Pace Etiopia-Eritrea: il Nobel al premier etiopico, a bocca asciutta il nemico eritreo

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il primo ministro etiopico Abiy Ahmed Ali

Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
11 ottobre 2019

Un africano, un politico africano che vince il Nobel per la pace? Ma la politica in Africa non è sinonimo di malgoverno, corruzione, plutocrazia, appropriazione indebita, repressione, propensione alla guerra e alla violenza e così continuando?

No, il comitato per il Nobel ha guardato al futuro e ha scommesso su Abiy Ahmed Ali, il premier etiopico che in pochi mesi ha rivoluzionato il suo Paese, tentando anche di chiudere la guerra ventennale con l’Eritrea. E gli ha conferito il Premio per la pace. Altri africani hanno vinto il prestigioso riconoscimento (Nelson Mandela, Dermond Tutu, De Clerk e Johnson Sirleaf) ma in contesti assai differenti e avevano terminato il loro lavoro. Abiy, che ha 43 anni, l’ha appena cominciato.

Il premier etiopico Abiy Ahmed, ripreso anche nella foto qui sotto

Un monito verso altri leader africani? Può essere. Lui ha anteposto gli interessi concreti del suo Paese a muscolose dichiarazioni di principio, usate dai leader africani per rimpinguare i loro conti in banca (all’estero e in dollari).

Solo il 2 aprile 2018 è stato nominato primo ministro dell’Etiopia, unico Stato africano a democrazia parlamentare, scelto tra gli oromo, etnia maggioritaria ma anche abbastanza emarginata; in Etiopia, infatti comandano i tigrini. Aveva le idee molto chiare su cosa fare.

Immediatamente la pace con l’Eritrea. Ed è stato il primo passo. E’ andato ad Asmara ad abbracciare il sanguinario dittatore Isaias Afeworki e ha subito annunciato che avrebbe ubbidito alla risoluzione della commissione indipendente che aveva assegnato all’Eritrea la sovranità sul piccolo villaggio di Badme, causa della guerra scoppiata nel luglio 1998. “Perché devo combattere per il controllo di una sperduta pietraia in mezzo al nulla? – aveva spiegato. – I motivi di orgoglio non sono sufficienti a mantenere uno stato di allerta lungo i confini con i nostri fratelli eritrei”, era stato il succo del suo discorso.

La successiva visita di Isaias ad Addis Abeba, e la firma del trattato di pace nel settembre 2018, avevano aperto la porta a grandi speranze soprattutto in Eritrea. Spiragli di libertà in un Paese guidato con il pugno di ferro da una tirannia che sul pianeta trova qualcosa di simile solo in Corea del Nord. Se Isaias avesse aperto le galere dove sono stipati centinaia di prigionieri politici, compresi i suoi amici e compagni di lotta durante la guerra di liberazione, probabilmente oggi gusterebbe il sapore dell’assegnazione del Nobel con Abiy.

Già perché la pace si fa in due, e il comitato del Nobel lo sa bene. Se il premier etiopico è stato ricompensato per questo, perché lo stesso riconoscimento non è andato al suo antagonista eritreo? Semplice, perché il secondo dopo aver aderito alla richiesta di far la pace, si è ritirato.

E così le frontiere terrestri che, con grande ma frettoloso entusiasmo, erano state aperte, sono state richiuse, con conseguente blocco dei commerci transfrontalieri necessari a sostentare l’economia di regioni lontane da tutto. Mentre Abiy in Etiopia ha continuato a varare riforme l’Eritrea è rientrata nei suoi ranghi fatti di servizio militare ad libitum, repressione di ogni dissenso, pugno di ferro con conseguenti incarcerazioni di massa, controllo totale dei mezzi di informazione che inneggiano così unanimi al regime fascistoide e corruzione.

Ad Addis Abeba, al contrario, venivano liberati i prigionieri politici, legalizzati i partiti di opposizione, tolta la censura, privatizzate molte imprese statali, allentati i controlli sui mezzi di comunicazione, abolito il divieto di associazione e arrestati i secondini riconosciuti colpevoli di aver violato i diritti umani. Anche Abiy ha aperto un fronte di guerra: quella contro la corruzione.  Il tutto in 18 mesi di governo. Un record non solo per l’Africa, ma per l’intero pianeta.

