, ostaggio di una costellazione di gruppi armati e con una ventina di basi militari di potenze straniere (Turchia, Stati Uniti, Russia, Israele) impiantate sul suolo nazionale; dall’altra Israele, che con il pretesto di difendere “i fratelli” della comunità drusa siriana (ci sono villaggi drusi nelle alture occupate del Golan e molti drusi militano nelle IDF) pretende una “totale smilitarizzazione” del sud della Siria, ha occupato la sommità del monte Hermon, che domina Damasco e la valle libanese della Beqaa, e ha costruito nove avamposti permanenti sul lato siriano del Golan da cui partono incursioni armate sempre più aggressive con decine di vittime tra i civili.

Israele impedisce Stato unitario

Netanyahu, che non ha gradito la recente stretta di mano tra Donald Trump e al-Sharaa e la parziale revoca delle sanzioni economiche alla Siria, sembra deciso a impedire la nascita di uno Stato siriano unitario che avverte come una potenziale minaccia. Gli scontri dei giorni scorsi a Suwaida, innescati da una faida tra drusi e beduini, s’inquadrano in questo complesso scenario.

Quando le forze di sicurezza siriane sono intervenute per sedare i disordini, che hanno provocato almeno 250 vittime, l’aviazione israeliana ha bombardato il quartier generale dell’esercito a Damasco costringendo le milizie inviate da al-Sharaa a ritirarsi e a riconsegnare ai drusi il controllo del loro territorio.

La comunità drusa è divisa. Bahaa al-Jamal, comandante delle forze druse a Suwayda, è categorico: “Non riconosciamo l’autoproclamato presidente. Non è stato eletto e noi non siamo stati consultati. Accetteremo solo una costituzione federalista che garantisca la piena autonomia delle regioni del Paese”.

Città pluralista

Lo sceicco Yussuf Jarbu’a, uno dei capi spirituali della comunità, è più conciliante. Mi mostra con orgoglio il tempio principale di Suwayda, la biblioteca, gli uffici dei servizi sociali. Elenca i successi dell’amministrazione drusa, la pulizia delle strade, l’efficienza degli ospedali.

Mi parla di una città pluralista che resiste alla logica tribale e confessionale. “Siamo aperti al dialogo con le autorità di Damasco – dice – purché rispetti la nostra identità”. Su un punto s’irrigidisce: “Israele ha sempre cercato di allargare i propri confini. Ma noi non accetteremo mai un’occupazione straniera”.

Problema delle minoranze 

L’inquietudine dei drusi, che si sono finora rifiutati di integrare le loro milizie nell’esercito siriano, e delle altre minoranze, curde e cristiane, è cresciuta dopo i massacri perpetrati lo scorso marzo contro gli alawiti. Più di 1.600 civili, donne e bambini, sono stati trucidati, torturati, mutilati e seppelliti in fosse comuni dai tagliagole uzbeki, ceceni e uiguri che militano nei gruppi qaedisti e dai militari della divisione Hamza e della brigata Sulayman Shah, entrambe affiliate all’Esercito nazionale siriano sostenuto dalla Turchia.

Al-Sharaa ha risposto nominando nel governo provvisorio quattro ministri in rappresentanza delle principali minoranze. Ma il progetto di costituzione conferisce al presidente un potere quasi assoluto: primo ministro, capo delle forze armate e della sicurezza nazionale, facoltà di nominare i giudici, i ministri e un terzo del futuro parlamento.

Sharia fonte nuova Costituzione

Stabilisce inoltre che la sharia, la legge islamica, sarà la “principale fonte” del diritto. E così i cristiani di varia confessione, che prima della guerra erano più di due milioni, si sono ridotti a meno di 400 mila, e chi è rimasto fa carte false per raggiungere i parenti in Australia, in Canada o in Europa.

