Dal Nostro Inviato Speciale
Marco Patricelli
Praga, 26 dicembre 2025
Quando nel 2020 in Nigeria sono tornate in attività le linee di produzione del calzaturificio Bata, era stato come riallacciarsi alle radici di una storia quasi secolare.
Nel 1932, infatti, l’imprenditore cecoslovacco Tomáš Baťa esportò per la prima volta le sue scarpe a Lagos, guardando molto più in là della prospettiva immediata. La sua missione era: “Voglio dare le scarpe a chi non ne ha”. E all’inizio del secolo scorso gli africani erano praticamente tutti senza scarpe, tranne alcuni fortunati.
La riapertura della fabbrica nella capitale Abuja, in un’altra epoca e in un altro contesto geopolitico, aveva un significato antico e forse ancora più valido: creare posti di lavoro, affrancare i lavoratori, allentare la dipendenza dall’export di petrolio con tutte le sue storture, oltre che l’obiettivo scontato e sistematico di fornire calzature di qualità alla popolazione di 200 milioni di anime. Oggi in lingua Yoruba scarpe si dice Bata.
Da quelle linee ogni anno escono oltre mezzo milione di paia di scarpe, nonostante una situazione logistico-funzionale non ottimale, come per la regolarità dell’energie elettrica, le vie di comunicazione non sviluppate e le difficoltà nei rifornimenti della gomma.
Quel marchio, a ogni modo, significa davvero molto per la Nigeria, per le esigenze interne e per l’esportazione. Nel Paese più popoloso dell’Africa nel 2007 il governo aveva posto un freno all’acquisto di scarpe dall’estero rilanciando l’economia locale con la produzione di beni di consumo.

Bertram Dozie, primo direttore della fabbrica Bata Nigeria, ricordò che aveva calzato per la prima volta a scuola scarpe con la scritta Bata, un’azienda fondata nel 1894 dai fratelli Anna, Antonín e Tomáš Baťa, settima generazione di una famiglia di calzolai.
Tomáš aveva iniziato appena quindicenne a Vienna, nel 1891, ma il tentativo era andato male. Il laboratorio di Zlín con una cinquantina di dipendenti aveva conosciuto un momento difficile per un’esposizione debitoria che l’aveva portato a un passo dal fallimento, che i due fratelli (Anna era uscita dalla società dopo il matrimonio) erano riusciti a superare.
Nel 1900 i dipendenti erano cresciuti a 120. Cinque anni dopo Tomáš visitava Stati Uniti, Inghilterra e Germania per imparare nuove tecniche di produzione con macchinari più evoluti. Nel secondo quinquennio le fabbriche erano già cinque.
Due anni dopo la morte di Antonín, avvenuta nel 1908, la Bata introduceva i pasti aziendali. Prima dello scoppio della Grande guerra i dipendenti erano 400 e il calzaturificio esportava all’estero; il conflitto fa virare la produzione verso le forniture militari.

Nel 1917 venivano eliminati gli intermediari all’ingrosso, collegando la fase della produzione a quella della distribuzione in una propria rete di negozi. Alla fine della guerra la Baťa ha 4.000 persone a libro paga e dal 18 novembre 1918, nella neonata Cecoslovacchia, introduce la giornata lavorativa di otto ore e corsi di formazione avanzata continua.
Viene espansa la rete di vendita all’estero e nel 1919 viene aperta la prima fabbrica negli Stati Uniti, che avrà però vita breve chiudendo i battenti nel 1921.
La Baťa cura in proprio la pubblicità, crea un’orchestra, assicura biglietti omaggio per il cinema ai dipendenti, fonda società affiliate nei Paesi Bassi, in Jugoslavia, in Polonia, in Danimarca e in Inghilterra.
Tomáš Baťa nel 1923 è eletto sindaco di Zlín, dove l’impronta della filosofia aziendale è caratteristica dello sviluppo architettonico e urbanistico: nel 1926-1927 diventerà una città-giardino ed entrerà in funzione un moderno ospedale.

