Speciale Per Africa ExPress
Alessandra Fava
Genova, 7 ottobre 2025
“Bisogna fermare tutto quello che viene da Israele ed esce per Israele. Serve che tutta l’Italia chiuda i porti, come fanno i portuali a Genova”: così parla la relatrice speciale ONUi per i diritti umani sui Territori occupati dei palestinesi dal 1967, Francesca Albanese.
Oggi si trova nel cortile del Rettorato dell’Università in via Balbi, a Genova, a due passi dalla stazione ferroviaria di Principe, invitata dagli studenti in occupazione dal 24 settembre 2025.

Albanese lo ripete poi ai portuali che dal maggio 2019 combattono il traffico di armi, prima destinate contro lo Yemen e ora contro Gaza: “Voi avete acceso la miccia, la contestazione alle istituzioni deve arrivare non solo dagli studenti”.
Qualche ora dopo parla ai Giardini Luzzati con la sindaca Silvia Salis di un osservatorio sui traffici portuali e riparla dell’efficacia del boicottaggio anche nell’incontro pubblico alla sera, sempre ai Giardini Luzzati, con una folla enorme all’aperto, divisa in piazza e piazzette su vari livelli, perché gli organizzatori (Giuristi democratici, Anpi, Amnesty International e Defence for Children) sono stati contestati dalla comunità ebraica genovese per aver organizzato il dibattito il 7 ottobre, data della strage di Hamas due anni fa, a Palazzo Ducale, sede di una Fondazione.
Risultato: Palazzo Ducale è stato chiuso e i Giardini Luzzati si sono aperti, ci si affaccia Il Cesto, cooperativa sociale del centro. “Non importa il cambio della sede, è stata una bellissima serata – commenta Albanese dopo con i giornalisti – e poi c’erano megaschermi in diverse piazze, la gente ha potuto seguire”.
Al pomeriggio all’università occupata, il cortile è zeppo di persone (il rettore non ha concesso alcuna aula e non ha mai dialogato con gli occupanti). TV e i giornalisti sono tenuti fuori dal palazzo seicentesco. Nel dubbio, accanto al tavolo della conferenza campeggia un grande cartello “No foto, no video”. Ma la generazione Z qualche foto la scatta di nascosto e la posta subito su Instagram. Africa-Express l’ha intervistata e ascoltata nei vari luoghi attraversati.

Esponenti della comunità ebraica hanno contestato la sua presenza oggi a Genova 7 ottobre, a due anni dalla strage di Hamas. Che cosa ne pensa?
“Ci sono giorni giusti o sbagliati per parlare di diritto internazionale? Dal primo giorno dopo l’attacco di Hamas a Israele non ho cambiato idea: i popoli oppressi hanno il diritto di resistere, anche in forme armate. Ma se il diritto internazionale riconosce la resistenza, vige anche il principio che non si toccano i civili, di nessuna religione o etnia. Sono regole minime ma garantiste, altrimenti ci troviamo davanti alle barbarie.
La resistenza sta ad un popolo come il diritto all’autodifesa sta a uno Stato. Il popolo non ha mezzi per resistere all’attacco di uno Stato. Tecnicamente il popolo palestinese ha rinunciato a quel diritto. Nella Cisgiordania i palestinesi dopo aver provato la resistenza armata, negli ultimi 30 anni hanno provato la resistenza pacifica e neppure quella ha funzionato. I palestinesi non stanno scacciando l’invasore, stanno morendo di genocidio.
Non c’è niente di romantico in un giorno così. Che ci volesse tanta violenza per far parlare di Palestina è terribile: dove eravamo noi, gli avvocati, la comunità internazionale, gli specialisti di Medio Oriente? Lo dico da occidentale, senza paternalismo, è importante non proiettare le nostre istanze su un popolo che sta resistendo per esistere e combatte anche una battaglia di legittimità.
Oggi la parola resistenza è meglio non usarla, perché significa attirare acredine sul popolo palestinese. Ora bisogna fermare il genocidio. La resistenza facciamola contro le nostre istituzioni.
Il popolo palestinese muore anche per l’ignoranza in questa parte di mondo. Dobbiamo essere più amorevoli e più gentili. Detto questo bisogna anche rifuggire dalle strumentalizzazioni e lo dico anche alla comunità ebraica: continuiamo tutti insieme”.
Per parlare di genocidio abbiamo bisogno di una Corte internazionale che l’accerti?
“No, l’articolo 2 della Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del genocidio del ’48 è chiaro: se si uccidono esponenti di un gruppo, se si perseguita psicologicamente o mentalmente un gruppo e si limitano o si impediscono le nascite all’interno del gruppo, è genocidio.
Non abbiamo bisogno che nessuno lo attesti e per altro l’Italia ha anche una legge degli anni Sessanta. Contro questo genocidio, si sono mobilitati 14 Paesi, il cosiddetto Gruppo dell’Aja, (guidato da Colombia e Sudafrica, spero se ne aggiungano altri tra cui il Brasile). Dicono tre cose: niente più armi ad Israele, niente più porti per transiti di armi e serve giustizia. Non è casuale che uno dei Paesi che partecipa è proprio il Sudafrica che ha conosciuto l’apartheid. Insomma non dobbiamo continuare a fare business as usual”.
Meloni, Crosetto, Cingolani e Tajani sono stati denunciati alla Corte Internazionale dell’Aja per “concorso in genocidio”. Possono essere incriminati di genocidio?
“Non conosco le carte. Certo chi non impedisce il genocidio, collabora con chi ne è responsabile mi pare possa essere perseguibile”.
Che cosa auspica ora in una fase tanto complessa con l’accordo Trump in discussione e una possibile tregua che anche il sottosegretario generale agli affari umanitari dell’OCHA, Tom Fletcher chiama “lume di speranza”?
“Siamo in una fase di violenza terribile, ma anche chi ha combattuto l’apartheid in Sudafrica ricorda che gli ultimi anni sono stati i più feroci e lo storico israeliano Ilan Pappé sostiene che il sistema diventa più cattivo perché più fragile.
Il genocidio deve finire subito, deve finire l’occupazione permanente perché non si può ricostruire Gaza sulla presente road map per mettere fine all’apartheid. Per il resto il piano Trump non chiede ai palestinesi che cosa vogliono, non li coinvolge minimamente e divide Gaza dalla Cisgiordania senza Autorità Nazionale Palestinese. Però è un momento di accelerazione storica.
Nessun genocidio finora è mai stato prevenuto, penso a Ruanda, Bosnia, Myanmar. Questo è il primo che ha scosso le coscienze. Penso che ci stia servendo il diritto internazionale. È un linguaggio di coerenza. È l’ultimo strumento pacifico che rimane.
Adesso la nostra bussola è il blocco delle navi e delle università: divide chi il genocidio lo vuole e chi non lo vuole. Se ci muoviamo tutti insieme all’unisono e ognuno fa dei passi con la forza che può….questa fase apre la possibilità della fine dell’occupazione nella Palestina storica.
Il progetto che i palestinesi chiedono, assieme agli israeliani che lottano al loro fianco, è essere tutti uguali, senza privilegi e il potere dell’immaginazione. Non dobbiamo proiettare le nostre idee di liberazione ma ascoltare che cosa dicono loro”.

