Liberia: “Taylor ha ucciso mio padre, ha ucciso mia madre ma io voto per lui”

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Massimo Alberizzi e Charles Taylor al palazzo presidenziale di Monrovia subito dopo un'intervista

Massimo Alberizzi FrancobolloDal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Monrovia, 6 luglio 2003

Tutti speravano che una volta ottenuta l’investitura popolare con le elezioni presidenziali del 1997 Charles “Ghankay” Taylor (Ghankay sta per “Testardo”, in dialetto gola) ribelle e signore della guerra per temperamento ed educazione (il suo mentore è stato Gheddafi) , si riconvertisse in politico accorto e prudente. Invece, forse per avidità e ingordigia, non ha saputo resistere alla tentazione di moltiplicare le sue ricchezze e accrescere il suo potere. Abile lo è certamente se il suo Paese, uno dei pochi ad avere rapporti diplomatici con la Cina Nazionalista di Taiwan e quindi a riceverne gli aiuti, riesce ad accreditarsi anche sulla piazza di Pechino per piazzare diamanti e legno pregiato.

Massimo Alberizzi e Charles Taylor al palazzo presidenziale di Monrovia subito dopo un'intervista
Massimo Alberizzi e Charles Taylor al palazzo presidenziale di Monrovia subito dopo un’intervista

Nato nel 1949 da padre discendente dagli schiavi americani liberati e “rimpatriati” in Liberia e da madre indigena di etnia gola, il presidente ridotto ora a “sindaco” di Monrovia,  comincia la sua carriera negli Stati Uniti come pompista in una stazione di servizio. Passa per l’università di Waltham in Massachusetts dove si laurea in economia. Torna in Liberia dove diventa alto funzionario delle finanze del governo del dittatore Samuel Doe, che pochi giorni prima aveva giustiziato l’elite dominante sulla spiaggia di Monrovia. 

E’ in questo periodo che viene soprannominato “Superglue” (cioè “Spercolla”) perché – sostengono i suoi detrattori –  il denaro che gli resta attaccato alle mani. Accusato di essersi appropriato di un milione di euro scappa e torna negli USA. A causa di un mandato di cattura internazionale viene arrestato ma fugge dalla cella calandosi dalla finestra, come in un film, con lenzuola annodate. E’ il 1985. Per quattro anni fa la spola tra Tripoli, Ouagadougou , capitale del Burkina Faso, e il nord della Costa D’Avorio dove in un campo segreto addestra assieme al sierraleonese Foday Sankoh (anche lui diventerà un famoso capo ribelle) gruppi di miliziani.

Il giorno di Natale 1989 lancia il primo attacco alla Liberia e in breve tempo, tra atrocità, orrori e massacri, si impadronisce del potere. Il Paese è allo stremo, prostrato e in ginocchio. Nel 1997 si presenta alle elezioni con lo slogan: “E’ vero ho distrutto la Liberia, ma datemi una possibilità di ricostruirla”. Gli striscioni elettorali sono sconcertanti e impressionanti. Sotto decine di foto una didascalia recita: “Ha ammazzato mia madre, ha ammazzato mio padre, ora io lo voto”.

E il 70  per cento dei liberiani – terrorizzati che il Paese possa rimpiombare in guerra – lo scelgono come loro presidente. Il resto è storia recente. Si allea con Foday Sankoh che ha lanciato una terribile ribellione in Sierra Leone (i suoi uomini terrorizzano i civili tagliando braccia, gambe nasi e orecchie) e controlla le miniere di diamanti. Taylor si fa consegnare le gemme e le ricicla come liberiane. 

Riceve armi ucraine di contrabbando e fomenta la ribellione di Sankoh. Ora che in Sierra Leone è tornata la pace,  il Tribunale internazionale costituito ad hoc dall’Onu lo incrimina (primo presidente in carica) per crimini contro l’umanità. Il mandato di cattura lo raggiunge ad Accra, in Ghana, dove è andato per colloqui di pace. Per paura di essere arrestato torna precipitosamente a Monrovia. E a Obasanjo che ieri gli ha offerto asilo in Nigeria ha chiesto esplicitamente: “Le accuse contro di me devono essere cancellate”.

Massimo A. Alberizzi   

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