Ecco come Muktar Belmuktaar viene descritto ds Serge Daniel nel suo libro Aqmi: l’industrie de l’enlèvement (Paris, Fayard 2012). Serge Daniel, giornalista per la France Presse, è un esperto di Mali e dei paesi limitrofi. Il suo libro, che si legge come un romanzo giallo, racconta decine di dettagli inediti sulle attività islamiche nel Sahara.
Moktar Belmoktar, alias Khaled Abou el-Abbas, alias Belaaouar è la vedetta della banda. È lui che ha acceso la fiamma islamica nel Sahel, preparando l’arrivo d’Aqmi nella zona. È anche il più conosciuto dai media.
Algerino, nato il primo giugno 1972 a Ghardaia, è sposato con una donna maliana di etnia bérabiche. Arruolato nell’esercito algerino, l’ha abbandonato per dedicarsi a traffici e contrabbandi vari (sigarette, armi, ecc.) verso la Libia e la regione saheliana, più precisamente in direzione del Niger e del Mali.
Sensibile alla dottrina della jhiad, Belmokhtar appena ventenne ha partecipato alla guerra contro l’armata sovietica in Afghanistan, dove è rimasto un anno e mezzo e dove ha ricevuto una formazione militare e ha intessuto contatti con molti jhiadisti arabi, prima di ritornare in Algeria nel 1992.
Come un altro celebre combattente di Allah, il Mullah Omar, ha perso un occhio in combattimento proprio in Afghanistan, da cui deriva il suo soprannome ‘il Guercio’.
Nonostante Belmokhtar la contesti, la sua reputazione è quella di contrabbandiere di sigarette e di automobili. Alla fine del 1992 crea, nella sua città natale, la khatiba Eshahada (“Brigata del martirio”). Tra i crimini rivendicati da quest’ultima, l’assassinio di cinque europei lavoratori di una società petrolifera.
Molto rapidamente stabilisce fra il 1994 e il 1995 contatti con la costola di Al Qaeda in Sudan. Uno dei suoi fratelli di combattimento, Abdel Baghi, viene assassinato. Lui si ritrova a capo del Sahara in qualità di ‘emiro’.
All’epoca fa parte del GIA (Gruppo Islamico Armato) algerino, ma non per molto. Occorre precisare che la khatiba Eshahada, affiliata al GIA di cui lui stesso ha fatto parte, aveva come raggio d’azione un territorio che si estendeva dal Sahara algerino alla regione sahelo-sahariana dell’Africa occidentale. Dopo l’incoronazione del sanguinario Antar Zouabri, leader islamista algerino, alla testa del GIA, Belmokhtar entra nel gruppo originario che ha deciso la scissione e la nascita, nel 1998, del GSPC (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento) sottomettendosi al comando di Hassan Hattab.
Moktar Belmohtar viene allora nuovamente nominato Emiro della zona sud di questo gruppo terroristico prima di trasferirsi in Mali, dove crea il primo nucleo della khatiba Al-Moulathamoune e partecipa al sequestro di ostaggi occidentali che, nel 2003, permette al GSPC di rivendicare un ruolo internazionale nella holding del tyerrore.
In quegli anni la sua azione si concentra in Mauritania. I membri mauritani della struttura controllata da Belmokhtar sono incaricati di organizzare azioni terroristiche che, oltre all’attacco ai simboli dello Stato mauritano, passano dall’assalto a convogli pubblici al sequestro di turisti occidentali e alla richiesta di riscatto per la loro liberazione.
Una leggenda incornicia il personaggio: sarebbe dotato di un potere che gli permette di scappare a tutti i tentativi d’arresto. Il 19 febbraio 2008 ha partecipato a un attacco contro l’esercito algerino. In quell’occasione la stampa annuncia la sua morte. Un giornale maliano insinua subito dubbi sulla veridicità della notizia, parlando di una manovra dei sevizi segreti algerini con cui Belmohtar aveva flirtato: il giornale aveva ragione”
Tratto da: Serge Daniel, Aqmi: l’industrie de l’enlèvement, Paris, Fayard 2012
Traduzione di Andrea de Georgio
Altro colpo grosso, ancora però da confermare, quello messo a segno dalle truppe ciadiane in Mali. La “primula rossa” dell’islamismo del Sahel, ex numero due di Al Qaeda nel Maghreb Islamico e leader del gruppo da lui fondato di recente,”Brigata dei Firmatari con il Sangue”, Muktar Belmuktar, sarebbe stato ucciso durante il bombardamento della sua base, sulle montagne dell’Adrar de Ifhogas al confine tra Mali e Algeria. Con lui sarebbero stati ammazzati diversi suoi compagni che si erano asserragliati nella base presa d’assalto dalle truppe ciadiane e bombardata dagli aerei francesi.
