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Gli ostaggi di MSF liberati in Darfur, pagato il riscatto, Frattini smantisce

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 15 marzo 2009

Finalmente liberi i quattro operatori umanitari di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì a Seraf Umra nel nord Darfur. Hanno raggiunto Khartoum ieri sera abbastanza tardi. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer e il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier, nel pomeriggio erano stati prelevati da un elicottero militare sudanese dal luogo di detenzione e portati a El Fasher, capitale del nord Darfur. Lì un aereo li ha caricati a bordo e hanno potuto così raggiungere la capitale sudanese dove li ha accolti l’ambasciatore italiano Roberto Cantone e una delegazione di Msf, che li ha presi in consegna e li ha portati all’ospedale centrale di Khartoum per i primi accertamenti sullo stato di salute. Sono comunque in buone condizioni, la loro prigionia è durata meno di tre giorni.

croce rorraResta il mistero di cosa sia accaduto nelle ultime 24 ore. Venerdì sera la loro liberazione era stata data per certa dalla Farnesina e da Msf. Poi però era giunta la smentita del governatore del nord Darfur, che aveva, senza mezzi termini, criticato il ministero degli esteri italiano per aver diffuso una notizia “non corretta”. “Sto trattando io la liberazione – aveva detto Osmane Mohammed Yousif Kibir, parlando al servizio arabo della BBC – . Gli ostaggi sono ancora prigionieri”. Poi, contattato al telefono dallo stringer di Africa ExPress a Khartoum, aveva aggiunto: “Impossibile che siano stati rilasciati. I soldi sono ancora sulla mia scrivania!”

Secondo fonti confidenziali del governo sudanese, tutte da verificare, l’accordo sulla liberazione era stato veramente raggiunto venerdì ma, all’ultimo momento, si è verificato un intoppo. Tra le richieste iniziali dei rapitori – un gruppo filogovernativo conosciuto come Border Gards (Guardie di frontiera) – non figurava solo  un milione di dollari di riscatto, ma soprattutto l’impegno della Francia a muoversi per cancellare il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale (Cpi) contro il presidente sudanese Omar Al Bashir per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

La pretesa aveva imbarazzato non poco lo stesso governo sudanese che, durante le trattative, aveva chiesto alla gang di rapitori di non insistere. Una parte del gruppo aveva accettato, ma l’ala più oltranzista, e più realista del re, non aveva intenzione di cedere e si era rifiutata di consegnare gli ostaggi. Da qui il ritardo. Il negoziato era continuato serrato ieri mattina, finché sono dovute intervenire le sfere più alte del regime (qualcuno dice lo stesso Al Bashir) per convincere i più radicali. Alla fine ci sono riusciti, la rivendicazione politica è stata abbandonata ma sul riscatto non c’è stato niente da fare.

** FILE ** In this Monday, April 23, 2007 file photo, Sudanese Darfur survivor Ibrahim holds human skulls at the site of a mass grave where he says the remains of 25 of his friends and fellow villagers lie, on the outskirts of the West Darfur town of Mukjar, Sudan. The International Criminal Court issued an arrest warrant Wednesday, March 4, 2009 for Sudanese President Omar al-Bashir on charges of war crimes and crimes against humanity in Darfur. (AP Photo/Nasser Nasser, File)
** FILE ** In this Monday, April 23, 2007 file photo, Sudanese Darfur survivor Ibrahim holds human skulls at the site of a mass grave where he says the remains of 25 of his friends and fellow villagers lie, on the outskirts of the West Darfur town of Mukjar, Sudan. The International Criminal Court issued an arrest warrant Wednesday, March 4, 2009 for Sudanese President Omar al-Bashir on charges of war crimes and crimes against humanity in Darfur. (AP Photo/Nasser Nasser, File)

Le autorità sudanesi immediatamente hanno detto che non si doveva versare un soldo, ma la prigionia sarebbe andata ancora avanti per qualche giorno. Per velocizzare il rilascio qualcuno ha deciso di pagare “le spese”. Dal milione iniziale si è scesi a 400/500 mila dollari, probabilmente pagati dai tre governi interessati. Il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini ha smentito che sia stato pagato alcun riscatto.

Comunque ieri pomeriggio l’elicottero militare ha potuto raggiungere il luogo di detenzione e portare via gli ostaggi, risparmiando loro un viaggio in auto di più di quattro ore sulle disastrate piste darfuriane.

Christopher Stokes, direttore generale di MSF Belgio ha detto di essere indignato per il rapimento “che rappresenta una grave violazione di tutto ciò per cui ci battiamo. Il sequestro di operatori umanitari mette in pericolo l’assistenza alle popolazioni. Il nostro lavoro medico indipendente deve essere rispettato se vogliamo continuare a operare in zone di conflitto per salvare le vite ci coloro che soffrono di più.”.

“Questo rapimento  – ha concluso il direttore di MSF Belgio – rappresenta un’escalation dell’insicurezza che gli operatori umanitari devono fronteggiare in Darfur. Come conseguenza MSF è stata costretta a ridurre notevolmente tutte le attività mediche nella regione”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Darfur, liberati i 4 cooperanti Msf Il rilascio dopo il giallo sulla liberazione

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 14 marzo 2009

Indietro tutta. Gli ostaggi di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti la sera di mercoledì a Seraf Umra nel nord Darfur, non sono stati liberati. Ieri sara la Farnesina, violando un silenzio stampa da lei chiesto perentoriamente, aveva trionfalmente annunciato: “Sono liberi”. Invece a tarda sera aveva fatto macchina indietro “Stiamo verificando”. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer, il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier e una delle loro guardie sudanesi, dunque, sono ancora nelle mani della gang che li ha catturati.