“Al-Sharaa” mi diceva l’arcivescovo cattolico di Aleppo, Hanna Jallouf, “deve sbarazzarsi degli estremisti salafiti e dei foreign fighters, cresciuti nell’ideologia di al-Qaida e dello Stato islamico. E per questo ha bisogno di tempo”. Ma i siriani, dopo 14 anni di guerra e di privazioni, sono stanchi di aspettare. Gli sfollati interni sono sette milioni: sopravvivono privi di aiuti in tendopoli di fortuna perché le loro case e i loro villaggi sono rasi al suolo. Sei milioni sono rifugiati all’estero.

Impedire che la Siria precipiti nell’anarchia è la priorità della nuova amministrazione. La criminalità è in aumento, le vittime di omicidi, esecuzioni sommarie, scontri armati, deflagrazioni di mine e di proiettili inesplosi si contano a migliaia. I jihadisti dello Stato islamico hanno intensificato gli attacchi nelle province di Raqqa e DeirEzzor, mentre un centinaio di depositi di armi chimiche non sono ancora stati individuati.

Il controllo limitato del territorio

Damasco controlla appena la metà del territorio siriano e con la decisione di dissolvere l’esercito di Assad, una mossa rivelatasi disastrosa nel caso dell’Iraq post Saddam, al-Sharaa dispone solo dei ventimila combattenti del suo movimento (Hayat Tahir al-Sham, Organizzazione per la liberazione del Levante) e non può per il momento disfarsi degli altri gruppi armati senza rischiare una nuova guerra civile. Il licenziamento di quasi mezzo milione di poliziotti e impiegati statali ha inoltre esasperato il malcontento di una popolazione che vive al 90 per cento sotto la linea della povertà, stretta nella tenaglia della disoccupazione e dell’iperinflazione.

Le casse dello Stato sono vuote: non ci sono i soldi per pagare i salari delle forze di sicurezza e dei funzionari dei ministeri. Senza contare l’immensità dei fondi (tra i 500 e i mille miliardi di dollari) necessari per ricostruire un Paese in rovina.

Casse vuote

Damasco e le grandi città sono afflitte da continui black out energetici: negozi e abitazioni privi di pannelli solari o batterie al litio restano al buio e senza acqua corrente. Nella capitale i sobborghi di Yarmuk, Jobar e Harasta sono un cumulo di macerie, come il quartiere armeno ad Aleppo, Baba Amr a Homs e l’intera cittadina di Maarat al-Numan.

Strade, ponti, scuole, ospedali, chiese, moschee e sinagoghe sono gravemente danneggiate. Nei villaggi rasi al suolo dall’aviazione e dalle bombe a grappolo, gli abitanti superstiti sono accampati tra gli scheletri delle loro case. “Qui almeno la metà degli edifici sono distrutti”, afferma Mahael-Shaer, sindaca dell’aramaica Maalula, patrimonio dell’Unesco.

Lo scenario geopolitico è altrettanto fosco. Gli Stati Uniti mantengono le loro basi nella zona petrolifera a est dell’Eufrate e hanno spinto Mazloum Abdi, leader curdo delle SDF (Forze democratiche siriane, partner della coalizione antiterrorismo a guida americana), a un accordo con Damasco che prevede il cessate il fuoco e l’integrazione entro un anno delle forze curde nel futuro esercito siriano.

Ruolo Turchia

Ma nel frattempo, gli scontri tra peshmerga curdi e milizie filoturche non sono mai cessati. La Turchia, principale sponsor di al-Sharaa, tratta la Siria come terra di conquista: consolida le posizioni nel nord (ad Aleppo è già in uso la lira turca), mira a espandere la propria sfera d’influenza e vede l’opportunità di stroncare definitivamente le ambizioni dei curdi nella regione autonoma del Rojava.

Il pesante bombardamento israeliano su Damasco è anche un avvertimento a Erdogan. Il rischio è che la strategia di Netanyahu entri in rotta di collisione con quella di Ankara. Lo scontro a distanza tra le due potenze regionali è già in corso. Con Tel Aviv che accusa la Turchia di volere instaurare un protettorato in Siria e la Turchia, membro della Nato, che ritiene Netanyahu “il maggiore pericolo per la sicurezza del Medio Oriente”. Ancora una volta, è improbabile che il destino della Siria sarà lasciato nelle mani dei siriani.

