Lotta contro il tempo per impedire che la Siria precipiti nell’anarchia

Il pesante bombardamento israeliano su Damasco è anche un avvertimento a Erdogan. Il rischio è che la strategia di Netanyahu entri in rotta di collisione con quella di Ankara. Nel Paese arabo la criminalità è in aumento, le vittime di omicidi, esecuzioni sommarie, scontri armati, deflagrazioni di mine e di proiettili inesplosi si contano a migliaia. I jihadisti dello Stato islamico hanno intensificato gli attacchi, mentre un centinaio di depositi di armi chimiche non sono ancora stati individuati

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NEWS ANALYSIS
Giovanni Porzio
di ritorno da Damasco, 19 Luglio 2025

Quanto contano i simboli per i popoli del Medio Oriente? Me lo chiedevo alcuni mesi fa ad al-Qrayya, un polveroso villaggio siriano una ventina di chilometri a sud di Suwaida, mentre assistevo alle celebrazioni in onore di Sultan Pasha al-Atrash, condottiero dei Drusi durante la rivolta antifrancese del 1925.

Una grande folla si accalcava nella tomba-santuario del leader scomparso nel 1982: inni patriottici e sventolio di vessilli drusi, uomini a cavallo di scalpitanti giumente arabe, miliziani armati delle brigate di autodifesa, giovani donne nel costume tradizionale. Gli anziani con il fez, l’abito scuro, gli stivaloni e i lunghi baffi ricurvi parevano usciti da un vecchio dagherrotipo.

La immagini dell’Associated Press riprendono gli scontri dei gnomi scorsi tra drusi e beduini

I capi religiosi, volti antichi incorniciati da fluenti barbe bianche, incutevano rispetto. I discorsi finivano tutti con lo slogan reso celebre da Sultan Pasha: ad-din li-llah wa al-watan li-jami, la religione è per Dio, la patria è per tutti.

Drusi in allarme

Non era uno slogan casuale. Da quando l’ex jihadista Ahmed al-Sharaa ha conquistato il potere a Damasco, i drusi sono in allarme. Temono che il nuovo regime, nonostante i proclami inclusivi e la dichiarata volontà di salvaguardare le diversità culturali di cui è composto il mosaico siriano, possa privarli dell’autonomia di cui sono fieri e tenaci assertori.

Si sentono tra due fuochi: da una parte il governo che tenta faticosamente di estendere la propria autorità su un Paese frammentato, lacerato da divisioni etniche e religiose, ostaggio di una costellazione di gruppi armati e con una ventina di basi militari di potenze straniere (Turchia, Stati Uniti, Russia, Israele) impiantate sul suolo nazionale; dall’altra Israele, che con il pretesto di difendere “i fratelli” della comunità drusa siriana (ci sono villaggi drusi nelle alture occupate del Golan e molti drusi militano nelle IDF) pretende una “totale smilitarizzazione” del sud della Siria, ha occupato la sommità del monte Hermon, che domina Damasco e la valle libanese della Beqaa, e ha costruito nove avamposti permanenti sul lato siriano del Golan da cui partono incursioni armate sempre più aggressive con decine di vittime tra i civili.

Israele impedisce Stato unitario

Netanyahu, che non ha gradito la recente stretta di mano tra Donald Trump e al-Sharaa e la parziale revoca delle sanzioni economiche alla Siria, sembra deciso a impedire la nascita di uno Stato siriano unitario che avverte come una potenziale minaccia. Gli scontri dei giorni scorsi a Suwaida, innescati da una faida tra drusi e beduini, s’inquadrano in questo complesso scenario.

Quando le forze di sicurezza siriane sono intervenute per sedare i disordini, che hanno provocato almeno 250 vittime, l’aviazione israeliana ha bombardato il quartier generale dell’esercito a Damasco costringendo le milizie inviate da al-Sharaa a ritirarsi e a riconsegnare ai drusi il controllo del loro territorio.

