Denuncia del NYT: colf kenyane sfruttate fino alla morte in Arabia Saudita

Il viaggio della speranza si è spesso trasformato in un incubo. Chi è riuscita a riportare a casa la pelle, si deve ritenere fortunata

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Dal Nostro Corrispondente
Costantino Muscau
Nairobi, 20 dicembre 2025

Le casalinghe in Italia, siano esse di Voghera o di Treviso o delle Filippine , sono principesse saudite rispetto alle domestiche keniane sbarcate in Arabia Saudita per …sbarcare il lunario.

Tante donne africane hanno visto il loro viaggio della speranza trasformarsi in un incubo. Chi è riuscita a riportare a casa la pelle, si deve ritenere fortunata. Com’è successo recentemente a Frenda Chelangat, una giovane collaboratrice domestica della contea del Uasin Gishu, l‘ex provincia della Rift Valley, serbatoio di tanti campioni dell’atletica.

Colf subiscono abusi in Arabia Saudita

Emigrata in Arabia Saudita con un’agenzia nell’ambito dell’accordo di sponsorizzazione (il cosiddetto Kafala), la donna si è trovata come schiavizzata. È stata maltrattata al punto tale che si è ammalata gravemente. Le sue condizioni sono andate peggiorando sul piano fisico e psichico, ma non poteva muoversi perché le erano stati trattenuti passaporto e stipendi.

Si è salvata solo perché la famiglia è riuscita a contattare e coinvolgere Julius Rutto, 65 anni, un parlamentare della sua circoscrizione. Il deputato ne ha fatto un caso di Stato e ha chiesto il sostegno della Segretaria Principale per gli Affari della Diaspora.

Il 24 ottobre scorso la povera Chelangat è potuta tornare in quella casa che aveva lasciato attratta dal miraggio dell’ “Arabia felice”: un salario per aiutare la famiglia priva di risorse.

Abolizione Kafala

Per una beffa del destino, in quegli stessi giorni, l’Arabia Saudita, dopo decenni di critiche e proteste per la violazione dei diritti umani, annunciava ufficialmente l’abolizione del sistema Kafala.

Come si ricorderà (Africa ExPress ne ha già parlato), questa struttura contrattuale consentiva allo sponsor-datore di lavoro (Kafil) di tenere sotto controllo la vita privata e pubblica dei migranti, che non potevano modificare la loro attività, né lasciare il Paese né  rinnovare il permesso di soggiorno senza il benestare del “ padrone”.

In pratica i lavoratori erano intrappolati in una forma di schiavitù moderna. Il caso di Chelangat, però – ha scritto Il Centro per le imprese e i diritti umani (Business and Human Wrights Center) –  ha evidenziato le preoccupazioni persistenti circa la sicurezza dei lavoratori migranti keniani nella regione del Golfo.

Kenyane intrappolate

Si stima che in Arabia Saudita siano impiegati circa 200.000 keniani, molti dei quali proprio nell’ambito del sistema kafala. In genere si tratta di povere donne (in tutti i sensi) illuse da reclutatori ingannevoli e da campagne governative che promuovono il lavoro domestico all’estero, come via per alleviare la disoccupazione in patria. Il governo kenyano era arrivato addirittura a lanciare dei corsi di preparazione e di addestramento per queste donne senza arte né parte dirette nella penisola araba.

 Con gli effetti che si sono visti….

Questo perché già 5 anni fa l’Arabia Saudita veniva considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo per i lavoratori domestici stranieri. Tra il 2020 e il novembre 2022 almeno 185 giovani donne, impiegate come domestiche, sono morte per le violenze subite in famiglia. Pochi giorni fa, un’approfondita inchiesta del New York Times ha aggiornato questa drammatica statistica e ha costretto il Governo di Nairobi a prendere posizione.

Ossa rotte

Il quotidiano newyorkese parla di 250 decessi. Ha scritto: ci eravamo abituati a resoconti di salari rubati, stupri e percosse e ora anche a referti delle autopsie di lavoratori con ustioni, ossa rotte e “cadute misteriose”.

Già nel mese di giugno di quest’anno, il Centro Europeo per la Democrazia e i Diritti Umani (ECDHR) aveva stimato che le vittime negli ultimi 5 anni sarebbero state 274. E Amnesty International, il mese prima (maggio 2025), aveva reso pubblico un dossier ricchissimo di quasi 100 pagine. In esso si dice che l’Arabia ospita quasi 4 milioni di lavoratori domestici, compresi 1 milione e 200 mila donne e 2 milioni e 700 mila uomini provenienti da Africa e Asia. Insomma, una forza lavoro che gioca un ruolo essenziale nel consentire lo sviluppo economico del Paese e nel supporto delle famiglie.

