Parla Sabrina, la cooperante italiana che in Sud Sudan denunciò i suoi violentatori

0
967
Corte marziale di Juba, Sud Sudan

Da Radio Bullets (www.radiobullets.com/)
Barbara Schiavulli
24 luglio 2o20

Sabrina Prioli è una cooperante italiana, brutalmente aggredita nel 2016 in Sudan del Sud, durante l’attacco di decine di soldati al compound dove risiedevano le organizzazioni umanitarie. Cinque cooperanti vennero stuprate e un giornalista ucciso. Un anno dopo, nonostante l’inferno in cui si ritrova a vivere – in quel piombo che le si era solidificato dentro, come lo definisce lei – dovrà decidere se tornare nel paese martoriato dalla guerra civile e testimoniare contro i suoi aguzzini. Quanta forza e coraggio dovrà trovare in sé? Riuscirà a farlo? Riuscirà a puntare il dito contro di loro e farli condannare?
Sono trascorsi tre anni e Sabrina si è lentamente e faticosamente ricostruita.

Per la prima volta, parla ai microfoni di Radio Bullets: questa è la storia di una donna andata a pezzi, ma che ha avuto il coraggio di fare giustizia per sé e per tutte le vittime di guerra.

Ascolta il podcast

Loro mi hanno piantato il fucile in testa, sugli organi genitali, minacciandomi di chissà che cosa.

Quel giorno ho smesso di vivere la mia vita. Il mio cuore ha continuato a battere e oggi rido, vivo e scrivo, ma non è più la mia vita. Ciò che ero prima, qualunque cosa fossi, è stato fatto detonare, l’equivalente del terremoto che nel 2009 mi ha lasciato senza una casa a L’Aquila. Ogni cosa, ogni organo, ogni centimetro di coscienza ha perso il proprio posto e, per una reazione chimica che non so se mi abbia salvato o maledetto, tutto si è poi posato, raggrumato, compattato, rappreso, coagulato, solidificato e, infine, indurito. Adesso lo porto dentro: un blocco in gola che pesa come piombo, che ha lo stesso sapore e la medesima consistenza, che mi contamina e avvelena.

Qui dentro ci sono scorie radioattive di tutto ciò che non sono più. Ci sono occhi che ho dovuto chiudere, le ginocchia e la volontà che ho dovuto piegare. Finché non ho ricominciato da capo. Non l’ho chiesto, non l’ho scelto: l’ho solo fatto.

Una calda giornata d’estate a Juba

11 luglio 2016, fa caldo a Juba in Sud Sudan. Sabrina Prioli è un’esperta operatrice umanitaria italiana che ha lasciato il Sudamerica, dove vive con la sua famiglia, per seguire un progetto di pacificazione nel piccolo e recente paese africano, per conto di un’organizzazione americana. La situazione non è buona, c’è una guerra civile in corso, nella capitale ci sono posti di blocco, si sentono gli scontri avvicinarsi. Da una parte le forze governative, dall’altra i ribelli, in mezzo le Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie e, naturalmente, migliaia di civili che subiscono una guerra che nessuno vorrebbe.

Sabrina soggiorna in un compound, dove ci sono altri operatori umanitari di diverse nazionalità. Non si sentono al sicuro, ma tutti dicono che, invece, lo sono. Chi fa questo mestiere, chi si occupa di pace e violenza in zone di guerra sa vivere in spazi limitati, di solito le misure di sicurezza sono molto elevate. Ma non è questo il caso. I soldati si avvicinano. I soldati urlano e sparano. I soldati inferociti fanno irruzione mentre il gruppo di operatori umanitari si barricano, si nascondono, pregano e tremano. Saranno le ore più lunghe della loro vita. E per qualcuno non sarà mai più come prima.

Il mondo di Sabrina fatto di competenza, professionalità, impegno verso gli altri, comincia a girare al rallentatore, impregnato di paura, impotenza, consapevolezza di essere in balia del male. Stanno arrivando e stanno per prenderla.

Il giorno dopo

John Gatluak, il giornalista ucciso

Trascorrono le ore. Sabrina ferita e dolorante, stuprata da cinque soldati, resta abbracciata a un’altra collega, nascoste dalla tenda di una doccia. La mattina, quando arrivano i soccorsi, il bilancio delle conseguenze è: 5 cooperanti violentate, tra cui un’americana e un’olandese, il giornalista John Gatluak Manguet Nhial ucciso e un contractor ferito. Lei e la sua collega, durante la notte, gli avevano chiuso gli occhi e messo un lenzuolo sopra, quasi a prendersi cura di lui.

Il mio dolore si cela dietro le palpebre che ho dovuto chiudere, è davanti agli occhi che ho deciso di aprire. Il mio dolore è nascosto nelle paure di un corpo che è stato gettato a terra, e che da quella terra è riuscito a sollevarsi. Ingoio tutto, tutto diventa piombo. Sono viva ma non lo sento.