La comunità drusa è divisa. Bahaa al-Jamal, comandante delle forze druse a Suwayda, è categorico: “Non riconosciamo l’autoproclamato presidente. Non è stato eletto e noi non siamo stati consultati. Accetteremo solo una costituzione federalista che garantisca la piena autonomia delle regioni del Paese”.

Città pluralista

Lo sceicco Yussuf Jarbu’a, uno dei capi spirituali della comunità, è più conciliante. Mi mostra con orgoglio il tempio principale di Suwayda, la biblioteca, gli uffici dei servizi sociali. Elenca i successi dell’amministrazione drusa, la pulizia delle strade, l’efficienza degli ospedali.

Mi parla di una città pluralista che resiste alla logica tribale e confessionale. “Siamo aperti al dialogo con le autorità di Damasco – dice – purché rispetti la nostra identità”. Su un punto s’irrigidisce: “Israele ha sempre cercato di allargare i propri confini. Ma noi non accetteremo mai un’occupazione straniera”.

Problema delle minoranze 

L’inquietudine dei drusi, che si sono finora rifiutati di integrare le loro milizie nell’esercito siriano, e delle altre minoranze, curde e cristiane, è cresciuta dopo i massacri perpetrati lo scorso marzo contro gli alawiti. Più di 1.600 civili, donne e bambini, sono stati trucidati, torturati, mutilati e seppelliti in fosse comuni dai tagliagole uzbeki, ceceni e uiguri che militano nei gruppi qaedisti e dai militari della divisione Hamza e della brigata Sulayman Shah, entrambe affiliate all’Esercito nazionale siriano sostenuto dalla Turchia.

Al-Sharaa ha risposto nominando nel governo provvisorio quattro ministri in rappresentanza delle principali minoranze. Ma il progetto di costituzione conferisce al presidente un potere quasi assoluto: primo ministro, capo delle forze armate e della sicurezza nazionale, facoltà di nominare i giudici, i ministri e un terzo del futuro parlamento.

Sharia fonte nuova Costituzione

Stabilisce inoltre che la sharia, la legge islamica, sarà la “principale fonte” del diritto. E così i cristiani di varia confessione, che prima della guerra erano più di due milioni, si sono ridotti a meno di 400 mila, e chi è rimasto fa carte false per raggiungere i parenti in Australia, in Canada o in Europa.

“Al-Sharaa” mi diceva l’arcivescovo cattolico di Aleppo, Hanna Jallouf, “deve sbarazzarsi degli estremisti salafiti e dei foreign fighters, cresciuti nell’ideologia di al-Qaida e dello Stato islamico. E per questo ha bisogno di tempo”. Ma i siriani, dopo 14 anni di guerra e di privazioni, sono stanchi di aspettare. Gli sfollati interni sono sette milioni: sopravvivono privi di aiuti in tendopoli di fortuna perché le loro case e i loro villaggi sono rasi al suolo. Sei milioni sono rifugiati all’estero.

Impedire che la Siria precipiti nell’anarchia è la priorità della nuova amministrazione. La criminalità è in aumento, le vittime di omicidi, esecuzioni sommarie, scontri armati, deflagrazioni di mine e di proiettili inesplosi si contano a migliaia. I jihadisti dello Stato islamico hanno intensificato gli attacchi nelle province di Raqqa e DeirEzzor, mentre un centinaio di depositi di armi chimiche non sono ancora stati individuati.

Il controllo limitato del territorio

Damasco controlla appena la metà del territorio siriano e con la decisione di dissolvere l’esercito di Assad, una mossa rivelatasi disastrosa nel caso dell’Iraq post Saddam, al-Sharaa dispone solo dei ventimila combattenti del suo movimento (Hayat Tahir al-Sham, Organizzazione per la liberazione del Levante) e non può per il momento disfarsi degli altri gruppi armati senza rischiare una nuova guerra civile. Il licenziamento di quasi mezzo milione di poliziotti e impiegati statali ha inoltre esasperato il malcontento di una popolazione che vive al 90 per cento sotto la linea della povertà, stretta nella tenaglia della disoccupazione e dell’iperinflazione.