Il numero due di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Abdelhamid Abou Zeid, sarebbe stato ucciso nel nord del Mali. La notizia arriva dal presidente del Ciad, Idriss Deby, secondo cui il militante islamico, sarebbe morto in battaglia in un luogo sperduto nel bel mezzo al Sahara, più o meno al confine tra Mali e Algeria. Se confermata la notizia è assai importante, perché significa che il gruppo terrorista ha perso uno dei comandanti più sanguinari e violenti. Abu Zeid è accusato di aver fatto giustiziare due ostaggi occidentali, il britannico Edwin Deyer e il francese Michael Germaneau. Il primo nel 2009, il secondo nel 2010.
Sono almeno cinque i gruppi islamici attivi in Mali. Eccone una breve descrizione.
Ansar Dine – E’ un movimento di combattenti tuareg che si sono raggruppati dopo essere rientrati dalla Libia dove combattevano a fianco di Geddafi. Il leader del gruppo, Iyad ag Ghali, che si suppone abbia una cinquantina d’anni, è stato uno degli organizzatori della rivolta tuareg negli anni ’90. Nel primi anni 2000 invece è stato incaricato da parte del governo del Mali di trattare la liberazione di un gruppo di ostaggi occidentali (soprattutto tedeschi) catturati dall’algerino Gruppo Salafista per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). L’obbiettivo di Ansar Dine, il cui nome completo in arabo è Harakat Ansar al-Dine (cioè Movimento per la Difesa dell’Islam) è di imporre la legge coranica in tutto il Mali.
Movimento islamico per l’Azawad – Poco dopo l’intervento francese, nel gennaio 2013, una fetta di Ansar Dine si è staccata dall’albero originario. Il gruppo è poco conosciuto nei dettagli. Il suo leader, Alghabass Ag Intallah che era uno dei più stretti collaboratori di Iyad ag Ghali, sostiene di rifiutare il terrorismo e l’estremismo. Intende cioè raggiungere i suoi obbiettivi con mezzi pacifici e il dialogo.
Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) – Prima (fino al 2004/5) si chiamava Gruppo Salafista per la Predicazione e il Combattimento (GSPC), e già da allora era considerato il dipartimento di Al Qaeda in Africa del nord. Il leader fondatore, Amari Saifi, detto anche Abderrezak Le Parà (era paracadutista nell’esercito algerino) è stato catturato nel maggio 2004 nel Tibesti, la regione del nord del Ciad al confine con la Libia, in pieno Sahara. E’ sparito.
Abderrezak Le Parà dovrebbe essere ora ospite di un carcere algerino se non è già stato ammazzato. Il comandante in capo di AQMI dovrebbe essere ora l’algerino Abdelmalek Droukdel, nome di battaglia Abu Musab Abdel Wadoud. AQMI controllava Timbuctù durante l’occupazione islamica.
Movimento per l’unicità e la Jihad in Africa occidentale (MUJAO) – Gruppo scissionista, uscito da AQMI a metà del 2011, il cui scopo è quello di diffondere la jihad a tutta l’Africa occidentale mentre Al Qaeda si limita al Maghreb. Il MUJAO è responsabile del rapimento di Rossella Urru e di suoi tre colleghi spagnoli nell’ottobre 2011 in un campo sahraui a Tinduf, in Algeria. Gli ostaggi furono liberati nel luglio 2012 dietro pagamento di un riscatto. Molti dei suoi miliziani sono tuareg, ma il leader è mauritano: Hamada Ould Mohamed Kheirou. Il leader militare (chiamato spesso pomposamente capo di stato maggiore) è invece l’arabo maliano (perchè nato a Timbuktù Oumar Ould Hamaha.