Ieri sera infatti – dopo l’annuncio della Farnesina – era apparso  strano che mancassero ancora i dettagli sulla liberazione e in particolare nessuna autorità, né le famiglie, avessero ancora parlato con i tre volontari, nemmeno Medici Senza Frontiere. Sulla loro sorte era nata quindi un po’ di confusione. Tanto che più tardi il ministero degli Esteri è stato costretto a precisare: “Alla luce del mancato contatto di Medici Senza Frontiere con i loro operatori coinvolti nel sequestro, stiamo cercando di verificare quanto precedentemente appreso sulla liberazione”. Stamattina alle 7.30 ora italiana radio Omdurman, monitorata a Khartoum dallo stringer di Africa ExPress ha annunciato che saranno liberati entro poche ore.Unamid in Darfur

Gli ostaggi, secondo quanto appreso nella capitale sudanese, avrebbero dovuto viaggiare in auto quattro ore per raggiungere dal luogo della loro detenzione, la città più vicina, El Fasher. L’attesa è stata vana. Finora agli uffici dell’ONU del capoluogo del nord Darfur non si è presentato nessuno.

Altri dubbi sulla liberazione erano sorti quando il governo del nord Darfur, contattato a tarda sera al telefono dallo stringer del Corriere a Khartoum, si era rifiutato di confermare la liberazione. Poco dopo lo stesso governatore, Osmane Mohammed Yousif Kibir, parlando al servizio arabo della Bbc aveva dichiarato: “L’informazione del ministero degli Esteri italiano non è corretta. Sono io che sto trattando con i sequestratori che hanno ancora in mano gli ostaggi”. Nessuna conferma della liberazione era stata data dalle autorità francesi e canadesi.

Forse a trarre in inganno Medici Senza Frontiere (che per primo ha dato la notizia) era stata la dichiarazione di ieri pomeriggio del sottosegretario agli Esteri sudanese Mutrif Siddig: “Sono cominciate le trattative per il loro rilascio”, aveva sostenuto, senza menzionare l’ammontare del riscatto richiesto: un milione di dollari.

“Non è stato pagato alcun prezzo”, aveva aggiunto Msf nel suo comunicato sulla liberazione, forse per compiacere alla Farnesina che, anche davanti all’evidenza, nega sempre che siano pagati riscatti in cambio di liberazioni.

Il luogo in cui sono stati tenuti gli ostaggi, secondo informazioni che vengono dall’intelligence sudanese a Nairobi, “è isolato in mezzo alla boscaglia e lontano da villaggi”. La stessa fonte ammette: “Nel commando che li ha portati via mercoledì sera c’era un uomo che portava un’uniforme. Difficile dunque che si tratti di banditi ma piuttosto di miliziani filogovernativi”.

Le richieste iniziali dei rapitori non riguardavano solo un milione di dollari di riscatto, ma anche l’impegno della Francia a sostenere la richiesta al Consiglio di Sicurezza, che si discuterà nei prossimi giorni, di procrastinare di un anno l’esecuzione del mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità emesso dalla Corte Penale Internazionale contro il presidente sudanese Omar Al Bashir.

Mutrif Siddig ieri aveva anche smentito questa notizia pubblicata da un giornale arabo. E aveva aggiunto — per rassicurare le ambasciate occidentali — che non era nelle intenzioni del governo di organizzare blitz per liberare gli ostaggi.

In ogni caso quello dei tre cooperanti sembra un sequestro anomalo, probabilmente da attribuirsi non a banditi comuni, né a ribelli darfuriani, ma piuttosto a sostenitori del presidente Omar Al Bashir.

Il Jem (Justice and Equality Movement), il gruppo ribelle più forte e attivo in Darfur, ha accusato Mussa Hilal, uno dei capi riconosciti dei Janjaweed, i miliziani arabi che scorrazzano su puledri o su cammelli, bruciano i villaggi, seviziano e ammazzano le popolazioni di origine africana, di avere organizzato il rapimento, per ammorbidire le posizioni della Cpi.

Il sequestro ha provocato la partenza in massa del personale internazionale delle organizzazioni umanitarie. La popolazione del Darfur e i rifugiati (che le Nazioni Unite calcolano in 2,7 milioni) nei campi di sfollati resteranno praticamente senza assistenza.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

Darfur, localizzati i cooperanti rapiti: “È stato chiesto un maxi riscatto”

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 13 marzo 2009

Stanno bene e sono stati localizzati dalle autorità sudanesi i tre cooperanti di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì sera a Seraf Umra, in nord Darfur, da un commando di uomini armati fino ai denti. Il medico italiano Mauro D’Ascanio, l’infermiera canadese Laura Archer e il coordinatore sanitario francese Raphael Meonier hanno potuto parlare con i loro colleghi e rassicurarli sulle loro condizioni di salute. Intanto insistenti voci a Khartoum parlano di un milione di dollari di riscatto chiesti per ottenere il loro rilascio.

