Nel campo dei janjaweed, “i diavoli a cavallo” che terrorizzano il Darfur

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Miliziani janjaweed in cammello fotografati in Darfur
Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Limo, (Darfur, Sudan), 30 marzo 2005
Eccoli lì i terribili janjaweed. Dall’alto della collina che domina l’arida vallata di Limo, nel Darfur meridionale, dove hanno sistemato uno dei loro campi, gli spietati “diavoli a cavallo” si distinguono benissimo, avvolti nel polverone sollevato dagli zoccoli delle loro mucche. E’ poco dopo l’alba e i bovini – sono migliaia – procedono lentamente verso una pozza d’acqua per l’abbeverata mattutina. “Le mandrie – spiega la mia guida, un europeo che conosce molto bene la zona, parla l’arabo ma in questo caso fa finta di non parlarlo – sono il frutto delle loro razzie.
Nessuno fino a due anni fa poteva mettere assieme così tanti capi di bestiame. Ora gli animali, che prima erano distribuiti tre o quattro per famiglia, sono raccolti tutti assieme nelle mani degli arabi. Gli africani, i legittimi proprietari, sono ridotti alla fame, costretti a scappare. Coloro che li hanno derubati, impuniti, sono diventati ricchissimi».
Per una buona oretta ci fermiamo sulla collina a guardare la scena. Ogni momento che passa, il bestiame aumenta di numero. E’ una scena impressionante. Non solo mucche. Ci sono anche capre, pecore, asini, cavalli e cammelli, tutti sommersi in una impalpabile nuvola di polvere.
Il dubbio se entrare nel campo o tornare indietro dopo aver assistito alla scena, viene sciolto quando uno dei capi dei janjaweed si accorge della nostra presenza sulla collina. Ci facciamo coraggio e scendiamo a valle per avvicinarci al bivacco.

Credevamo di trovarci davanti a gente scontrosa e pericolosa, invece tre dei loro capi ci vengono incontro e ci accolgono sorridendo con un “Salam Alekum” (la pace sia con te). Indossano una jallabia (il tipico camicione sudanese lungo sino ai piedi) e un turbante bianchi che sembrano appena usciti dalla lavanderia, nonostante l’aria imbottita di terriccio che arriva nei polmoni fino quasi a bloccare la respirazione. Non hanno armi, ma solo un lungo bastone pronto per essere brandito.

Sembrano divertiti dall’arrivo degli stranieri.“Avete parecchie bestie”. La risata di risposta rompe quasi i timpani e il più vecchio dei tre fa un ampio gesto della mano: “Sono tutte nostre”.
L’interprete avverte che è meglio non fare domande troppo invadenti. “E’ importante che il gruppetto non perda la sua ‘serenità'”.
Dopo pochi minuti di convenevoli si avvicinano due cavalieri. Anch’essi sono incuriositi dalla presenza di stranieri. Scesi a terra si presentano, Omar e Aden, e, a gesti, fanno capire di essere dei provetti cavallerizzi. “Vogliono mostrare quanto sono abili a cavalcare”, spiega l’interprete. I due si allontanano al trotto e ritornano correndo al galoppo. La parola janjaweed, diavoli a cavallo che terrorizzano la popolazione civile, non viene mai pronunciata, ma i due sembra vogliano far vedere agli stranieri quanto sia vera quella definizione. Solo alla fine del rodeo uno di quei tre che ci avevano accolto, bofonchia a un amico, che scoppia a ridere: “Cercano i janjaweed, ma non li troveranno”. Crede che noi non abbiamo capito.
Nel campo ci saranno almeno un’ottantina di persone.Solo uomini, non ci sono donne e bambini, segno evidente che si tratta di un campo militare. I janjaweed sono divisi in piccoli gruppetti, seduti in circolo, sotto gli alberi, chiacchierano tra loro e sorseggiano un bicchiere di the. “Parlano delle bravate fatte la notte scorsa e dei programmi per il futuro – racconta l’amico europeo -. Sono sospettosi ma non sembrano preoccupati della nostra presenza”. I cavalli e i cammelli, parcheggiati all’ombra di un enorme baobab, brucano improbabili fili d’erba che sbucano dalla sabbia e dai sassi.
Per raggiungere il campo occorre prendere la stradache da Nyala, capitale del Darfur meridionale, punta verso nord-ovest porta a Kass. E’ un arteria non troppo sicura. Martedì scorso hanno assalito l’auto dell’organizzazione non governativa italiana Cesvi e un’altra degli inglesi di Oxfam. “Banditi o janjaweed”, dicono alla polizia di Nyala, senza specificare. Le due macchine avevano bandiere spiegate al vento, che le rendevano riconoscibilissime, e a bordo solo impiegati locali.
Una volta a Kass occorre prendere verso destra.Lì non ci sono più strade, né sentieri. Si viaggia in una savana piuttosto brulla. I villaggi che si incontrano sono almeno una dozzina. Sono deserti e abbandonati, le capanne distrutte e bruciate dalle milizie filogovernative, i janjaweed appunto.
“Qui abitavano gli africani le cui mandrie sono state razziate – spiega la nostra guida -. I più fortunati si sono rifugiati a Kass, gli altri sono stati ammazzati, le donne stuprate e gli animali portati via, raccolti lì, nel loro campo di Limo. Nuove bestie arrivano tutti i giorni. Le autorità lo sanno, ma sono conniventi”.
A Kass, grande città a 25 chilometri da Limo, la situazione degli sfollati sembra essere drammatica. La città aveva 40 mila abitanti, ora ne conta almeno centomila. Vuol dire che il numero degli esterni ha superato quello dei locali. La gente in fuga dalla violenza dei janjaweed ha trovato rifugio ovunque: nelle strade, negli edifici pubblici, nelle scuole. All’istituto femminile superiore le capanne dei diseredati sono nei cortili, nei giardini e qualche branda persino nelle aule. “Si sistemano qui dentro per la notte – spiega Amna, un’insegnante di inglese – Dormono e poi la mattina escono all’arrivo delle ragazze. Aspettano fuori dalla classe finché le lezioni non sono finite”.

“Eravamo ricchi – racconta un africano che mette la testa fuori dalla sua capanna nel cortile della stessa scuola – Io avevo sei mucche”. E ora, dove sono quegli animali? “Forse a Limo, finiti, come altri, nelle mani di qualche arabo”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

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