Giovanni Porzio
porzio.giovanni@gmail.com
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“My way”, Trump e la sua agenda per il Medioriente

Trump non demorde: migranti deportati a eSwatini (ex Swaziland)

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
17 luglio 2025

Destinazione eSwatini (ex Swaziland). L’amministrazione Trump ha spedito altri 5 migranti nel piccolo Paese dell’Africa meridionale, governata da Mswati III, l’ultimo monarca assoluto del continente. Qualche anno fa il re è stato accusato di reprimere il dissenso con la violenza.

Mswati III
Mswati III, re di eSwatini

Nel 2021 le forze di sicurezza avrebbero ucciso decine di persone durante manifestazioni a favore della democrazia. In seguito, diversi politici sono stati condannati a lunghi anni di carcere per istigazione alla violenza. Ma secondo i critici tali accuse sarebbero state inventate di sana pianta per mettere a tacere le voci del dissenso.

“Criminali barbari”

La portavoce del dipartimento di Sicurezza nazionale, Tricia McLaughlin, ha precisato che i detenuti portati forzatamente nelle carceri di eSwatini provengono da Vietnam, Giamaica, Cuba e Yemen. Sono stati condannati negli USA per svariati crimini gravi. “Sono individui talmente barbari, che nemmeno i loro Paesi di origine li hanno voluti accogliere”, ha sottolineato la McLaughlin.

USA: deportazione migranti verso Paesi terzi

Le autorità di eSwatini hanno confermato l’arrivo delle persone deportate dagli USA. Una portavoce del governo del regno, Thabile Mdluli, ha spiegato che le deportazioni sono il risultato di lunghe trattative e solidi impegni a altissimi livelli.

Secondo quanto dichiarato dalla portavoce di eSwatini, il regno dell’Africa meridionale intrattiene ottimi rapporti con gli Stati Uniti da oltre 50 anni. Ed è proprio per questo motivo che ogni accordo stipulato tra i due governi mette in primo piano gli interessi di entrambe le nazioni.

Diritti umani

La portavoce ha però ammesso che ci sono dei problemi relativi ai diritti umani nell’accettare persone trasferite forzatamente in un Paese terzo, come eSwatini, che ovviamente non è quello d’origine dei deportati. “Il regno collaborerà con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per facilitare il transito dei detenuti nelle rispettive nazioni di appartenenza”.

ICE: preavviso di 6 ore

Secondo una nota del 9 luglio di Todd Lyons, direttore ad interim dell’Agenzia federale USA Immigration and Customs Enforcement generalmente – resa nota dal Washington Post – ICE attende almeno 24 ore per espellere una persona dopo averla informata del suo allontanamento in un cosiddetto “Paese terzo”. Tuttavia, secondo il memorandum, in circostanze eccezionali l’Agenzia federale potrebbe espellere anche con un preavviso di sole sei ore, a condizione che la persona abbia la possibilità di parlare con un avvocato.

La nota precisa poi che i migranti possono essere inviati in nazioni che si sono impegnate a non perseguitarli o torturarli.

6 milioni di dollari a El Salvador

Già a marzo Washington ha inviato oltre 200 venezuelani a El Salvador. Appena arrivati, le loro teste sono state rasate a zero e poi sono stati rinchiusi nel Centro di Confinamento per il Terrorismo (CECOT). In questa prigione di massima sicurezza le condizioni dei detenuti sono state paragonate alla tortura. Secondo alcune fonti, l’amministrazione Trump avrebbe sborsato quasi 6 milioni di dollari al governo salvadoregno per ospitare in quella putrida galera i deportati dall’America.