Il governo ha fatto sapere che riuscirà a chiudere la vicenda il un paio di giorni segno che le autorità avrebbero qualche influenza sui rapitori. La zona del sequestro è controllata dai governativi e si teme che la banda possa far parte dei miliziani janjaweed, i famosi diavoli a cavallo. Il gruppo avrebbe agito su ordine preciso delle autorità centrali. Resta il fatto, accertato, che si tratta di arabi bianchi e non di africani neri.

dascanio liberato

In un comunicato inviato ai corrispondenti occidentali a Nairobi, Hassabo Abdel-Rahman dell’ufficio degli affari umanitari del governo sudanese, ha annunciato appunto che i tre rapiti hanno potuto telefonare ai loro colleghi di MSF e assicurarli che non è stato torto loro un capello. “Abbiamo interrogato le due guardie sequestrate con loro qualche attimo e poi rilasciate ma non ci hanno fornito elementi per individuare i rapitori. Non sappiamo ancora chi siano. E’ un atto isolato e immorale”, ha concluso Abdel-Rahman.

Ahmed Hussein Aden, portavoce del JEM (Justice and Equality Movement), principale movimento ribelle, che si trova nella sua base in Darfur, contattato al telefono satellitare, usa parole durissime: “Da informazioni precise, sappiamo che il commando dei rapitori era composto da 9 miliziani arrivati con una camionetta. Fanno parte di un gruppo janjaweed chiamato Border Guard. I tre occidentali sono stati portati a Gellyh un campo paramilitare a nord est di Kebkabiya, quartier generale di Mussa Hilal, uno dei più sanguinari capi delle milizie filogovernative”.

E’ la prima volta che si registra un rapimento in Darfur. Si teme soprattutto per la vita del volontario francese. Nei giorni scorsi il presidente Nicolas Sarkozy è stato assai duro con il capo dello stato Omar Al Bashir, contro il quale il 4 marzo è stato autorizzato dalla Corte Penale Internazionale un mandato d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Gli ambienti diplomatici delle Nazioni Unite a Khartoum sono assai preoccupati della piega che potrebbero prendere gli avvenimenti. Qualche giorno fa il presidente Bashir aveva minacciato di espellere dal Paese tutti i diplomatici occidentali e tutte le Ong se non avessero rispettato le leggi locali, una delle quali, recente, proibisce di collaborare con gli investigatori della Corte Penale Internazionale.

Le trattative con i rapitori sulla base della richiesta di un riscatto sono state confermate dall’Unamid, la missione mista Unione Africana/Nazioni Unite in Darfur. Josephine Guerriero, portavoce dell’organizzazione a Khartoum, contattata al telefono dal Corriere, ha raccontato: “Alcune richieste sono state già avanzate”.

Non si esclude che le rivendicazioni possano anche essere politiche: una pressione sul Consiglio di Sicurezza che nei prossimi giorni dovrà decidere se rimandare di un anno l’esecuzione del mandato di cattura nei confronti del presidente Al Bashir.

Hassan Al Turabi, l’islamista e oppositore storico di Bashir uscito di galera l’8 marzo, per aver dichiarato in gennaio che il presidente sudanese avrebbe dovuto consegnarsi alla Corte Internazionale per evitare al Paese sanzioni internazionali, non ha dubbi. Turabi (certamente uomo di gran coraggio) al telefono con il Corriere sentenzia: “I rapitori? Probabilmente servi del governo. La nazionalità dei sequestrati non deve avere importanza. Erano qui per aiutare la popolazione. Questa è una minaccia contro le organizzazioni umanitarie per impedirgli di continuare a lavorare”.

Subito dopo il rapimento Msf ha annunciato la chiusura di tutte le attività nella provincia occidentale sudanese. Qualche giorno fa erano stati espulse le sezioni olandese e francese dell’agenzia, assieme ad altre 11 organizzazioni non governativa. La catastrofe umanitaria rischia di diventare sempre più smisurata

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Sudan, Bashir libera il suo oppositore storico Hassan Al Turabi

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 9 marzo 2009

Hassan al Turabi, l’ideologo islamico ex alleato del presidente sudanese Omar Al Bashir al momento del colpo di Stato che lo portò al potere il 30 giugno 1989, è stato liberato stanotte alle 23 dalla prigione di Port Sudan. Alle 3 del mattino un aereo militare l’ha riportato a Khartoum. Turabi è tra i più fieri oppositori del regime militare sudanese ed era stato messo in manette per l’ennesima volta il 14 gennaio dopo aver dichiarato ai giornalisti che «Al Bashir farebbe bene a consegnarsi al tribunale internazionale per evitare altre sofferenze al Paese e alla sua popolazione». Considerato dagli americani un vicino ad Al Qaeda o comunque ai fondamentalisti radicali, Hassan Al Turabi è l’unico leader politico sudanese che gode di un prestigio e di un’autorevolezza tali da poter impensierire politicamente Bashir e i suoi amici. Le sue opinioni – rilasciate in diverse interviste al Corriere della Sera – non sono per nulla integraliste, ma piuttosto liberali, naturalmente visto il contesto islamico e sudanese. Turabi, 77 anni nel febbraio scorso, ha studiato alla Sorbona di Parigi e a Londra e parla correntemente francese e inglese. E così le sue tre figlie che non solo non usano il burqa ma coprono il capo con un velo leggerissimo che lascia intravedere capelli e collo.

