Arabia Saudita rimpatri forzati
Dubai, 12 febbraio 2025
La volpe perde il pelo ma non il vizio. In Arabia Saudita continua l’accanimento contro la mano d’opera straniera e secondo il ministero degli Interni di Ryad alla fine di gennaio sono stati deportati 10mila lavoratori.
Altri 21mila sono stati arrestati in tutto il Paese per violazioni delle leggi sulla residenza, reati legati alle leggi sul lavoro, arrivo illegale nel regno wahabita e quant’altro. Si tratta di lavoratori provenienti dall’Africa, Asia, ma anche da altri Paesi del Medioriente.
E il giro di vite continua: il ministero ha riferito che altre 27.000 persone sono state indirizzate alle rispettive missioni diplomatiche per ottenere i documenti di viaggio, mentre per altre 2.300 si prospetta l’espulsione; le autorità saudite stanno preparando la necessaria documentazione.
Durante le operazioni di rastrellamento delle ultime settimane, le forze di sicurezza hanno anche messo dietro le sbarre oltre 1.400 persone mentre erano in procinto di entrare illegalmente nel regno. La maggior parte sono etiopi (55 per cento), e poi (41 per cento) yemeniti. In 90 sono invece stati bloccati perché stavano tentando di lasciare il Paese senza autorizzazione. Le autorità hanno arrestato anche 18 persone sospettate di aver ospitato, trasportato o assunto cittadini stranieri privi di documenti.
Insomma una retata su larga scala, ma nulla di nuovo, era già successo in passato. Nel 2013 il provvedimento di espulsione aveva colpito 23mila etiopi. Anche nel 2023 migliaia – soprattutto donne – sono state rispedite a Addis Abeba.
In parecchi Paesi arabi, molti lavoratori, specie per quanto riguarda i collaboratori domestici, viene ancora applicata la Kafala. Tale norma vincola la residenza legale alla relazione contrattuale con chi li ha assunti. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro. Se un dipendente rifiuta, decide di abbandonare l’abitazione senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
Tale regola equivale a una forma di moderna schiavitù. Per poter lasciare il Paese, tale meccanismo prevede un visto di uscita, per ottenerlo il datore di lavoro deve dare il suo benestare.
Già alla fine del 2020 il regno wahabita aveva annunciato di voler modificare il sistema kafala, introducendo nuove leggi sul lavoro. Le riforme poi introdotte purtroppo si sono rivelate inadeguate e l’applicazione delle nuove norme non ha ancora ottenuto i risultati voluti. Così i lavoratori migranti continuino a subire gravi abusi dei diritti umani. A tutt’oggi le regole difficilmente vengono applicate ai più vulnerabili e meno protetti, come collaboratori domestici, autisti, agricoltori, pastori e guardie di sicurezza.
Malgrado le problematiche e i gravi rischi che corrono i migranti, alla fine dello scorso anno il governo del Kenya aveva invitato giovani donne a candidarsi come tate in Arabia Saudita.
Spesso la mano d’opera straniera è costretta a lavorare molte più ore di quanto stabilito e capita anche che il salario sia inferiore rispetto agli accordi. E come succede spesso, molti restano persone a rischio detenzione, se considerati irregolari. E le prigioni saudite non sono proprio un albergo a 4 stelle. Qualche anno fa, alcuni etiopi avevano riferito a Amnesty International di essere stati picchiati e torturati con cavi e bastoni di metallo.
Gran parte dei migranti provenienti dal Corno d’Africa affronta un viaggio pericoloso per poter raggiungere l’Arabia Saudita. Molti si imbarcano a Obock (nel nord-est di Gibuti), ma prima di raggiungere la città portuale, da dove partono molti natanti (gestiti dai trafficanti) diretti verso lo Yemen, devono attraversare lande deserte e impervie, caldissime.
Non di rado vengono rinvenuti resti umani nella regione del lago Assal, nel triangolo di Afar, che si trova a 155 metri sotto il livello del mare e rappresenta il punto più basso del continente africano. Muoiono di stenti, fame e sete.
Altri annegano durante la traversata. Una volta giunti in Yemen, sconvolto da una feroce guerra civile, rischiano di essere fermati dalle autorità yemenite mentre tentano di attraversare il Paese e vengono rinchiusi in centri di detenzione più che improvvisati.
Africa ExPress
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