Il Battaglione dei Firmatari con il Sangue – Una fazione radicale che si è staccata a AQMI. E’ impegnata in una jihad globale e responsabile per l’assalto all’impianto di gas in Libia del mese scorso. Il suo capo è Muktar Belmuktar. Voleva diventare il leader di AQMI. Politicamente sconfitto ne è uscito per dissenso sulla leadership.
Un’autobomba è esplosa a Kidal, città nord del Mali controllata da un gruppo tuareg laico, alleato dei francesi, l’MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad). Sette persone sono morte.
L’attacco è avvenuto a un posto di blocco presidiato dai tuareg. I fondamentalisti islamici dopo essere stati cacciati dalle loro roccaforti, Timbuctù, Gao, Kidal e altre località minori, hanno adottato una tattica di guerriglia terrorista, con attentati suicidi, bombe, assalti e incursioni spettacolari.
Di ritorno da Gao a Bamako, Andrea de Georgio ha mandato questo articolo per Africa ExPress
NOSTRO SERVIZIO PARTICOLARE BAMAKO – Nelle stesse ore in cui il presidente francese Francoise Hollande annuncia la “fase finale dell’Operazione Serval” e si comincia a parlare di “ritiro graduale”, di “exit strategy” e di caschi blu dell’Onu, nel nord del Mali comincia la guerra, quella vera.
Un video pubblicato su Youtube, mostra la famiglia francese, sette persone, tre adulti e quattro ragazzini, rapiti martedì della scorsa settimana in Camerun, probabilmente da un gruppo di militanti che fa capo ai terroristi di Boko Haram. I terroristi erano arrivati sul luogo del rapimento in moto e erano tornati immediatamente in Nigeria (la frontiera passa a pochi chilometri dal logo dove si è consumato l’agguato) dove possono facilmente contare sui rifugi sicuri.Boko Haram
Alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo di Milano dove si incontrano operatori del settore è arrivato anche il ministro del turismo del Marocco, paese che conta parecchio sul mercato italiano, il quinto in ordine di importanza e per volume d’affari. Lahcen Haddad si è intrattenuto brevemente con Africa-exPress. “Gli italiani in Marocco entrano senza visto e se viaggiano in un gruppo di più di 8 persone non hanno bisogno neppure del passaporto: è sufficiente la carta d’identità”.
Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi Goma (Congo-K), 18 gennaio 2013
Ti fermeresti ore sulla cresta di una collina per ammirare i panorami, goderti il profumo delle piante selvatiche attorno a te, seguire i vortici dei pennacchi lanciati verso il cielo dai due vulcani. E poi lo specchio del Lago Kivu circondato dalle montagne. Ricorda la Svizzera con in più palme, banani, alberi di avocado, di mango, cespi di papaya; e quei due ciuffi di fumo.
Due vulcani, il Nyamulagira e il Nyiragongo, molto vicini tra loro, distanti appena pochi chilometri. Come spiega il vulcanologo italiano Dario Tedesco, che li studia e li segue, non hanno nulla in comune: eruttano lava completamente differente, sia in consistenza, sia in composizione.
Qui il panorama non si perde neppure durante le tenebre. Le cime dei due vulcani si illuminano di un rosso intenso, come se volessero segnare la rotta ai viandanti. Le notti di luna nuova sono surreali. Buio pesto e due scrigni rossi che sembrano volteggiare in cielo pulsando nell’oscurità.
Miliziani Mai Mai
L’est del Congo non è solo una cornucopia spropositata di minerali rari, perciò preziosi, e quindi oggetto di bramosie di uomini d’affari e di politici senza scrupoli. E’ anche un paradiso terrestre, sebbene difficile da godere a causa della guerra perenne che imperversa da una cinquantina d’anni e della povertà, profonda e diffusa, che affoga le popolazioni locali.
La natura è stupenda, selvaggia, misteriosa ma anche terribile. L’ultima disastrosa eruzione del Nyiragongo, nel 2002, ha provocato 147 morti e distrutto un terzo della città di Goma.
Racconta Dario Tedesco: “La sua colata lavica è una delle più veloci del mondo. Alla bocca raggiunge anche i 100 chilometri all’ora. E’ un vulcano pericolosissimo ed è uno dei pochissimi del pianeta con un lago di magma liquido nel cratere. E’ da tenere quindi costantemente sotto checkup.