Dal 1924 vige l’autogoverno delle officine e la compartecipazione agli utili, con un’evoluzione tecnologica spesso frutto di risorse interne, come la progettazione e la messa in opera di cinghie mobili.
Il fondatore dell’azienda ha come slogan quello di fornire “scarpe economiche e buone ai consumatori e salari dignitosi ai propri lavoratori”, ai quali garantisce un dipartimento sanitario e sociale aziendale. I dipendenti, da 2.200, sono quasi 3.500. Nel 1925 il titolare compie un viaggio in India per l’apertura di nuovi mercati, fonda una scuola di apprendistato professionale per giovani e come sindaco lancia pure una riforma del sistema educativo pubblico locale.
Alla fine del decennio i dipendenti sono circa 12.000. Una quota di posti di lavoro è riservata a persone con disabilità fisica, mentre le attività si diversificano sempre più e viene applicata la settimana lavorativa di cinque giorni (45 ore). Nel 1931 i dipendenti sono oltre 29.000 nella sola Cecoslovacchia.
Il 12 luglio 1932 Tomáš Baťa perde la vita in un incidente aereo a Otrokovice, lasciando un’azienda che opera in ben 36 settori e con 31.000 dipendenti, producendo oltre 36 milioni di paia di scarpe, l’80 per cento della produzione nazionale, di cui tre quarti per l’export, con fabbriche in Germania, Jugoslavia, Polonia, Svizzera, Francia, Inghilterra, India, e poi Siria, Libano, Iraq, Indie orientali olandesi, Singapore, e più di 2.500 negozi.
La guida della Baťa viene assunta da tre manager tra cui Jan Antonín Baťa. Al momento della Crisi dei Sudeti i dipendenti sono 65.000, di cui un terzo all’estero, e i negozi oltre 5.000. Con l’occupazione tedesca nel marzo 1939, Tomáš Baťa junior va in esilio in Canada e collabora con il governo in esilio a Londra di Edvard Beneš, mentre l’azienda, nonostante il controllo dei nazisti, aiuta economicamente la resistenza cecoslovacca.
Nel 1945 con decreto presidenziale n. 100 le aziende Baťa in Cecoslovacchia sono nazionalizzate e Tomáš Baťa junior si dedica allora alla Bata Development Limited di Londra, sede centrale delle società nell’Europa occidentale e all’estero (38 fabbriche, 2.168 negozi, 34.000 dipendenti, produzione di 34.000.000 di paia di scarpe).
L’avvento del comunismo espropria le fabbriche in Polonia, Ungheria, Jugoslavia e Bulgaria, cancellando tre quarti del patrimonio. In Cecoslovacchia il regime mette sotto processo dirigenti e rappresentanti, con condanne al carcere che in seguito saranno annullate con riabilitazione.
Negli anni ’60 Bata ha 75 società affiliate in 79 Paesi, con 66 stabilimenti e una produzione di oltre 175 milioni di paia di scarpe, con numeri che in dieci anni saranno sensibilmente aumentati. Nel 1991, finalmente, il ritorno nella Cecoslovacchia democratica, nella sede a Zlín, dove peraltro la produzione di Stato non si era mai fermata.
In Nigeria il marchio Bata era stato affidato alla produzione locale nel 1965, una trentina d’anni dopo essere apparso nelle vetrine di Lagos con l’apertura del primo punto vendita nel 1932, seguita nel 1935 da uffici per l’acquisto di materie prime (cuoio, gomma e cotone) a Kano. Nel 1939 i negozi nigeriani erano già nove. Alla fabbrica di Lagos del 1960 si aggiunse quella di Kano nel 1976. Dopo una parentesi di inattività negli Anni ’80, il ritorno in Africa nel 1991 e il recente rilancio per un mito che non si era mai appannato. Il marchio Bata (senza alcun accento, diversamente dal cognome di famiglia che ne cambia la pronuncia, e secondo la versione moderna aziendale) era diventato sinonimo di scarpa in lingua yoruba, che richiamava pure nel suono il tamburo sacro batá.
Marco Patricelli
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