Hassan Al Turabi con Massimo Alberizzi durante un’intervista tre anni fa

LA MOGLIE: «SONO FELICE» – Al telefono di casa Turabi risponde la moglie Wisal, sorella di un altro leader politico sudanese, Sadiq Al Mahadi, primo ministro al momento del colpo di stato di Bashir. «Siamo felicissimi anche se non sappiamo perché è stato rilasciato. Per altro non abbiamo mai saputo perché è stato imprigionato. Non gli sono mai state rivolte accuse specifiche. Mio marito è stanchissimo e dorme. Ha i postumi di una brutta polmonite. Gli hanno ridato anche il passaporto», conclude con un ottimo inglese.

LA SCELTA DI BASHIR – Con la liberazione del suo più acerrimo nemico, Bashir tenta di blandire l’opinione pubblica islamica. Con il viaggio in Darfur di domenica ha voluto sfidare la Corte Penale Internazionale che ha spiccato un mandato di cattura contro di lui. Ha così ribadito che è in controllo della situazione. La scarcerazione di Turabi invece è una mossa per ammorbidire l’opposizione interna, soprattutto islamica, ma anche politica; quella della setta Ansar e del suo braccio operativo, il partito Umma, dell’ex primo ministro Sadiq Al Mahadi, e quella del partito-setta Khatmia dell’ex presidente Osman Al Mirghani. Sadiq e Mirghani sono stati cacciati da Bashir con il colpo di stato del 1989 che lo portò al potere. Il presidente oggi può fidarsi ciecamente solo della tribù dei Giaali, la sua, che vive a nord di Khartoum. La Corte Penale Internazionale probabilmente non riuscirà mai a arrestare il leader incriminato, finché rimane capo dello stato. Ma se dovesse esserci un cambio di regime, forse le cose per lui potrebbero mettersi male.

Massimo A. Alberizzi
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09 marzo 2009 (ultima modifica: 10 marzo 2009)

Crimini contro l’umanità in Darfur, mandato di arresto per Al Bashir

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 4 marzo 2009

I tre giudici della prima camera preliminare della Corte Penale Internazionale (vengono dal Ghana, dalla Lettonia e dal Brasile) hanno autorizzato l’arresto del presidente del Sudan Omar Al Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I magistrati hanno lasciato cadere l’accusa di genocidio. Ma solo per ora, perché se durante l’inchiesta emergeranno nuovi elementi, l’imputazione potrebbe essere ripresa.

L’italiana Silvana Arbia, cancelliere della Corte, già procuratore del tribunale per il Ruanda, durante la conferenza stampa, trasmessa in diretta dei network internazionali, ha sottolineato che per catturare Al Bashir sarà chiesta la collaborazione di tutti gli Stati compreso il Sudan. Arbia ha ricordato: «Le autorità di tutti i Paesi, compresi quelli che non hanno firmato il trattato (tra cui Stati Uniti, Cina, Sudan, Libia e Iran, ndr) hanno l’obbligo di arrestarlo e di riferire immediatamente alla Corte. Tutti hanno il dovere di rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza su questa materia. Anche se è presidente Al Bashir non gode di nessuna immunità». Le accuse per cui si chiede l’arresto riguardano tra l’altro tortura, stupro, saccheggio e distruzione di beni. «Le autorità sudanesi – ha concluso Arbia – si sono rifiutate di collaborare con la corte».

PROTESTE A KHARTOUM – La reazione di Khartoum è stata immediata. La televisione di stato ha bollato come “neocolonialista” la decisione della corte. Nella capitale centinaia di persone sono scese per la strade a sostegno del presidente formalmente incriminato, con cartelli di protesta e urlando slogan contro li giudici. Da un palco gli oratori hanno lanciato insulti al procuratore Louis Moreno-Ocampo, ai magistrati della corte e in genere contro l’Occidente.
E poco dopo sono arrivati i primi provvedimenti: il governo di Khartoum ha espulso dal Sudan dieci organizzazioni internazionali, tra cui Msf, accusandole di cooperazione con la Corte Penale Internazionale.

Omar al-Bashir, presidente del Sudan

Si teme ora che vengano messe in atto rappresaglie anche verso i funzionari dell’Onu che lavorano nel Paese, 32 mila persone tra staff internazionale nazionale. La cifra comprende però 25 mila caschi blu, dislocati in Darfur ma soprattutto in Sud Sudan. Gli italiani sono 500, di cui 300 a Khartoum. Ocampo, nel luglio scorso nella sua richiesta di incriminazione del presidente Al Bashir per 10 capitoli diversi (cinque per crimini contro l’umanità, tre per genocidio, due per crimini di guerra), era stato categorico, parlando di precise responsabilità nel deliberato massacro dei civili delle tribù fur, masalit e zagawa che abitano il Darfur. «Il suo alibi – aveva scritto Moreno-Ocampo nella sua durissima e circostanziata richiesta di arresto – è combattere la ribellione, il suo intento è il genocidio. Non mi prendo il lusso si supporre: ho prove indiscutibili».