A maggio Washington avrebbe voluto trasferire altri detenuti anche in Libia, fatto ovviamente negato da funzionari governativi di Tripoli. Un tribunale federale aveva bloccato all’ultimo momento tale l’espulsione. Ma gli avvocati degli immigrati coinvolti hanno dichiarato ai media statunitensi che un aereo, già pronto in pista all’aeroporto per il decollo, era stato fermato all’ultimo momento proprio grazie all’ordine della Corte.

Il 5 luglio scorso, dopo varie peripezie, sono atterrati in Sud Sudan altri 8 deportati, condannati per reati gravi negli Stati Uniti. Solo uno tra loro è sud sudanese, due sono originari dal Myanmar, due da Cuba, mentre uno dal Vietnam, un altro da Laos e l’ultimo dal Messico.

Sud Sudan Paese a rischio

L’arrivo dei condannati al trasferimento forzato è stato confermato dal dipartimento della Sicurezza interna di Washington e dal ministero degli Esteri di Juba. Gli otto sono rimasti per alcune settimana alla base militare statunitense di Gibuti, dopo che un giudice americano aveva sospeso questa forma di espulsione, in quanto ai migranti non era stata data una “opportunità significativa” di contestarla.

Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, a destra e Riek Machar, leader dell’opposizione e primo vice-presidente

La Corte suprema USA ha poi convalidato l’espulsione dei detenuti verso il Sud Sudan, uno tra i Paesi più poveri al mondo.

Il più giovane Stato della Terra ha avuto l’indipendenza dal Sudan solamente nel 2011 e da allora ha conosciuto pochi anni di pace. E, a tutt’oggi, la situazione del Paese resta instabile.

Durante la guerra civile (2013 – 2018) sono morte oltre 400mila persone e dallo scorso gennaio le tensioni tra il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar, agli arresti domiciliari, sono alle stelle. Secondo le Nazioni Unite, tra gennaio e aprile sono state uccise almeno 900 persone. L’ONU teme che da un momento all’altro possa riesplodere un conflitto interno su larga scala. E il dipartimento di Stato USA sconsiglia ai propri cittadini viaggi nel Paese africano a causa di “crimini, rapimenti e conflitti armati”.

Finora non sono stati resi noti dettagli su un accordo tra il Sud Sudan e gli USA circa la deportazione degli 8 detenuti. Va ricordato però che all’inizio dell’anno, Marco Rubio, segretario di Stato di Washington, ha revocato tutti i visti per i titolari di passaporti sud sudanesi, per il rifiuto del Paese di accettare i propri cittadini espulsi.

Altre trattative in corso 

Il diritto internazionale vieta il trasferimento di migranti irregolari verso nazioni in cui rischiano la tortura o l’esecuzione. Intanto Washington sta lavorando per espandere le deportazioni verso altri Paesi terzi.

Cornelia Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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Dinka contro Nuer, Sud Sudan nel caos: rischio nuova guerra civile

ESwatini: ucciso avvocato e difensore per i diritti umani mentre il re fustiga gli oppositori al suo regime

“Gaza, il silenzio che urla”. Le testimonianze strazianti dalla Striscia all’Umanitaria di Milano

Speciale Per Africa Express
Valentina Vergani Gavoni
16 luglio 2025

Ai giornalisti internazionali è vietato entrare a Gaza. E solo pochi operatori umanitari riescono a portare fuori la loro testimonianza.

Lunedì 14 luglio a Milano – presso la sede della Società Umanitaria in via San Barnaba 48 – Federica Iezzi, medico e giornalista appena rientrata dalla Striscia, ha raccontato ciò che ha visto e vissuto in prima persona come cardiochirurgo pediatrico.

L’Auditorium deli’Umanitaria, dove si è svolto il convegno, era completamente pieno. Nonostante i tempi molto brevi per organizzare l’evento e le vacanze estive che potevano essere un deterrente, quello che sta accadendo in Palestina è arrivato alle coscienze di molti. E chi aveva la possibilità di raggiungere il capoluogo lombardo non ha perso l’occasione per ascoltare una voce che arriva dall’inferno di Gaza.