Il 12 luglio la città è calma, non si sentono più gli spari, le urla, eppure dentro Sabrina l’inferno continua a esplodere. Pensa al padre, deceduto poco tempo prima, quel giorno maledetto è anche il suo compleanno.

Tornare a casa, l’inferno che ci si porta dentro

Sabrina e gli altri cooperanti vengono fatti evacuare, torna a casa, ritrova l’amore del compagno e della figlia e comincia un lungo percorso di ricostruzione. Attacchi di panico, incubi, paura: ha tutti i sintomi della sindrome post traumatica. Lei non è più la stessa: per la terza volta, nella sua vita di quarantenne, si ritrova a dover ricominciare tutto da capo. Le era successo da giovane quando era fuggita dalla relazione con un uomo che la picchiava, poi nel 2009 quando il terremoto de L’Aquila le ha distrutto la casa dove viveva con la figlia e sono scampate per miracolo; è successo ora, dove nel giro di una notte, da operatrice di pace si è trasformata in vittima di guerra. Perché quello che le è accaduto non è solo una terrificante violenza che colpisce ogni 3 secondi una donna del mondo, è qualcosa di preciso, sistematico, è un’arma usata dagli uomini in guerra per spezzare un popolo. È un crimine contro le donne e l’umanità.

Il mio corpo non porta ferite su di sé, non sanguina, non ha arti amputanti. È la mia anima a essere stata fatta a pezzi, è lei a essere stata uccisa.

Trascorre un anno, Sabrina lotta contro la depressione, pensa al peggio, come se loro, quei soldati fossero ancora dentro di lei e continuassero a farle del male. E se questa storia finisse così, sarebbe già una storia. Ma la verità è che spesso eventi della vita ti pongono davanti a sfide che non ci si immaginerebbe mai. Ci costringono a scegliere, ci costringono a fare la cosa giusta anche se vorremmo solo nasconderci sotto le coperte. A volte non ci si può sottrarre alla propria storia e a quello che diventeremo. Perché Sabrina ha dentro un fuoco che arde, che fonde il piombo che le scorre nelle vene e le dà luce. Sabrina, come se non bastasse tutto quello che le ha lanciato la vita, sta per diventare una delle persone più coraggiose che si possano incontrare.

Il mio unico desiderio è gridare al mondo ciò che mi hanno fatto. Non posso rimanere ancora in silenzio. Devo trovare una via che mi conduca a una forma di giustizia, qualunque essa sia.

C’erano dei responsabili per quello che era accaduto, e non si trattava solo dei soldati che avevano commesso il crimine. Viene sottoposta a diverse interviste, tra cui quelle degli investigatori delle Nazioni Unite, impegnati in un’indagine speciale per verificare la responsabilità della Missione ONU “Unmiss”, in Sudan del Sud. Loro sapevano che lei e altre cooperanti si trovavano molto vicino, a un km dalle forze ONU: erano stati avvertiti, ma nessuno si è mosso per evacuarle.

Vittima di guerra

Il viaggio della fenice di Sabrina Prioli

Le violenze sessuali e di genere in Sudan del Sud rimangono impunite nella quasi totalità dei casi. Sabrina è riuscita a fuggire. Sa di essere una privilegiata e vuole sfruttare questo privilegio per lei e per tutte quelle donne che non avranno mai giustizia.
“Non posso fermarmi, anche se gli scogli sembrano così alti dall’abisso in cui sto sprofondando”, scrive nel suo libro “Il Viaggio della Fenice” appena pubblicato.

Ci potrà mai essere giustizia?

L’incidente non è considerato più un singolo episodio in una terra lontana, indagano le Nazioni Unite, l’FBI, e persino il governo del Sudan del Sud. Viene interrogata in videoconferenza, e nonostante sia a migliaia di km di distanza, Sabrina ha paura: paura di esporsi e paura di essere riconosciuta. L’indagine consente l’avvio di un processo presieduto da una corte marziale in Sudan del Sud. I capi di imputazione sono omicidio, violenza sessuale, aggressione, furto, danni alla proprietà e alle persone. Non le sembrava vero. E ancora una volta si sente una vittima privilegiata perché il fatto che fossero stranieri, aveva accesso l’attenzione internazionale. I soldati avevano compiuto un crimine e dovevano essere giudicati secondo la legge. Dei 100 militari che hanno fatto irruzione nel compound, solo 19 persone sono stati arrestate, alcune identificate dai compagni, altri da foto segnaletiche. Sabrina con il cuore in gola riconosce attraverso una foto, due dei suoi stupratori e uno che l’ha picchiata.

A parte i proprietari del compound, nessuna organizzazione o istituzione ha denunciato, o anche solo segnalato, i crimini. Questo vuol dire che l’aggressione dei soldati, l’omicidio del giornalista e gli stupri verranno inseriti in una causa civile per il risarcimento dei danni agli edifici. Lo Stato italiano non è d’aiuto: la denuncia che Sabrina ha fatto alla Procura della Repubblica è stata archiviata dopo tre mesi dalla sua presentazione. Nessuno le ha spiegato il perché.