Avevamo sette stazioni di rilevamento e controllo. Ma qualcuno ha rubato tutti gli strumenti”. Cosa ne avranno fatto, non si sa, ma da queste parti è difficile trattenersi dal gusto di razziare. Tanto, con la polizia corrotta, si è sicuri dell’impunità. Al massimo si divide il bottino con gli agenti.
Il permesso di entrata nel Vulcano National Park per visitare la valle dove vivono i gorilla
Al momento dell’indipendenza, nel 1960, un giovane sognatore, Patrice Emery Lumumba, avendo intuito quale sarebbe stata la fine del suo Paese cercò di mettersi di mezzo. Come dimostrato da una commissione d’inchiesta indipendente, fu assassinato dai parà belgi, intervenuti nella loro ex colonia per bloccare una guerra civile, fomentata dal loro stesso Paese per evitare che Bruxelles perdesse l’influenza avuta fino al momento della decolonizzazione.
Lumumba (la sua vita è stata immortalata in un film che all’estero ha avuto un certo successo, ma che in Italia è finito solo in qualche sala d’essai) sognava un Paese democratico, dove i proventi delle risorse minerarie avrebbero dovuto essere destinati alla costruzione di infrastrutture necessarie allo sviluppo e al progresso della sua gente.
Se fosse sopravvissuto sarebbe diventato un feroce dittatore? Con il “se” non si fa la storia, ma certamente, visto il contesto africano, è molto probabile. Sono in tanti i leader nati come combattenti per la libertà e finiti nel girone dei tiranni.
Il sociologosvizzero Jean Zigler, autore di decine di saggi sui temi della povertà e sugli abusi e le ingiustizie dei sistemi finanziari internazionali, http://it.wikipedia.org/wiki/Jean_Ziegler ha ben definito la situazione dei congolesi: “Sono come dei mendicanti poveracci seduti su una montagna d’oro”. Mai immagine è stata più appropriata. E’ difficile fare un elenco delle risorse minerarie del Paese. Platino, oro, argento, diamanti, rame, cobalto, uranio, tantalio, niobio (chiamato anche colombio) e poi quisquilie come ferro, stagno, piombo….Insomma c’è tutto e quest’elenco è incompleto.
Elicotteri nell’Onu parcheggiati sotto il vulcano
La ricchezza è sparsa nel Paese, ma le due provincie orientali del Kivu, il nord e il sud, sono quelle in cui la concentrazione di questo ben di dio è più intensa. E ora che sulle rive dei laghi Edoardo e Alberto sono stati scoperti vasti giacimenti di petrolio, le mani arruffone si sono demoltiplicate. Shell, Total, Chevron, Esso, Eni si sono precipitate in Congo.
“Il giochino è questo – spiega un dirigente della Chevron che per comprensibili motivi non vuol vedere rivelato il suo nome -. Negli Stati Uniti c’è una ferrea legge anticorruzione che vale anche all’estero. Se ci scoprono che paghiamo una ‘kick back’, cioè una tangente, finiamo nelle grinfie del governo che non perdona. Quindi incarichiamo una compagnia straniera o una società sconosciuta creata ad hoc, di seguire le trattative, pagare le relative tangenti a governati, politici e ai loro mediatori e poi consegnarci la concessione chiavi in mano a un prezzo finale, dove non compaiono questi fastidiosi ammennicoli. E’ un mondo opaco dove gigantesche truffe sono in agguato e dove si muovono pescecani pronti ad azzannare. Gente disposta a tutto, che nei salotti buoni si presenta in smoking e sul campo, con in fronte una bandana, imbraccia mitra, maneggia pistole e lancia bombe a mano”.
Personaggi inquietanti che circolano nei fetidi alberghi di Goma e di Bukavu, la due capitali del Nord e del Sud Kivu, scolando fiumi di birra. Di solito loro non si fermano ad ammirare gli incantevoli panorami di questo paradiso terrestre, non si curano dei vulcani o degli umanissimi (e impressionanti) gorilla di montagna che popolano la catena del Virunga, al confine con il Ruanda.
Piuttosto vanno a negoziare con i signori della guerra, con i capi delle differenti fazioni e con i criminali che controllano il territorio. Alcuni restano nei salotti buoni, non si sporcano le mani, ma con grande cinismo arruolano mercenari, chiamati con un eufemismo (politicamente corretto) guardie di sicurezza, pronti ad ammazzare o allontanare scomodi curiosi, compresi i giornalisti.
