Sudan: i bimbi defraudati del loro futuro, le prime vittime di questa guerra
Cornelia I. Toelgyes
21 luglio 2025
Il Sudan, teatro della più grande crisi umanitaria del momento con oltre 11 milioni tra sfollati e persone che hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi, è una guerra ampiamente oscurata per conflitti e tensioni politiche in altre parti del mondo.
Dall’inizio della guerra civile si stima che siano morte oltre 150 mila persone, ma probabilmente sono molte di più. A tutt’oggi non si vedono spiragli di pace all’orizzonte. E gli scontri, iniziati nell’aprile 2023 tra le Rapid Support Forces (RFS) capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti,” e le forze armate sudanesi (SAF) di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, leader del Consiglio sovrano e de facto presidente del Sudan, proseguono senza sosta. Il conflitto viene implementato anche “grazie” a svariati attori esterni, come Emirati Arabi Uniti, Libia e non solo.
Venerdì scorso il Consiglio Europeo ha adottato un nuovo pacchetto di sanzioni nei confronti di due personaggi e di due compagnie legate alle parti in causa. Si tratta di due comandanti militari, uno legato a SAF e l’altro alle RFS.
Abu Aqla Mohamed Kaikal in passato aveva disertato dalle RSF per poi unirsi a SAF nel 2024. È stato governatore dello Stato di Jazeera dopo la presa di potere dei paramilitari. E’ ritenuto responsabile di aver preso di mira i Kanabi, un gruppo storicamente emarginato, durante il periodo in cui è stato a capo delle Sudan Shield Forces (raggruppamento armato che combatte con i governativi).
Mentre Hussein Barsham ha svolto un ruolo di primo piano nelle operazioni delle RSF che hanno portato ad atrocità di massa, tra cui uccisioni mirate, violenze etniche, sfollamenti e violenze contro i civili, in particolare nel Darfur.
Le due società colpite dalla scure di Bruxelles sono Alkhaleej Bank e Red Rock Mining Company. La prima è in gran parte di proprietà di società legate ai membri della famiglia di Hemetti e svolge un ruolo essenziale nel finanziamento delle operazioni delle RSF.
La Red Rock Mining Company, la cui società madre è già sotto sanzioni USA, UE e GB, è accusata di agevolare la produzione di armi e veicoli per SAF. Il settore minerario è particolarmente importante perché alimenta il conflitto in Sudan. I giacimenti sono spesso collegati a zone di guerra e rappresentano siti strategicamente rilevanti per le parti in conflitto.
Le sanzioni dell’UE comprendono congelamento di beni e quello di fondi o risorse economiche. Inoltre, alle persone è stato vietato anche l’ingresso nei Paesi dell’Unione europea.
Intanto a metà luglio un gruppo di avvocati per i diritti umani sudanesi ha accusato i paramilitari di aver razziato e incendiato villaggi nello Stato del Nord Kordofan e di aver ucciso quasi 300 persone, tra cui bambini e donne incinte.
I legali hanno riferito ai reporter di al-Jazeera che nel villaggio di Shag Alnom, più di 200 persone sono state massacrate, bruciate vive nelle loro case o fucilate. In altri piccoli comuni vicini sono stati uccisi altri 38 civili e decine sono stati rapiti. Il giorno seguente, sempre secondo gli avvocati, è stato attaccato anche il centro abitato di Hilat Hamid dove si è consumato un altro bagno di sangue: 46 abitanti ammazzati, tra loro anche bambini e donne incinte.
Va precisato che nei diversi villaggi colpiti dalla furia dei paramilitari non erano presenti obiettivi militari. E secondo OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti) dopo i sanguinosi attacchi, oltre 3.000 persone hanno lasciato le proprie case.
E non capita di rado capita che chi fugge trova situazioni peggiori di quelle cha ha lasciato. Proprio in questi giorni 17 sfollati sono morti durante la fuga nel deserto. Avevano intrapreso il viaggio a Tina, nel Darfur, al confine con il Ciad, con la speranza di raggiungere Ad-Dabba nel Northern State del Sudan. La triste sorte degli sfollati è stata confermata da Abdul Rahman Ali Khairi, Humanitarian Aid Commissioner della regione. I sopravvissuti, tra loro anche 10 donne e 13 bambini, sono stati traferiti all’ospedale militare di Dongola.
Hiam Omar, funzionario dello Stato per lo sviluppo dell’infanzia, ha precisato che alcuni degli sfollati sono stati aggrediti dalla RSF subito dopo aver lasciato Tina.
Mentre venerdì, l’Agenzia per la lotta all’immigrazione clandestina di Bengasi ha annunciato che le autorità della parte orientale della Libia hanno espulso più di 700 migranti sudanesi.
Secondo AP i poveracci sarebbero stati rispediti in patria perché affetti da malattie contagiose, come epatite, AIDS. Mentre altri tra i settecento deportati avrebbero alle spalle condanne penali importanti o sarebbero stati mandati fuori dal Paese per “motivi di sicurezza”.
Non è la prima volta che la Libia organizza espulsioni di massa di sudanesi. L’ultima risale allo scorso maggio. Secondo l’UNHCR, ben 500 fuggitivi sarebbero stati spediti da Al Kufra verso la zona di confine tra Sudan, Ciad e Libia. Il gruppo sarebbe stato poi “accolto da personale militare e di sicurezza dell’ex protettorato anglo-egiziano”.
Intanto continuano i combattimenti tra le due fazioni a al-Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, l’unico feudo rimasto ancora sotto controllo dei governativi nella regione. Da mesi la città è costretta a vivere sotto bombe e pallottole. Gran parte della popolazione è fuggita, gli ospedali sono praticamente tutti distrutti e i convogli con aiuti umanitari sono regolarmente sotto attacco. Mancano i beni di prima necessità e, secondo l’ONU, il 40 per cento dei bimbi sotto i cinque anni ancora presenti in città soffrono di malnutrizione acuta. A al-Fasher lo stato di carestia è stato proclamato già alcuni mesi fa.
E sono proprio i bambini le prime vittime di questo assurdo conflitto. Oltre al cibo, mancano anche i vaccini. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il Sudan è il Paese dove viene effettuato il minor numero di immunizzazioni a livello globale. Fino al 2022 (prima dell’inizio della guerra) il 90 per cento dei bambini sudanesi veniva sottoposto a vaccinazioni di routine, mentre ora si sono ridotte al 48 percento, perché il sistema sanitario è al collasso.
Cornelia Toelgyes
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