 

I racconti di Federica Iezzi hanno portato all’esterno una realtà censurata da un blocco totale imposto dal governo israeliano. Al fianco degli operatori sanitari palestinesi, la dottoressa italiana ha operato nell’ospedale Kamal Adwan, attaccato e distrutto dai bombardamenti. Il direttore Hussam Abu Safiya è stato arrestato il 27 dicembre 2024. E come lui, moltissimi sono i civili prigionieri nelle carceri israeliane.

Le immagini evocate dalle parole di una delle pochissime persone entrate a Gaza hanno suscitato emozioni devastanti quando il pubblico le ha potute vedere sullo schermo. Video filmati dalla stessa operatrice umanitaria che tra rabbia e commozione ha descritto nel dettaglio il momento in cui stava operando una bambina ed è arrivato l’avviso di evacuare l’ospedale entro 20 minuti. “Non potevo farlo”, ha affermato con le lacrime agli occhi. Non poteva lasciarla morire e si è rifiutata di abbandonarla.

“Non sono andata a Gaza per criticare Israele. Sono entrata per fare il mio lavoro”, ha sottolineato. E da medico ha raccontato come i bambini vengono amputati senza anestesia, solo con la tachipirina perché manca tutto: “Non avevamo neanche i letti per i pazienti”.

Per spiegare cosa sta accadendo davvero ha riportato la voce di un’altra bambina che prendendola per mano le ha detto: “Mi stai portando al cimitero”.

Con lei era presente al convegno anche Federica D’Alessio, giornalista e fondatrice di Kritica.it, una testata giornalistica che analizza e denuncia l’orrore che arriva all’esterno della Striscia di Gaza. “Il popolo palestinese in questo momento rappresenta il paradigma di quello che potrebbe succedere a tutti i popoli del pianeta. Se si afferma che è normale criminalizzare un intero popolo in risposta a un attentato terroristico, o per qualunque motivo, e procedere con il genocidio di questo popolo in nome dell’autodifesa vuol dire che siamo tutti minacciati. E che tutti potremmo essere, in futuro, trattati nello stesso modo”, ha spiegato Federica D’Alessio alle persone in sala.

A moderare l’incontro era Massimo Alberizzi, corrispondente storico dall’Africa del Corriere della Sera, direttore dei quotidiani Africa ExPress e Senza Bavaglio.  Un’occasione questa per affermare il diritto all’informazione e resistere alla repressione della libertà di stampa.

La partecipazione di così tante persone ha confermato l’esigenza di conoscere la verità. Ha dimostrato a chi continua a censurarla che il popolo non è più disposto a credere alla falsificazione sistematica della realtà. E le urla dal silenzio non possono più essere ignorate.

Valentina Vergani Gavoni
valentinaverganigavoni@gmail.com
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USA coinvolti nel genocidio: ex portavoce del Pentagono ed ex agenti CIA nella campagna mediatica di Israele

USA coinvolti nel genocidio: ex portavoce del Pentagono ed ex agenti CIA nella campagna mediatica di Israele

Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
15 luglio 2025

Ci sono anche un ex portavoce del Pentagono e alcuni dirigenti della CIA a occuparsi della comunicazione di UG Solutions e di Safe Reach Solutions, le aziende coinvolte nel genocidio in corso a Gaza.

E’ l’ennesima prova della regia USA, nell’intera operazione di rioccupazione militare della Striscia ad opera delle forze di difesa israeliane (IDF). Secondo un report dei giorni scorsi di URWA ormai l’esercito dello Stato ebraico ha ristretto la popolazione palestinese nel 17,5 per cento della Striscia.

Le rovine di Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, gennaio. Crediti: Mohammed Salem/Reuters

La comunicazione serve a restituire al mondo un’immagine rassicurante coprendo gli orrori che stanno succedendo. Si parte dalla terminologia. Tutta l’operazione che serve a massacrare centinaia di gazawi in cerca di cibo ogni giorno deve essere mascherata come un’attività di alto valore umanitario.