Cosa che è accaduta qualche giorno fa a Piero Pomponi, un famoso ed esperto fotografo italiano attivo da anni sulle rotte africane (ora abita a Kampala). Era entrato in Congo per indagare sul traffico e contrabbando di coltan (colombite-tantalite, un minerale i cui componenti servono negli apparecchi elettronici) passando dalla frontiera ugandese di Port Mahagi (sul lago Alberto).
Stava andando a Beni, nelle zone controllate dal governo. Dopo pochi chilometri è stato fermato da cinque individui: “Uno, l’autista, era mulatto – racconta Piero –, un secondo aveva gli occhi a mandorla e gli altri tre bianchi che parlavano inglese con un forte accento russo. ‘Cosa sei venuto qui a curiosare? Vattene via e non ti fare vedere mai più’, hanno intimato. Per intimidirmi mi hanno accoltellato al braccio sinistro”.
L’ennesima guerra, cominciata nell’aprile scorso, vede da una parte l’esercito regolare, mal pagato mal organizzato, mal equipaggiato, alleato con miliziani hutu ruandesi (i rimasugli dei responsabili del genocidio del 1994, nel quale furono uccisi in 100 giorni un milione di tutsi e hutu moderati) e guerrieri tradizionali mai-mai. Dall’altra i ribelli dell’M23 (Marzo 23, dal giorno del 2009 in cui fu firmato un accordo di pace, mai rispettato dal governo), organizzati alla perfezione, ben pagati, ben istruiti, ben riforniti (probabilmente dai ruandesi e dagli ugandesi).
Fino a qualche settimana fa i ribelli controllavano qualche settimana fa anche la città di Goma, ma non era difficile attraversare il fronte a una ventina di chilometri di distanza poco dopo il villaggio di Sake e passare dalla parte governativa. Pochi i regolari, tanti i mai-mai, guerrieri tradizionali non perché combattano con lance e frecce, ma perché il loro addestramento prevede un’iniziazione di magia nera, il rispetto di regole esoteriche, l’assunzione di pozioni prodigiose, la protezione del corpo con oli miracolosi. Tutte cose che, secondo loro, li rendono invincibili. Sono convinti che le pallottole quando li colpiscono si sciolgano e diventino acqua (a qui il nome, mai-mai e cioè acqua-acqua).
Il sorprendente non è che loro – persuasi dai loro capi – credano a queste superstizioni, ma che ci credano anche persone che dovrebbero essere lontane da credenze popolari: “Certo le pallottole si trasformano in acqua”, assicura il prete della minuscola chiesa cattolica di Sake. Gli fa eco lo stringer della France Presse: “E’ vero”.
E a Shasha, altro villaggio mai-mai a una trentina di chilometri da Goma, alla domanda rivolta a un guerriero “ma avrai visto qualche tuo compagno cadere davanti a te colpito a morte? Come mai?”, arriva la stupefacente risposta: “Certo, ma non avrà onorato le nostre regole”. Regole ferree, da rispettare. Tra le altre, il giorno prima del combattimento non avere rapporti sessuali, mangiare solo cibo preparato da sé, non stringere la mano a sconosciuti. E poi non saccheggiare (se non le armi e le munizioni), né stuprare. Ecco, questi ultimi due precetti, da queste parti, sono difficilissimi da rispettare. Da qui, probabilmente, l’ecatombe di guerrieri mai-mai, quando si lanciano contro i nemici che scaricano gragnole di colpi. “Avranno saccheggiato una capanna e stuprato la proprietaria nella battaglia precedente”, giustifica serio e senza una smorfia un capo mai-mai.
E i caschi blu dell’ONU, soprattutto uruguayani, che dovrebbero monitorare il conflitto, impedire le violazioni dei diritti umani e proteggere i civili, che fanno? Risponde il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, con una battuta graffiante: “Turismo militare”.
Effettivamenteil loro discusso comportamento è piuttosto marginale, compresso dalla difesa dell’indifendibile imbelle governo congolese e l’ordine di proteggere a ogni costo la popolazione civile vessata dai soldati che taglieggiano la gente. Una contraddizione inestricabile. Quindi gli interventi del contingente – in Congo il più potente del mondo, quasi 20 mila militari – sono sporadici e rari. I caschi blu si limitano a “osservare” una situazione che si sta deteriorando sempre più.
