AFRICA

L’assurda polemica con il New York Times offende la famiglia Regeni

EDITORIALE
Barbara Ciolli
22 agosto 2017


Le cronache sul caso Regeni abbondano di ricostruzioni su presunte finte rivelazioni del New York Times a orologeria, manovre di anglo-americani contro gli interessi dell’ENI e degli italiani in Egitto, volontà di boicottaggio dei buoni rapporti tra il governo Renzi e poi Gentiloni con il regime di al Sisi, anche attraverso l’intrigo della morte del giovane ricercatore al Cairo.

L’ultimo polverone sulla lunga inchiesta del prestigioso giornale americano, pubblicata all’indomani dell’annuncio dell’Italia di rispedire un ambasciatore in Egitto dopo oltre un anno di sospensione dei rapporti diplomatici, esaspera le tesi complottiste sull’atroce uccisione di Giulio Regeni.

Con l’assurdo che – dalla solita destra della Realpolitik ma anche dalla sinistra stalinista (il presidente egiziano al Sisi è alleato in Libia con Putin e si fa armare dalla Russia) sempre più fascio-comunista e da una buona fetta di governativi del Pd – si arriva a gridare contro le potenze straniere che “non vogliono che l’Italia abbia un ambasciatore al Cairo” e contro i “buonismi” controproducenti del solidarizzare troppo con la famiglia Regeni.

Ma come, non erano Renzi e Gentiloni, rispettivamente premier e ministro degli Esteri alla scomparsa del ragazzo il 25 gennaio 2016, a essere schiavi dei poteri forti e del maxi giacimento offshore scoperto dall’ENI a Nord del Cairo, per aver esitato mesi e mesi prima di richiamare in patria l’ambasciatore in Egitto?

Nella calda estate della guerra alle ONG sui migranti (un’altra battaglia incredibile della pseudosinistra) la pistolettata del NYT all’Italia sul caso Regeni diventa il mostro, ma è come guardare il dito e non la luna. Oltreoceano – per qualsivoglia ragione, magari anche ideologica – nella sostanza si è attaccata la fine del gelo diplomatico tra l’Italia e l’Egitto, che era l’unico strumento di vera pressione sul regime per poter fare un po’ di luce e giustizia sull’accaduto.

Hanno ragione i genitori di Regeni a “sentirsi presi in giro”: un po’ da tutti a questo punto. Un anno fa erano in tanti dalla loro parte, adesso sono sempre più soli. L’indignazione sarebbe dovuta montare qui, in Italia, invece le acque sono state agitate dagli Usa e ci si arrabbia pure molto.

Giulio Regeni è morto a 28 anni al Cairo, dove stava svolgendo un dottorato per l’università di Cambridge, dopo un’agonia durata giorni in seguito a terribili percosse e torture perpetrate su tutto il suo corpo, ritrovato poi in un fosso il 3 febbraio 2016. Se è lecito dubitare della tempistica e delle informazioni poco circostanziate dell’inchiesta del NYT (pur a firma di un giornalista basato al Cairo da anni, molto esperto della vicenda), non ci sono prove di macchinazioni internazionali ai danni dell’Italia.

Sparare giudizi universali è un’offesa, della collettività ormai, ai famigliari di Giulio. Mentre sono evidenti i tentativi di depistaggio della polizia egiziana sul caso, tant’è che cinque agenti della sicurezza nazionale sono stati indagati dalla procura. Certa è anche la pratica nell’Egitto che arresta i giornalisti e censura i siti liberi, della sparizione, della tortura, a volte anche dell’uccisione di migliaia tra attivisti e dissidenti. Normale amministrazione, specie il 25 gennaio: anniversario della rivolte di piazza Tahrir del 2011 e della scomparsa di Regeni.

Ogni giorno, nell’Egitto che fa comodo all’Italia anche per prendersi indietro i migranti, dai dati delle ONG (anch’esse al soldo dei poteri economici e politici americani, si dice) tre Regeni egiziani scompaiono nel nulla: l’ex generale al Sisi sarà pure nel mezzo di una faida tra procura e polizia e relativi servizi rivali d’intelligence, non sarà neanche il peggiore, ma guida un regime militare dove anche un ragazzo italiano è morto di morte ingiusta. Perché prendersela con il NYT e difendere lui?

Barbara Ciolli
barbara.ciolli@tin.it
@BarbaraCiolli

 

Redazione Africa ExPress

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