Abiy si è poi prodigato per appianare le differenze etniche all’interno del suo Paese e smussarne le tensioni, ha tentato di mediare tra le fazioni somale in guerra dal 1990 e di risolvere la disputa tra Somalia e Kenya per il controllo dei campi petroliferi off shore, rivendicati da entrambi.

Il primo ministro etiopico Abiy Ahmed (e sinistra) brinda alla pace con il dittatore eritreo Isaias Afeworki

Ad Abiy sono arrivate le più sentite congratulazioni dei capi di Stato e di governo di tutto il mondo. Solo da Asmara – fino al momento di andare in macchina – silenzio tombale. Un silenzio assordante che assomiglia proprio a una sberla sulla faccia di Isaias Afeworki, colpito nella sua tracotante arroganza.

Per il premier etiopico il lavoro non solo non è finito, ma è appena cominciato. E il Nobel vuol essere anche un’esortazione a proseguire sulla strada intrapresa. Pur godendo di una grande popolarità il suo modo di procedere gli ha procurato anche una gran quantità di inimicizie. Infatti è già stato oggetto di almeno tre attentati. Chi in Etiopia ha perso potere e privilegi non è contento del nuovo corso e fa fatica ad adeguarsi. E poi contro di lui sono schierati i nostalgici di Ethiopia Tikdem, cioè della dittatura militar-comunista di Menghistu Hailè Mariam del Derg, che sognano un ritorno al passato.

Abiy Ahmed Ali sta comunque seguendo la strada avviata del suo predecessore Melles Zenawi ed interrotta bruscamente da moti di piazza. Melles è l’uomo che, a capo dei guerriglieri di Tigray People’s Liberation Front, dopo diversi anni di guerriglia, nel 1991, era riuscito a cacciare il dittatore militar-comunista Mengistu Hailè Mariam.  E’ morto per un tumore nell’agosto 2012 in un ospedale di Bruxelles, ma credeva sinceramente nei valori della democrazia e della pace.

Durante un’intervista gli avevo chiesto di alcune incongruenze nella sua politica. Rispose un po’ accigliato: “Purtroppo la democrazia non si impara né a scuola, né all’università. Lo so, abbiamo fatto parecchi errori ma per mera mancanza di esperienza e non certo perché vogliamo far ripiombare l’Etiopia nell’oscurità della dittatura”.

Il direttore di Africa ExPress, Massimo Alberizzi, e, a destra, l’ex premier Melles Zenawi, morto nel 2012, durante un’intervista nel palazzo presidenziale ad Addis Abeba. Al cetro il consigliere diplomatico del Primo Ministro

E in un altro incontro poche settimane prima di morire aveva scherzato: “Vorrei essere ricordato per aver messo l’Etiopia sulla strada giusta della democrazia, della giustizia e della libertà. Lo so che la rovina dell’Africa è sempre stata il culto della personalità. Sembra che i nomi dei dittatori comincino sempre con la M: Mobutu, Mengistu, Mugabe… Beh, non voglio assolutamente aggiungere Melles a questa lista”.

Melles a differenza del suo amico diventato arcinemico Isaias Afeworki, una volta al potere aveva cambiato la sua impostazione mentale, trasformandosi da capo guerrigliero ad abile statista. Cosa che non è accaduta in Eritrea dove i leader della guerra di liberazione che avevano tentato la strada della democrazia sono stati inghiottiti dalle carceri segrete e sono emersi solo i militari (uno dei quali addirittura analfabeta). Il potere è rimasto quindi in mano ai vecchi miliziani incapaci di affrontare l’agone politico e di articolare parole come libertà, democrazia, giustizia, sviluppo e perfino pace, estranee al loro vocabolario.

Abiy sembra che abbia raccolto l’eredità di Melles e ne prosegua l’esperienza. L’Africa ha bisogno di leader illuminati e lui può dimostrare di esserlo.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

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