Quei funzionari delle Nazioni Unite che, invece, interpretano il loro lavoro come una missione, venuti in Congo non per godere panorami e ambiente, ma per salvare vite umane e contribuire allo sviluppo della regione, sono demoralizzati e frustrati: “Disgustata è la parola giusta – spiega una giovane – . I soldati hanno razziato villaggi, stuprato donne e bambini sotto gli occhi dei caschi blu e nessuno ha denunciato la cosa. Sono tutti intenti a arraffare i propri stipendi e dilapidare, con una burocrazia inefficiente, i finanziamenti di una missione che costa decine di milioni di euro all’anno. No, io me ne vado. La mia coscienza mi impedisce di restare. Gli uomini sono riusciti a trasformare questo paradiso in un inferno. Qui regna una sola cosa: l’interesse personale. E a farne le spese è la popolazione civile che continua da decenni a soffrire”.
Il sequestro è avvenuto domenica sera, poco prima delle 8, ora locale, ma se ne è avuta notizia la vigilia di Natale. Il rimorchiatore d’altura, battente bandiera italiana, Asso 21, è stato assalito 60 chilometri al largo delle coste nigeriane dai pirati che hanno rapito quattro membri dell’equipaggio: il comandante, Emiliano Astarita, 37 anni, di Piano di Sorrento, il primo ufficiale, Salvatore Mastellone, 39 anni, di Sant agnello in zona sorrentina, il secondo ufficiale motorista, Giuseppe d’Alessio, 32 anni, di Pompei. Il quarto è un marittimo ucraino, Anatoly Alexelev, 35 anni.
SEQUESTRO ANOMALO Il sequestro appare molto diverso da quelli che si devono registrare in continuazione nel golfo di Guinea (almeno 50 nel 2012., l’ultimo il 17 dicembre scorso). Normalmente i bucanieri salgono a bordo delle navi, le saccheggiano, rapinano il carico, o una parte di esso, trasferendolo su battelli di più piccoli, e si dileguano rifugiandosi e nascondendosi in una delle migliaia di isolette che punteggiano il delta del Niger. Sono rari i sequestri di persona come quello di domenica.
Infatti stavolta il commando è salito a bordo dell’Asso 21, che appartiene alla compagnia napoletana Augusta Offshore, ha portato sulla tolda i quattro stranieri dell’equipaggio e li ha rapiti. Non si conosce l’ammontare del riscatto richiesto.
GUERRA POLITICA
Le notizie che arrivano dalla Nigeria sono frammentarie. Secondo fonti solitamente ben informate a Port Harcourt, capitale del Rivers State, ma la più importante città del Delta del Niger, il sequestro degli italiani e dell’ucraino si inquadra nella guerra politica che sta devastando il sud della Nigeria.
Due gruppi sono in lotta per la supremazia nel ricco di petrolio Beyelsa State, lo Stato della federazione nigeriana davanti alle cui coste si è consumato il rapimento dei quattro europei. I Diete-Spiff e i Briggs. I primi di etnia ijaw, governano la regione da almeno 300 anni; hanno ampi interessi nel petrolio, una lunga storia di corruzioni e tangenti ed espresso il presidente della repubblica nigeriana, Godluck Ebele Jonathan. Attorno a Ankio Briggs, una agguerrita signora di etnia igbo, si sono invece raccolti gruppi di militanti ecologisti che accusano il presidente Jonathan (del quale in un primo tempo erano sostenitori) di non ha fatto abbastanza per la popolazione locale, sia dal punto di vista della distribuzione delle risorse, sia da quello della reazione alle recenti inondazioni che hanno devastato il sud del Paese.
Ankio Briggs viene sospettata anche di avere simpatie secessioniste, sulla falsariga di quelle che portarono all’indipendenza del Biafra dal maggio 1967 al gennaio 1970. Tentazioni biafriane si sono manifestate quest’anno con dimostrazioni di piazza, nella regione del Delta del Niger.
FORTISSIMI INTERESSI
Ma non è solo politica. In realtà dietro le tesi espresse dai due gruppi ci sono fortissimi interessi, Proprio pochi giorni prima del sequestro, le compagnie petrolifere che operano nel delta del Niger hanno pagato ai capi tribali e a quelli delle milizie il cosiddetto “Bonus Natalizio”, una sorta di “pizzo” che viene elargito in cambio dell’assicurazione che non saranno toccati impianti e maestranze. Una pratica che va avanti da anni e che quindi ha provocato la demoltiplicazione dei questuanti, sempre più avidi.