Secondo le accuse, “il presidente sudanese controlla tutto l’apparato dello Stato e usa questa sua influenza per coprire la verità e proteggere i suoi subordinati e la loro smania di genocidio”. Si calcola che in Darfur siano state ammazzate 300 mila persone e che due milioni siano stati costretti a scappare dalle loro case. Bashir già mesi fa si è rifiutato di consegnare due sospetti di genocidio: il ministro per gli affari umanitari, Ahmad Harun, e uno dei capi delle feroci milizie filogovernative, i janjaweed (i diavoli a cavallo), Ali Khashayb. E’ la prima volta che un presidente in carica viene incriminato. 

Manifesti di Al Bashir a Kahartoum
Manifesti di Al Bashir a Kahartoum

INCRIMINAZIONE SOSTENUTA DA TUTU – E l’incriminazione è stata sostenuta da uno dei leader storici del continente, l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu che martedì in un editoriale sul New York Times ha sottolineato con forza: «Poiché le vittime sono africane, i leader africani devono sostenere con determinazione la richiesta di vedere i responsabili perseguiti». Per altro con un plateale gesto di sfida, martedì il presidente sudanese è apparso in televisione mentre danzava e scherzava con i suoi sostenitori durante una manifestazione a suo favore nel nord del Paese, la zona da cui lui proviene. L’emittente ha fatto vedere il momento in cui i dimostranti bruciavano una grossa fotografia di Moreno-Ocampo: «Decideranno mercoledì – ha poi detto ai microfoni Al Bashir -. Ebbene noi gli diciamo di immergersi nell’acqua e di berla tutta”, una frase idiomatica araba che si usa per mostrare il massimo disprezzo. In questi mesi il governo sudanese ha reagito con spregio alla richiesta di Moreno-Ocampo di procedere verso Al Bashir: «Il procuratore è un criminale – aveva sentenziato senza mezzi termini Abdalmahmood Mohamad, ambasciatore all’Onu, subito dopo la richiesta di rendere esecutivo il mandato di arresto -. La motivazioni sono politiche e poi non riconosciamo quel tribunale».

LE MINACCE – In attesa della decisione odierna dei giudici, il 21 febbraio scorso, Salah Gosh, capo dei servizi di sicurezza e di intelligence del Sudan, aveva lanciato una minaccia: «Ci consideravano estremisti islamici, poi siamo diventati moderati e civilizzati credendo nella pace e nella vita per ciascuno. Potremmo tornare al passato estremismo, se fosse necessario. Non esiste nulla di più facile». Gosh aveva accusato la Cpi di essere manovrata da “lobby sioniste” e ha ricordato che il Sudan considera un crimine aiutare la Corte Penale Internazionale: «Tutti coloro che collaboreranno con essa saranno arrestati per essere processati». Esam Elhag, portavoce del gruppo ribelle SLA (Sudan Liberation Army) al telefono con il Corriere è soddisfatto: «E’ il primo passo verso la giustizia che stiamo aspettando dal 2003 quando è cominciata la pulizia etnica. Quel giorno lo stesso Bashir ha ammesso: «Non voglio né prigionieri né feriti». Quello di Ocampo è il primo passo verso la giustizia. Un atto che può lenire i sentimenti di vendetta che nutre la gente del Darfur».

Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, organizzazione che ha promosso e sostenuto vari progetti nella disgraziata regione del Sudan Occidentale, ha scritto un libro, “Volti e colori del Darfur”, Edizioni Gorée, dove sono raccolte terribili testimonianze sulle violenze contro i civili. Eccone una, tratta dal volume che sarà presentato in aprile proprio in occasione della Giornata Mondiale per il Darfur. E’ la storia di Miryam, scappata nel campo rifugiati di Al Salam. La donna che non ha neanche una tenda per proteggere se stessa e il suo bimbo di pochi mesi, non conosce le ragioni della guerra tra i movimenti ribelli del Darfur e il governo di Khartoum, ma ricorda com’erano quelli che hanno distrutto il suo villaggio e l’hanno violentata. «Gente armata, arabi. Mi hanno buttata a terra, strappato i vestiti e mi hanno stuprata a turno. Sono svenuta».

Non ricorda altro, ma di una cosa è certa: ”Noi del Darfur li riconosciamo subito i predoni che vengono dal Nord. Sono cattivi e a noi donne fanno cose orribili, peggio di ogni cosa…”. Poi parla del marito. «E’ scomparso tre mesi fa – racconta – due settimane prima che partorissi. Non mi ha più voluta. Non so se è stato ucciso, non m’importa. Ora sono sola con il mio bambino e ho paura. Ma voglio che la gente sappia, voglio che chi è nel vostro e in altri paesi potenti non permettano che succedano ad altre ragazze quello che è successo a me». La decisione della Corte, comunque, non sembra potrà avere un effetto pratico. Appare assai improbabile che il presidente sudanese, andato al potere con un colpo di stato il 30 giugno 1989, venga tradotto in carcere all’Aia. A meno che la pressione internazionale non provochi un cataclisma nello stesso Sudan e un cambio di regime a Khartoum.

Massimo A. Alberizzi
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Ruanda, ergastolo a padre Seromba rinchiuse i fedeli tutsi in chiesa poi diede ordine di abbatterla

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Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
18 marzo 2008

Athanase Seromba, un prete cattolico ruandese, è stato condannato all’ergastolo per aver commesso atti di genocidio e sterminio durante la mattanza che sconvolse il piccolo Paese africano nel 1994.