Rapporto Amnesty

Eppure, il rapporto di Amnesty lo sottolinea bene, queste persone sono costrette a condizioni lavorative ed esistenziali terrificanti: anche oltre 16 ore di lavoro al giorno, poco riposo, spesso neppure un giorno libero per mesi e anni. Molte costrette a vivere isolate, tagliate fuori dal mondo in case private, dove frequenti sono gli abusi verbali. E non raramente quelli fisici da parte dei padroni e dei loro figli e discriminazioni razzistiche, perché africane. Con salari irrisori: in media, mezzo dollaro l’ora.

Il New YorK Times denuncia anche altri gravi fatti: madri keniane  impossibilitate ad andarsene perché i loro figli, nati fuori dal matrimonio, non hanno alcuno status legale. E il personale dell’ambasciata ostacola pure le loro richieste. Sedi diplomatiche di nazioni più piccole, come il Burundi, offrono un aiuto di gran lunga superiore.

Denuncia senatore del Kenya

Un’accusa confermata dalle dichiarazioni rese in Senato da Karungo wa Thang’wa, della contea di Kiambu, sensibile al problema dei bambini (ne ha due e lui è l’ultimo di 13 figli): “A Riyad ho visto con i miei occhi madri e figlioletti che dormivano per strada, compreso un neonato di 2 settimane. Come senatore e rappresentante del popolo, le ho incontrate, ma nessuno della nostra ambasciata lo ha fatto. In Arabia Saudita ci sono almeno 300 keniani detenuti senza adeguata assistenza da parte nostra. Le Filippine proteggono con maggior forza i loro cittadini”.

Il senatore Karungo wa Thang’wa

Anche il NYT non si ferma e punta il dito contro il governo di Nairobi. “Abbiamo trascorso un anno a indagare sugli abusi subiti da queste donne. Abbiamo scoperto che lo sfruttamento iniziava ancor prima che partissero.

“La nostra indagine ha scoperto che alcune delle figure più potenti della politica keniota traggono profitto dall’invio di queste donne all’estero, mantenendo i loro salari e le loro tutele i più bassi possibile”.

Coinvolte moglie e figlia del presidente Ruto

Secondo il giornale statunitense, chi avrebbe dovuto proteggere i lavoratori ne traeva profitto. Come ad esempio,”un importante membro della commissione parlamentare per il lavoro e altri esponenti della maggioranza. Persino la moglie e la figlia del presidente del Kenya, William Ruto, che risulterebbero le maggiori azioniste della principale compagnia assicurativa del settore del lavoro”.

A questo punto il governo si è mosso. Il primo segretario di Gabinetto e capo degli Affari Esteri, Musalia Mudavadi, 65 anni, in una conferenza stampa, prima, ha riconosciuto la portata della crisi, ma ha difeso la propria condotta. Poi, mercoledì 17 dicembre, in un comunicato ha annunciato misure volte a proteggere i kenyani in cerca di lavoro all’estero.

In particolare ha ribadito l’impegno di “voler salvaguardare il benessere dei lòavoratori, diritti e sicurezza, arginando gli agenti di reclutamento disonesti che attirano i giovani in situazioni pericolose e ingannevole”.

Nello stesso comunicato è stato pure citato “il presunto arruolamento di kenyani in conflitti militari stranieri e la segnalazione di concittadini arruolati nell’esercito russo e il rimpatrio di 18 combattenti kenyani”.

Interventi bilaterali

Il primo segretario ha anche affermato che il governo sta “perseguendo interventi bilaterali” con le autorità saudite per risolvere il problema. Ha sottolineato che i rimpatri e i servizi consolari per i cittadini in difficoltà si sono intensificati dal 2022.

 Effettivamente le autorità di Nairobi, forse anche sollecitate da anni di critiche, qualcosa sta facendo. Il governo del Kenya ha raggiunto un accordo con le autorità di Ryad per aumentare il salario minimo mensile per tutti i migranti: dal febbraio prossimo sarà di 34.455 scellini, poco più di 237 euro.

Un piccolo passo in avanti, conseguenza anche della riforma del lavoro varata recentissimamente dalla monarchia islamica con la cancellazione del sistema Kafala.

È anche una risposta indiretta al NYT che aveva scritto nel suo ponderoso e clamoroso rapporto: i migranti kenyani guadagnano il 40 per cento in meno di quelli filippini. Eppure sono diventati una voce imprescindibile dei proventi dall’estero, (circa 300 milioni di euro l’ anno di rimesse). “Un tempo. -, ha fatto notare (beffardamente?) il quotidiano americano – il  Kenya aveva il maggiore introito dall’esportazione del caffè .Ora dall’esportazione della forza lavoro a basso costo”!

La nuova riforma del mercato del lavoro, annunciata dal regno di bin Salman Al Saud, dovrebbe consentire una maggiore mobilità, la riduzione dello sfruttamento e la garanzia di un trattamento più equo per la manodopera keniana.In modo che cessi la strage e la schiavitù delle casalinghe nell’Arabia felice.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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