Speciale per Africa ExPress
Emanuela Ulivi
1° giugno 2025
A fronte delle versioni ufficiali sulla guerra a Gaza e ad alimentare il dibattito se sia in corso o meno un genocidio, Avi Shlaim, uno dei Nuovo Storici che da qualche decennio offrono una lettura critica del Sionismo e di Israele, propone la sua prospettiva in Genocide in Gaza: Israel’s Long War on Palestine (Irish Pages Press, 2025). Una serie di saggi scritti in precedenza e nuovi capitoli, nei quali il professore emerito di Oxford, nato a Baghdad nel 1945 da una famiglia ebrea trasferitasi nel 1951 in Israele, argomenta che la guerra Israele-Hamas non è cominciata il 7 ottobre.
Deve essere piuttosto collocata nel contesto dell’occupazione dei territori palestinesi e di una storia che di fatto ha negato il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e ad avere uno Stato.
La ricognizione di Shlaim si rifà alla dichiarazione Balfour e alla sua inclusione nel Mandato Britannico sulla Palestina, cui la Gran Bretagna rinunciò unilateralmente. Gli inglesi se ne andarono, senza applicare il piano di partizione previsto dalle Nazioni Unite, creando così le condizioni per la Naqba, il trasferimento forzato di 750.000 palestinesi nel momento in cui fu istituito la Stato di Israele nel 1948.
Naqba continua
Da allora si è trattato per Shlaim, riprendendo l’espressione coniata da Hanan Ashrawi, di una “Naqba continua”, che ha contrassegnato la storia dei palestinesi col progressivo spossessamento ad opera del colonialismo di insediamento che, a differenza dell’assoggettamento delle popolazioni locali realizzato dalle potenze coloniali, ha operato per la sostituzione dei nativi.
Con l’avvento dei governi di destra in Israele anche la formula “land for peace”, terra in cambio di pace, al cuore delle trattative tra israeliani e palestinesi fino agli Accordi di Oslo, è stata soppiantata da un’altra equazione, “peace for peace”, che ha visto da un lato l’accelerazione degli insediamenti in Cisgiordania, dall’altra gli Accordi di Abramo, ossia il tentativo di normalizzare le relazioni coi Paesi arabi senza la necessità di risolvere il conflitto palestinese.

Benjamin Netanyahu, figlio di Benzion – il consigliere di Ze’ev Jabotinsky, fondatore del Sionismo Revisionista e autore di “On the Iron Wall (We and the Arabs)”, titolo ricalcato peraltro nel nome dell’operazione lanciata da Israele in Cisgiordania a fine gennaio 2025 – capo del Likud dal 1993 e oggi per la sesta volta capo di governo, non continua la guerra a Gaza come sostengono molti per rinviare i suoi appuntamenti giudiziari, né perché ostaggio della destra messianica. Netanyahu, scrive Shlaim, non è un politico moderato di destra, è egli stesso un estremista, propugnatore convinto della Greater Israel, che comprende la Giudea e la Samaria, ossia la Cisgiordania, con una missione esistenziale: impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Partito Sbagliato
Nella stessa direzione, il ritiro di Israele da Gaza del 2005 è stato tutt’altro che un contributo alla pace come si è voluto far credere, piuttosto una mossa nell’interesse di Israele: 8.000 coloni hanno lasciato la Striscia e l’anno dopo, grazie al governo del Likud, 12.000 nuovi coloni si sono insediati in Cisgiordania, dove il muro di separazione costruito dallo stesso Sharon è stato in realtà un ridisegno dei confini, che aveva a che fare più con l’appropriazione della terra che con la sicurezza dello Stato.
A Gaza, quando nel 2006 alle elezioni legislative dell’Autorità Palestinese – che, sottolinea l’autore, si sono svolte democraticamente – ha vinto Hamas, il partito sbagliato per Israele e l’Occidente, e ha formato un primo governo e poi un secondo di unità nazionale nel 2007 composto per lo più da tecnocrati, non solo Israele e i suoi alleati non li hanno riconosciuti, Israele ha rigettato la proposta di Hamas, il Movimento di Resistenza Islamico, più morbido rispetto alle posizioni massimaliste e antisemite del 1988, di negoziare una tregua a lungo termine, che significava l’accettazione di un accordo a due Stati e implicitamente il riconoscimento di Israele da parte di Hamas.
Si è saputo poi nel 2008 dai Palestine Papers del tentativo di Israele e degli Stati Uniti di sabotare il governo Hamas aiutando Fatah a organizzare un colpo di Stato. Hamas ha però giocato d’anticipo e ha preso il potere a Gaza con la violenza nel giugno 2007. Le operazioni militari dell’IDF, le forze di difesa israeliane, del 2009, 2012, 2014, 2021, 2022, per “tagliare l’erba” – secondo una metafora disumanizzante – sono state vere e proprie punizioni collettive per il numero sproporzionato di morti, che non hanno fatto altro che preparare ognuna la guerra successiva.
Intenti genocidari
Ma la convinzione che ci fossero intenti genocidari non è stata immediata per l’autore, che non ha mai messo in dubbio la legittimità dello Stato di Israele nei confini precedenti il 1967 e ha sempre sostenuto la soluzione dei due Stati, anche se questa è una prospettiva ormai sotterrata: meglio, dice, un solo stato “dal fiume al mare” dove ci siano libertà e uguali diritti per tutti.

Non solo l’uccisione di civili su scala industriale e la distruzione delle infrastrutture civili, ma il blocco degli aiuti umanitari e la morte per fame a Gaza mostrano che si è andati ben oltre l’autodifesa.
Il genocidio, scrive, è l’ultima risorsa di chi, frustrato, opera una pulizia etnica. Il Sionismo e l’Ebraismo, ci tiene però a precisare, sono due cose diverse, il primo è un’ideologia, l’altro una religione. Il governo presieduto da Netanyahu è l’antitesi dei valori ebraici, che sono l’altruismo, la verità, la giustizia e la pace.
Emanuela Ulivi
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