La sentenza della Corte d’appello del tribunale internazionale per il Ruanda (che ha sede ad Arusha, in Tanzania) è durissima e ribalta quella, mite, di primo grado con la quale i giudici avevano condannato Seromba a 15 anni di carcere. La condanna di allora parlava di aiuto e sostegno agli assassini. Quella di oggi aver commesso egli stesso i massacri.

Silvana Arbia

Nessun Pentimento

Seromba – ha spiegato Silvana Arbia, l’italiana capo dei procuratori della corte, voluta dall’Onu all’indomani del genocidio durante il quale furono trucidati in cento giorni un milioni di tutsi e hutu moderati – non ha mostrato alcun segno di pentimento e non ha riconosciuto le sue responsabilità, evidenziate, invece, dai testimoni che hanno partecipato al processo”.

Un altro imputato, l’italo-belga George Ruggiu, speaker della Radio Television Libre des Mille Collines (RTLM) che aveva incitato gli hutu a massacrare i tutsi, si era dichiarato colpevole e dimostrato pentito. Aveva ottenuto le attenuanti e il 1° giugno 2000 era stato condannato a una pena tutto sommato mite, 12 anni di carcere. Dal 28 febbraio scorso Ruggiu sta scontando la pena in Italia. Questi i fatti accertati dalla corte, dopo aver sentito numerosi testimoni.

Massacro in chiesa

Durante la caccia all’uomo del 1994, Padre Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi. Aveva assicurato a tutti che lì, al cospetto di Gesù e della Madonna, protettrice del Ruanda, sarebbero stati in salvo.

Le bande armate hutu non avrebbero osato entrare nella cattedrale. Invece mentre i rifugiati pregavano, ha chiuso a chiave le porte della chiesa, e ha ordinato all’autista di un bulldozer di abbattere l’edificio mentre gli assassini sparavano e lanciavano granate dalle finestre. Fu un massacro soprattutto di donne, vecchi e bambini.

“La corte – spiega la dottoressa Arbia – ha constatato che senza la sua autorità morale quel massacro non sarebbe stato commesso. I capi degli assassini e le autorità civili premevano per ammazzare i rifugiati in chiesa, ma nessuno osava muoversi. Anche l’uomo che operava sul bulldozer se era rifiutato di obbedire agli ordini e si è mosso solo dopo che ha avuto l’ok dal sacerdote.

Athanase Seromba, sacerdote

Le responsabilità

Una sentenza giusta vista la gravità dei fatti e il prestigio dell’imputato, massima autorità morale in quel contesto. Nessuno avrebbe abbattuto una chiesa senza il consenso e l’approvazione dell’autorità religiosa che la governa.

E’ stato accertato che Seromba, addirittura, ha indicato all’autista del mezzo meccanico il lato più debole dell’edificio in modo tale che la demolizione fosse più efficace. Il comportamento del sacerdote, insomma conferma la volontà di portare a termine il massacro.

La fuga in Italia 

Seromba – che si è sempre dichiarato innocente – era poi scappato e con la copertura di amici preti e delle gerarchie vaticane si era rifugiato a Prato, aveva cambiato nome, padre Anastasio Sumbabura) e continuava a officiare messa come se nulla fosse accaduto.

Era stato riconosciuto e denunciato, ma l’allora procuratrice del Tribunale dell’Onu, Carla del Ponte, aveva avuto difficoltà a ottenere l’estradizione. Aveva accusato il Vaticano di esercitare pressioni sul governo italiano per evitare che prendesse una decisione in proposito. Infatti il sacerdote non è mai stato estradato: si è costituito.

Genocidio Ruanda 1994

“Ma lui è innocente”

L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon, uno dei fondatori di Avvocati Senza Frontiere, durante un’intervista che mi ha rilasciato nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si stava celebrando il processo era tranquillo.

“Il mio cliente è una vittima – aveva sostenuto sicuro – e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli accusati per giustificare la loro esistenza e la loro burocrazia che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua innocenza”.

Ma le prove e le testimonianze sono state schiaccianti e lui non è riuscito a farlo dichiarare innocente nonostante – sostengono sottovoce alla procura del tribunale – le pesanti pressioni del Vaticano per assolverlo.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

 

Seromba, un’italiana a capo dell’accusa

Speciale per Africa ExPress
M. A. A.
Arusha (Tanzania), 12 marzo 2008

Una giudice italiana, Silvana Arbia, ha guidato la pubblica accusa durante il processo contro padre Seromba. Ha impostato le indagini e il comportamento da tenere durante il processo d’appello contro il sacerdote cattolico condannato all’ergastolo per genocidio.

Silvana Arbia

Silvana Arbia, giudice alla corte d’appello di Milano, ormai da anni è impegnata nel Tribunale dell’Onu per il Ruanda, dove ora è a capo dei team di procuratori, seconda solo al procuratore generale. Un incarico che lascerà a metà aprile per assumere quello ancora più impegnativo di registar alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.

Il registar è una figura che nell’ordinamento italiano non esiste ed è l’organo che in seno al CPI rappresenta le vittime, amministra la Corte e organizza gli uffici decentrati come, ad esempio, quello si vorrebbe costituire in Darfur. E’ un incarico di altissimo livello e di grande prestigio.