E quindi l’azienda di contractor che coordina il massacro si chiama Gaza Humanitarian Fundation, come Africa ExPress ha già raccontato. La narrazione è che la Fondazione distribuisce cibi e aiuti alla popolazione ormai alla fame e che le truppe armate combattono i disordini e i tentativi di saccheggi da parte di Hamas, questione smentita in diverse occasioni da Hamas stessa.

Di umanitario non c’è niente, visto che decine di inchieste hanno dimostrato che ogni giorno vengono ammazzati donne, bambini e gazawi attirati verso i centri di distribuzione per la fame, come ha dimostrato anche la televisione americana CBS.

La parola umanitario ha successo visto che pochi giorni fa è emerso che il governo israeliano prepara una Humanitarian City, tra Rafah e l’Egitto, dove confinare definitivamente almeno 600 mila gazawi destinati ad emigrare in qualche paese straniero.

Hamas ha già risposto che non accetta la trattativa in questi termini e che la città  un ghetto. D’altra parte anche i campi di sterminio nazisti portavano la scritta Il lavoro rende liberi come fossero campi di lavoro per prigionieri di guerra.

Ma torniamo al coinvolgimento USA. A ricostruire il ruolo di alti apparati degli Stati Uniti è il giornalista Jack Poulson: ha scoperto che la pagina dedicata alla comunicazione con i media di UG Solutions, una delle aziende che collabora con la Fondazione, è stata creata da Seven Letter. Seven Letter ha pagato addirittura Sabrina Sigh una ex portavoce del Pentagono.

L’azione dell’azienda non si ferma alla comunicazione a proposito di UG, ma diffonde fakenews anche sull’operato dell’IDF, l’esercito israeliano, coprendo i crimini di guerra in corso (Gaza Humanitarian Foundation’s private military contractor hires crisis comms firm led by former Biden and Obama spokespersons)

Per altro, come ricostruisce anche Greyzone, https://thegrayzone.com/tag/seven-letter/  Seven Letter agisce sulla scia di SKDK, altra aziende top di comunicazione statunitense, che di recente impiega Vedant Patel, ex portavoce del Dipartimento di stato di Biden, particolarmente ferrato nel negare delitti documentati compiuti contro i palestinesi nei Territori occupati. SKDK rappresenta 10/7 Project, un consorzio di organizzazioni ebraiche nato con il 7 ottobre 2023, data dell’attacco di Hamas in Israele.

L’attività di questi gruppi di comunicazione fa apparire e sparire pagine e articoli e video a seconda delle convenienze. Mentre il genocidio è in corso qualche contractor, finita la missione, ha dato alla stampa un video in cui si vede chiaramente in che cosa consiste l’attività militare di appoggio all’esercito israeliano.

Ma Greyzone ha anche scovato un video pubblicato da UG Solutions stessa in un comunicato stampa: si vede chiaramente che i cecchini sparano sulla folla di gazawi affamati. Appena uscita la notizia su Greyzone l’intera pagina è sparita dalla rete o meglio il video è stato eliminato ed è apparsa una pagina web edulcorata con una datazione precedente.

Lo sforzo di tutto questo apparato di comunicazione è far sembrare che i reparti di mercenari in azione per la Gaza Humanitarian Foundation sono lì per impedire che Hamas saccheggi i viveri destinati alla popolazione. Per altro anche Safe Reach Solutions, altra azienda nata dal nulla che lavora con la Fondazione, è retta da un ex capo della Cia, Philip Francis Reilly. Le aziende di contractor hanno iniziato a operare a maggio e da allora si sono demoltiplicati i morti.

Dalla Striscia intanto continuano a uscire video e immagini pubblicati in rete dai palestinesi. L’inferno e l’orrore sono quotidiani. Uscire da Gaza verso l’Egitto costa 5 mila dollari a persona. Non si riesce a lasciare neppure volendo la morte e la guerra. Molte famiglie hanno lanciato appelli per chiedere soldi per evacuare.

Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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