Le casse dello Stato sono vuote: non ci sono i soldi per pagare i salari delle forze di sicurezza e dei funzionari dei ministeri. Senza contare l’immensità dei fondi (tra i 500 e i mille miliardi di dollari) necessari per ricostruire un Paese in rovina.

Casse vuote

Damasco e le grandi città sono afflitte da continui black out energetici: negozi e abitazioni privi di pannelli solari o batterie al litio restano al buio e senza acqua corrente. Nella capitale i sobborghi di Yarmuk, Jobar e Harasta sono un cumulo di macerie, come il quartiere armeno ad Aleppo, Baba Amr a Homs e l’intera cittadina di Maarat al-Numan.

Strade, ponti, scuole, ospedali, chiese, moschee e sinagoghe sono gravemente danneggiate. Nei villaggi rasi al suolo dall’aviazione e dalle bombe a grappolo, gli abitanti superstiti sono accampati tra gli scheletri delle loro case. “Qui almeno la metà degli edifici sono distrutti”, afferma Mahael-Shaer, sindaca dell’aramaica Maalula, patrimonio dell’Unesco.

Lo scenario geopolitico è altrettanto fosco. Gli Stati Uniti mantengono le loro basi nella zona petrolifera a est dell’Eufrate e hanno spinto Mazloum Abdi, leader curdo delle SDF (Forze democratiche siriane, partner della coalizione antiterrorismo a guida americana), a un accordo con Damasco che prevede il cessate il fuoco e l’integrazione entro un anno delle forze curde nel futuro esercito siriano.

Ruolo Turchia

Ma nel frattempo, gli scontri tra peshmerga curdi e milizie filoturche non sono mai cessati. La Turchia, principale sponsor di al-Sharaa, tratta la Siria come terra di conquista: consolida le posizioni nel nord (ad Aleppo è già in uso la lira turca), mira a espandere la propria sfera d’influenza e vede l’opportunità di stroncare definitivamente le ambizioni dei curdi nella regione autonoma del Rojava.

Il pesante bombardamento israeliano su Damasco è anche un avvertimento a Erdogan. Il rischio è che la strategia di Netanyahu entri in rotta di collisione con quella di Ankara. Lo scontro a distanza tra le due potenze regionali è già in corso. Con Tel Aviv che accusa la Turchia di volere instaurare un protettorato in Siria e la Turchia, membro della Nato, che ritiene Netanyahu “il maggiore pericolo per la sicurezza del Medio Oriente”. Ancora una volta, è improbabile che il destino della Siria sarà lasciato nelle mani dei siriani.

Giovanni Porzio
porzio.giovanni@gmail.com
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA

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1 COMMENT

  1. Il paradosso siriano per il quale i cattivi terroristi di al Qaida e isis erano combattuti da un bieco dittatore rinforzato dai cattivissimi russi e dagli ancor più cattivi Hezbollah sì è risolto. Ora non ci dovrebbero essere più imbarazzi e tutti nel paese si meritano gli interventi ai quali stiamo assistendo. Assad è stato combattuto e rimosso proprio perché era riuscito a garantire un’area di semi sovranità abbastanza importante sulla riva destra dell’Eufrate, con le eccezioni di Tal Anf occupata dagli Usa (l’unica strada diretta dall’Iraq per Damasco passava da lì) e della provincia di Idlib dove acconsentiva al trasferimento dei terroristi di HTS e ISIS mano mano che si arrendevano. Mal gliene incolse. Ovviamente non hanno acconsentito alla sua sostituzione con Al Jolani se non proprio per avere meno impedimenti a trasformare anche l’ultimo alleato di Mosca in mo in uno stato fallito, nel quale fare e disfare a proprio piacimento. Erdogan ci è cascato ed ora se la dovrà vedere con Israele e usa

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