Athanase Seromba, sacerdote

La dottoressa Arbia, esperta di diritto internazionale, di criminalità organizzata e di reati sessuali (gli stupri sono stati continui durante il genocidio in Ruanda) nel 1998 è stata membro della delegazione italiana durante l’incontro di Roma che sancì la nascita della Corte Penale Internazionale.

M. A. A.
12 marzo 2008
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“Io, bianco accusato di genocidio in Ruanda vi racconto quella follia”

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Ucciso in Somalia Ali Iman Sharmarke, un amico che credeva nel giornalismo

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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 12 agosto 2007

Se non ci fosse stato lui forse ora non potrei scrivere questa nota. E’ stato proprio Ali Iman Sharmarke – saltato sabato su una mina telecomandata a Mogadiscio – che il 2 dicembre dell’anno scorso ha esercitato un’enorme pressione sui fondamentalisti somali convincendoli a lasciarmi andare dopo che ero stato arrestato all’aeroporto di Mogadiscio.

Quando i servizi di sicurezza delle Corti Islamiche mi hanno prelevato e invitato a seguirli, venivo proprio da casa di Ali. Tra l’altro avevamo parlato di come sia difficile e rischioso fare il giornalista in una situazione di guerra – dove qualunque cosa tu dica da fastidio a qualcuno che ti può rispondere a raffiche di mitra – e della sua sicurezza. Lui era un laico e in quel momento i fanatici avevano stretto le maglie della repressione religiosa. “Non mi toccheranno – aveva detto – sono protetto a
sufficienza”. Contava molto sul fatto che i grandi capi delle corti, e soprattutto la spina dorsale del loro apparato militare, fanno parte della cabila aer, un sottoclan del grande gruppo haberghidir.

Il giornalista somalo Ali Iman Sharmarke

E infatti fu proprio grazie ai suoi forti legami aer che riuscì a convincere il gran capo.dell’islamismo somalo, lo sceicco Hassan Daher Awies a prendermi sotto la sua protezione e impedire agli oltranzisti di procedere alla mia esecuzione.

Ali Iman era comunque una della poche teste indipendenti della Somalia. Aveva passaporto canadese, ma  nove anni fa era tornato in patria per organizzare la prima radiotelevisione libera del Paese: Horn Afrik. Credeva nella funzione del giornalismo: “La gente deve essere informata di quello che succede – mi aveva detto quando l’avevo incontrato la prima volta – altrimenti in questo Paese non ci sarà mai pace. Libertà e democrazia passano attraverso il giornalismo”. Criticava il governo di transizione, il che, oltre a diversi giorni di chiusura delle trasmissioni, gli era costato un paio di colpi di mortaio nella grande villa sede dell’emittente.

Ma criticava anche il fondamentalismo “estraneo – diceva masticando il vietatissimo chat, le foglie di eccitante messe al bando dalle Corti – ai costumi e alle tradizioni della Somalia”.

Le sue analisi politiche sull’ingarbugliata e inestricabile situazione somala illuminavano sugli eventi, sulle ambizioni personali, sugli obbiettivi dei clan, sugli interessi esterni. Insomma una visita nel suo ufficio era la prima cosa che facevo appena atterrato a Mogadiscio. Dalla conversazione con Ali capivo subito chi dovevo intervistare, dove dovevo andare per trovare qualche buona notizia e come dovevo muovermi.

Avrebbe potuto essere scelto come presidente laico e democratico della Somalia: da un lato sarebbe stato capace di tenere in qualche modo sotto controllo gli aer – accontentandoli nelle loro ragionevoli richieste di avere un maggior peso nella gestione del potere e garantendoli davanti alle altre cabile – dall’altro chiedendo in cambio di calmare le aspirazioni religiose dei fondamentalisti islamici che agli aer sono legati.

Chi l’abbia ucciso forse non si saprà mai. Ma se non si conosce il nome né il mandante, se ne intuisce chiarissimamente la ragione: sabotare qualunque processo di pace.

Massimo A. Alberizzi

Prime sentenze del tribunale internazionale sulla Sierra Leone: condannati tre protagonisti della guerra civile

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20 giugno 2007
Prima sentenza del tribunale per i crimini commessi in Sierra Leone. Tre dei principali protagonisti della guerra civile (1991-2002), Alex Tamba Brima, Brima Kamara e Santigie Borbor Manu, sono stati condannati a Freetown, dal tribunale speciale internazionale misto governo/Nazioni Unite. La pena che dovranno scontare sarà resa nota dalla corte il 16 luglio.

La carneficina dei tutsi del 1994: la macabra storia di padre Seromba

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Speciale per africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
15 dicembre 2006

Aprile 1994. Il Ruanda è in preda ala follia collettiva. I suoi cittadini di etnia hutu, attizzati da bande armate di estremisti, gli hinterahamwe, sono scatenati contro i tutsi e gli hutu moderati. Civili armati di machete fanno a pezzi amici, compagni, conoscenti e persino coniugi, colpevoli solo di appartenere a un gruppo razziale differente. Alla mattanza partecipano anche parecchi preti, cattolici, protestanti, avventisti.

Genocidio del Ruanda

E’ un genocidio che, prove alla mano, è stato preparato meticolosamente. Mentre i notabili del regime hutu al potere nei mesi precedenti avevano comprato armi, munizioni e perfino machete, dai microfoni di Radio Mille Coline, emittente legata al regime hutu, gli speaker, tra cui si distingue per la veemenza l’italo-belga Giorgio Ruggiu (che si è dichiarato colpevole e condannato a 12 anni), non fanno altro che eccitare gli animi: «Schiacciate gli inyenzi (cioè gli scarafaggi), riempite le tombe».