In Italia c’è anche il rischio che lei finisca nel tritacarne dei leoni da tastiera. Di chi l’accuserebbe di essersela andata a cercare, di chi non prova empatia verso una vittima ma inneggia ai carnefici.

Nel luglio 2017, a un anno preciso dal fatto, Sabrina scopre che c’è il rischio che il caso venga archiviato anche in Sudan del Sud per mancanza di prove. Nessuno vuole testimoniare. Nessuno si è preso la briga di accusare i soldati. Il giudice vuole archiviare il caso di violenza sessuale e omicidio, perché se nessuno sporge denuncia, non c’è delitto. C’è solo un modo per fare la differenza, che le vittime tornino in Sudan del Sud per testimoniare di persona. In video conferenza non è possibile, ma nessuna della altre cooperanti se la sente di farlo. Sabrina lo capisce, meno comprende gli uomini che si trovavano lì con loro. Potrebbero confermare di aver assistito ad atti di violenza contro le colleghe. Ma nessuno vuole farlo.

Se non c’è denuncia non c’è delitto

Sabrina ha il terrore di tornare in un posto che vorrebbe cancellare dalla memoria. Ha paura che possano sequestrarla, violentarla di nuovo, perfino ucciderla. Ha paura della paura. Chi, le darebbe torto? Sarà una frase della figlia a fare la differenza di una vita. E nonostante la paura, l’angoscia, il terrore che la paralizza, Sabrina sa che andrà a testimoniare.

Voglio essere riconosciuta dall’autorità governativa del Sudan del Sud, come vera e propria vittima di guerra. Non possiamo venire ignorati dalla Storia dopo aver subito simili atrocità, non possiamo rimanere invisibili agli occhi del mondo. La follia del silenzio fa gridare di rabbia la mia anima. Questi crimini continuano a essere perpetrati perché le donne non sono tutelate dalle leggi, perché in condizioni simili, è praticamente impossibile denunciare i propri aguzzini, perché la cultura locale non considera questi reati come tali e perché la donna in molte società non ha voce.

Sabrina invece, la voce ce l’ha ed è pronta a ruggire. Il 22 agosto 2017 si presenta davanti alla corte marziale a Juba in Sud Sudan. A fianco il suo compagno che non la lascia mai.

Il processo

Corte marziale di Juba, Sud Sudan

Il giorno del processo / Amnesty International

Sabrina darà la sua testimonianza, avanzerà verso 11 soldati separata da una fragile balaustra di legno e li riconoscerà davanti a tutti. Uno le ride in faccia, ma lei si sente forte, potente: adrenalina a mille. Sente la forza di tutte le vittime di stupro. Sente le urla delle donne, sente il loro dolore, sente un’energia che la scuote, sente di non essere più sola, e così una donna a pezzi si trasforma in una leonessa davanti a quelle facce criminali. Ora sono i suoi aguzzini ad aver paura e dieci di loro, grazie a lei, saranno condannati: due ergastoli mentre per altri otto pene tra i 7 e i 14 anni. I militari sono stati anche costretti a indennizzi ridicoli nei confronti delle vittime: 4.000 dollari a tutti i cooperanti senza distinzione tra chi era stato violentato e no, e 50 mucche al giornalista ucciso; 2 milioni di dollari, invece, ai proprietari del compound.

Udienza durante il processo contro militari a Juba, Sud Sudan

Non si è liberi se si è preda di paure e orrori che non possono essere affrontati. Non si può essere liberi se ci si trova al limite della sopravvivenza, se la propria vita è stretta nel pugno dei nemici, se si è consapevoli che il domani non dipende dalla propria volontà ma dai capricci del destino.

Sabrina ora è una coach life e continua ad aiutare la gente. Continua la sua lotta per la giustizia, mentre in Sud Sudan alcuni file sul caso sono spariti, denuncia Amnesty International.

“Oggi sono libera”

Sabrina Prioli oggi è libera perché ce l’ha fatta. Perché ci si può alzare anche da soli, ma è meno difficile quando si ha accanto un uomo che sa come stare accanto, e quando una figlia, ignara, dice tutte le cose giuste che si ha bisogno di sentirsi dire. Quando gli amici si stringono intorno a te per dirti che non sei mai stata sola. Ma essere vittime non significa essere persi, Sabrina Prioli è tutto tranne che una donna perduta: Sabrina è una donna che ha usato le proprie ferite per guardare in faccia i propri stupratori, pretendere e ottenere giustizia per sé stessa e per tutti quelli che non sono riusciti a trovare la forza e il coraggio per farlo. E questo fa di lei un’eroina. Una nostra eroina.

Barbara Schiavulli
https://www.radiobullets.com/rubriche/sono-viva-ma-non-lo-sento/

I pezzi tratti dal libro Il viaggio della Fenice, di Sabrina Prioli, sono letti dall’attrice Sara Alzetta. La foto di copertina è di Francesca Zama on Unsplash

Sud Sudan: processo per stupro contro 5 straniere, solo un’italiana testimonia

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here