Con gli universitari, i portuali e ai Giardini Luzzati, Lei ha parlato di boicottaggio. Perché è uno strumento utile contro un genocidio e un’occupazione che dura da 70 anni?
“L’unico modo per influire sulle istituzioni è scardinare il sistema dal punto di vista economico. Possiamo anche riconoscere la legittimità della resistenza, ma intanto qui bisogna fermare tutto quello che entra in Israele e ne esce. Da osservatrice terza, al di fuori di queste manifestazioni, dico questo consenso non c’è mai stato e si grida anche nei cortei ‘volevamo salvare la Palestina e la Palestina ha salvato noi’. Siamo davanti a uno specchio. Siamo lo stesso sistema che priva i palestinesi del diritto di vivere, di andare all’università, è un sistema di privazione della libertà umana.
Perchè per sfollare, sostituire i palestinesi con colonie, strade, turismo, dietro c’è un’economia dell’occupazione e c’è anche l’economia che non si è sottratta a questo come le università oppure aziende di produzioni di mezzi edili o scavatrici che possono essere usati in guerra.
I partenariati con le università danno legittimità a normalizzare l’occupazione. Però vede, due anni fa neppure si poteva parlare di boicottaggio dell’università. Ora invece è diverso. La consapevolezza su queste cose è fondamentale”.
Lei parla spesso di analfabetismo funzionale. Che cosa intende?
“Fino a 30 anni fa c’era una conoscenza diffusa della situazione palestinese in Italia. Invece oggi mostrano le mappe per negare il genocidio. Un comportamento che perpetua il genocidio stesso e non stimola la conoscenza. Le università tornino ad essere luoghi del sapere, dove si discute liberamente. Inutile chiamare il competente di turno, che ha determinate opinioni, per bilanciare le discussioni”.
Come ha vissuto a livello personale questi due anni?
“Già a ottobre 2023 è stato evidente per me quello che sarebbe successo, visto il dispiegamento di forze militari messo subito in atto dallo Stato di Israele. Ho pianto molto in questi due anni.
Il momento più terribile è stato la tregua del 17 e 18 marzo di quest’anno quando l’esercito israeliano ha continuato a uccidere e sono morte 600 persone in un solo giorno. Però ho il vizio della speranza e penso che ognuno fa quel poco che può, davvero la situazione può cambiare”.
Durante la giornata genovese, Albanese ha fatto spesso riferimento al dibattito del giorno prima a Roma, Unpacking Israel, Unpacking Palestine, con Ilan Pappé ed Eyal Weizman. Chi volesse approfondire: lo trova qui.
Alessandra Fava
alessandrafava2015@libero.it
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