Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
7 Febbraio 2013
Israele: La protesta dei richiedenti in Israele non si ferma. I sit-in continuano, giorno e notte, ma il governo israeliano non cede. Nel mese di gennaio del 2014 le autorità competenti israeliane hanno notificato a 1700 persone (per lo più sudanesi e eritrei) l’obbligo di recarsi a Holot, un centro di accoglienza situato nel deserto di Negev.
Pochissimi si sono presentati all’appello. Holot è considerato dai più “un campo di concentramento”, in grado di “ospitare” 3000 persone. Holot significa pochissima libertà di movimento, e, vista la sua ubicazione e il fatto che il deserto sia poco popolato, è praticamente impossibile trovare un lavoro, mantenersi, costruirsi un futuro.
Molti dei 55.000 richiedenti asilo che hanno raggiunto Israele in modo un ufficiale, durante il loro periodo di permanenza hanno un’occupazione, sono autosufficienti, aiutano i fratelli che ancora non si sono ambientati, e, hanno iniziato a sognare guardando avanti: una vita serena, un sogno che lentamente si stava trasformando in realtà. Poi la doccia fredda, il cambiamento di rotta del governo israeliano: i richiedenti asilo devono essere “internati” in un centro di detenzione, oppure devono lasciare il paese. Il governo ha fatto una proposta allettante: chi ritorna da dove è venuto, riceve un premio di 3.500 dollari. Nel 2013 duemilaseicento africani hanno risposto a questo programma di rimpatrio del governo israeliano. Talvolta, ahimè, con un finale tragico.
La maggior parte dei giovani ha lasciato la loro terra per un motivo ben preciso: dittatura, alcuna libertà, conflitti di ogni genere. Per continuare a vivere, ha dovuto abbandonare il proprio Paese, i loro affetti più profondi, le loro radici. Si sa; un profugo non può scegliere.
Ali, sudanese, è scappato dal Darfur. Sappiamo, ci possiamo immaginare del perché. Inutile scendere in ulteriori dettagli. Leggiamo ogni giorno sui giornali ed in rete della sofferenza di quel popolo.
Dawit e Yohanse sono giovani eritrei. La loro terra è governata dal dittatore Isaias Afewerki, paragonabile a Kim Young-il, despota della Corea del Nord. L’infinito servizio militare, la totale assenza di liberta di parola, l’oppressione, fanno sì che migliaia di giovani lascino ogni anno l’Eritrea, considerata una volta l’Eden dell’Africa sub-sahariana.
Tra i richiedenti asilo in Israele c’è anche chi è reduce del lager Sinai, dove sotto gli occhi di tutti è in atto la tratta degli esseri umani. In questo inferno, tortura, violenze, privazioni di ogni genere sono all’ordine del giorno. Ne esci – provato per tutta la vita – solamente dietro il pagamento di un consistente riscatto, pagato dai familiari. Se non possono corrispondere la cifra richiesta, li attende, il più delle volte, la morte.
Qualcuno ha accettato di partire, di lasciare Israele e ha chiesto di andare in Etiopia, come, per esempio Mussi. L’ufficio immigrazione israeliano gli ha consegnato i documenti necessari, ma una volta arrivato all’aeroporto di Addis Ababa, capitale dell’Etiopia, i funzionari per l’immigrazione, con estrema gentilezza, gli hanno esposto i fatti: “Se intendi rimanere nel nostro paese, devi andare in un campo profughi, oppure ritornare in Israele”. Non è certamente ciò che Mussi si aspettava. Lui vuole essere un uomo libero. Non vuole ne ritornare in un campo profughi, tanto meno in Israele.
Gibuti: nel centro di detenzione per profughi di Negada marciscono letteralmente da anni i rifugiati provenienti dall’Eritrea (Africa-Express ne ha parlato in un suo articolo pochi giorni fa). La morte per epatite del giovane ventenne Thomas Hadish ha scosso tutti. I suoi compagni ancora non possono credere che ora lui, così pieno di vita, li abbia lasciati per sempre.
Un paio di giorni fa è venuto il padre, Hadish Meles, rifugiato eritreo in Etiopia, a reclamare la salma del figlio, per potergli dare un funerale dignitoso in Etiopia. La sua richiesta non è stata accolta dalle autorità gibutine. Il giovane Thomas aveva cercato la libertà. Gli è stata negata anche da morto. Ora il padre, i parenti, non avranno nemmeno una tomba sulla quale piangere.
La vita dei richiedenti asilo non è migliore in Europa. Si soffre e, a volte si muore anche qui. Vi ricordate Robiel, il giovane annegato nel Canale della Manica a Calais, mentre cercava di raggiungere un traghetto ?
Venerdì scorso è deceduto un giovane rifugiato iraniano, minorenne, travolto da un camion mentre tentava di salirvi vicino a Calais; voleva raggiungere l’Inghilterra. Domenica un altro ragazzo è stato colpito da una pallottola proprio a Calais. E’ deceduto in ospedale qualche ora dopo. Un’inchiesta giudiziaria è in corso.
E qui in Italia? Una volta ottenuto il permesso sussidiario o lo status di profugo, sei solo. I giovani non sanno cosa fare. I centri per la seconda accoglienza sono pochi, le liste d’attesa spesso lunghissime. Nel frattempo i più sfortunati, senza soldi, senza un tetto sulla testa, senza lavoro, dormono all’addiaccio.
Essere profughi non è una scelta. Il mondo spesso sceglie che loro, profughi, lo rimangano per sempre. Un errare senza sosta, senza pace. Al profugo si nega la stabilità, l’aiuto necessario per ricominciare d’accapo.
Cornelia I. Toelgyes
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