BONUS NATALIZIO A proposito del sequestro dei quattro marittimi, sono due le ipotesi che vengono fatte in Nigeria: il “bonus” di quest’anno non ha soddisfatto qualcuno o la guerra tra ijaw e igbo è diventata così dura che uno dei due gruppi ha dato ai propri militanti l’ordine di attacco per destabilizzare la situazione. In particolare sarebbero stati gli uomini di Diete-Spiff a catturare gli ostaggi.
L’ Asso 21 sarebbe stato scelto con cura. In queste settimane, infatti, non lavorava per le società petrolifere, cui i Diete-Spiff sono particolarmente legati (soprattutto per l’ingente quantità di denaro che viene loro elargito ogni anno) e riconoscenti. E’ bene in questo senso ricordare, come esempio, che uno dei loro capi, Alfred (detto Debo) Diete-Spiff, qualche anno fa ha avuto un gravissimo incidente d’auto ed è stato ricoverato in Europa (dove gli hanno amputato entrambe le gambe) a spese dalla NAOC (Nigerian Agip Oil Company) la società mista Stato nigeriano e Eni. Ora è ridotto in carrozzella e quelli che vorrebbero sottrargli il posto di gran capo (in Africa un leone ferito viene fatto fuori dai suoi simili) non ci riescono.
Gabriele Volpi
GABRIELE VOLPI
Il rimorchiatore assalito è stato noleggiato dalla società italiana INTELS (Itegrated Logistic Systems di Gabriele Volpi) che a Port Harcourt gestisce un immenso “rifugio per espatriati” http://www.intelservices.com/ cioè una cittadella cintata e blindata con villette, campi da tennis piscine, ristoranti, ma soprattutto guardie di sicurezza che sorvegliano dappertutto contro ladri, rapinatori e sequestratori, gente che nella ricca area del Delta del Niger abbonda. Lì vivono, praticamente tutti, gli stranieri che lavorano nell’industria del petrolio.
Ma non solo. Con interessi diversificati nel business del petrolio la INTELS (che ha praticamente il monopolio della logistica e un giro d’affari che si aggira sul 1,5 miliardi di dollari) ha fatto di Gabriele Volpi uno degli uomini più ricchi del pianeta, definito dal settimanale economico Il Mondo, “il Roman Abramovic italiano”.
ATIKU ABUBAKAR
Come l’oligarca russo, Volpi (che è anche cittadino nigeriano) possiede una squadra di calcio (il La Spezia) ed è proprietario della Pro Recco, storico team di pallanuoto. Ultimamente, come ha scritto Il Sole 24 ore, ha affidato una parte del suo del suo patrimonio a un trust di diritto britannico proprietario di “Santa Benessere & Social”, società che ha tra i suoi progetti lo sviluppo del porto turistico di Santa Margherita Ligure.
Socio di Volpi è Atiku Abubakar, ex vicedirettore generale del servizio doganale nigeriano divenuto poi vice-presidente e uno degli uomini più ricchi e potenti del Paese. Atiku e Volpi sono indagati da una commissione di inchiesta del Senato americano che ha accertato ingenti pagamenti provenienti da tangenti pagate alla coppia dalle società petrolifere.
BUSINESSMEN IN SMOKING
L’attacco all’Asso 21 quindi si deve inquadrare in un contesto particolarmente intricato e difficile e non è certo opera di una banda di criminali senza guida “politica”. Il sequestro degli italiani e dell’ucraino è maturato in un complicato arcipelago nigeriano in cui coabitano uomini d’affari occidentali in smoking, politici corrotti, militari senza scrupoli, banditi da strada e, naturalmente, 007. Se il riscatto verrà pagato in fretta la liberazione sarà immediata. Ma c’è il pericolo che le trattative si protraggano per mesi con gravi conseguenze per la salute, anche psicologica degli ostaggi.
Nelle foto Reuters e Ap, dall’alto: il rimorchiatore Asso 21, un impianto petrolifero, una raffineria illegale, Gabriele Volpi e il suo socio, Atiku Abubakar.
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