L’Onu non si muove e al Palazzo di Vetro di New York vengono cestinati gli accorati appelli del generale canadese Romeo Dallaire, capo di un piccolo drappello di caschi blu di stanza a Kigali, che annuncia con settimane, se non mesi di anticipo, la preparazione del genocidio. In cento giorni vengono sterminati un milione di tutsi e hutu moderati. Un’ecatombe.

Il mondo dei diplomatici assiste cinicamente immobile, e nel novembre successivo il Consiglio di Sicurezza decide di costituire ad Arusha, alle falde del Kilimangiaro, in Tanzania, un tribunale per i crimini commessi in Ruanda. Nelle maglie degli investigatori internazionali finisce anche padre Athanase, fino a prima di quell’aprile 1994 conosciuto come un’anima pia.

La trasformazione

“Ogni mattina all’alba – mi racconteranno dieci anni dopo i suoi parrocchiani a Nyange vicino Kibuye, sul magnifico lago Kivu in Ruanda – scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in attesa dei fedeli per la messa. Distribuiva una parola buona per ciascuno, portava conforto alla sua gente oberata dalla fame e dalla povertà, non si lasciava sfuggire un’occasione per aiutare i più indigenti. Poi la trasformazione da pio a demonio”.

L’agguato

Seromba, sostiene il capo d’accusa firmato nel 2001 dall’allora procuratrice Carla del Ponte e dopo dal sostituto Silvana Arbia, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia prepara e mette in pratica un piano, diabolico, per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette protezione. Intere famiglie – certe che gli interahamwe (le milizie di criminali Hutu) rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni precedenti – accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.

L’orrore disumano

Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e frutta. Si rifiuta persino di celebrare la messa. Secondo l’atto d’accusa del Tribunale dell’Onu il prete ordina ai gendarmi di sparare su quanti, calandosi dalle finestre, cercano di rubare frutti dal bananeto alle spalle della parrocchia. I bambini, in preda a febbre e dissenteria, piangono in continuazione.

Manca l’aria, 2 mila persone vivono nella disperazione in un luogo che può contenerne al massimo 1.500. Il 13 aprile matura il primo attacco: i miliziani estremisti circondano la chiesa, sparano raffiche di fucile sui civili inermi e tirano granate all’interno. Nella confusione, tra urla e schizzi di sangue, qualcuno riesce a scappare, ma viene catturato.

Sterminio affidato ai bulldozer

I testimoni sentono il sacerdote ordinare ai soldati di chiudere tutte le porte e di giustiziare i trenta tutsi bloccati mentre tentano in fuga. Il 16 aprile – sempre secondo l’accusa – Seromba e le autorità locali decidono per la soluzione finale.

Chiamano gli autisti di due bulldozer della società italiana Astaldi, che sta costruendo la strada da Gitarama a Kibuye. L’idea è micidiale: seppellire i rifugiati sotto le macerie del luogo sacro. “Gli hutu sono tanti. Questa chiesa verrà ricostruita in tre giorni”, sentenzia l’abate dando all’autista attonito l’ordine di procedere.

Pochi minti prima un suo collega, che si era rifiutato di agire, era stato ammazzato con un colpo alla testa. Con movimenti coordinati le due macchine demoliscono i muri della chiesa, mentre la popolazione del villaggio, armata di machete e bastoni, circonda l’area per attaccare chi cerca di fuggire. Dentro trovano la morte 2mila tutsi.

Athanase Seromba, sacerdote

La fuga protetta

Ma sono loro a vincere la guerra nel giugno 1994 ed è Seromba a fuggire. Prima in Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) poi in Italia. Quando giunge a Firenze, nell’estate del 1997, è raccomandato da una lettera del vescovo di Nyundo, che loda le sue doti di religioso semplice e devoto. Il prelato chiede alla diocesi fiorentina di dargli accoglienza per un certo periodo. Dice sì che è un profugo, ma dello Zaire e che si chiama Anastasio Sumbabura. La Curia toscana gli trova un posticino nella parrocchia dell’Immacolata a Montughi.

Scovato dai giornalisti

Tutto sembra finire lì. Invece lo scovano i giornalisti. Il governo italiano tergiversa, ma poi deve cedere alle pressioni della Del Ponte, che ottiene l’estradizione: è il febbraio 2002. L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon uno dei fondatori di Avvocati Senza Frontiere, durante un’intervista al Corriere nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si celebra il processo appare tranquillo. «Il mio cliente è una vittima – sostiene sicuro – e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli accusati per giustificare la loro esistenza e la loro burocrazia ignava che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua innocenza».

Ma le prove e le testimonianze sono schiaccianti e lui non riesce a farlo assolvere nonostante – sostengono sottovoce alla procura del tribunale – le pesanti pressioni del Vaticano sui magistrati.

Massimo A.Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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https://www.africa-express.info/2008/03/18/in-ruanda-fu-genocidio-ergastolo-a-padre-seromba/
https://www.africa-express.info/1998/04/22/io-bianco-accusato-di-genocidio-in-ruanda-vi-racconto-quella-follia/

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