Scuola per la pace
Emanuela Ulivi
Firenze, 29 agosto2025
Una storia lunga e originale nella costruzione di percorsi per la pace tra i popoli, fa sì che a Firenze, città di Giorgio La Pira, il dialogo intercomunitario e interreligioso, nonostante le difficoltà, non si sia mai interrotto.
Nemmeno in questo momento, in cui la guerra in Medio Oriente che scuote l’opinione pubblica mondiale dal massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 in poi, tocca particolarmente le comunità ebraiche, naturalmente legate a Israele.
Per Enrico Fink, presidente della Comunità Ebraica di Firenze – come ha affermato in un recente intervento – si tratta di trovare “parole nuove di pace e di convivenza, un linguaggio e un terreno inediti di incontro”.
Insomma, di non mollare. Per capire in che modo e in quali termini, gli abbiamo rivolto alcune domande – per iscritto, come lo sono le risposte qui riportate integralmente – a partire dalle parole che emergono nel dibattito pubblico.
Africa-ExPress: Parole che si pensava di aver stigmatizzato, come antisemitismo, odio, a volte usate in modo sovradimensionato, a volte tradotte in episodi di violenza, che rischiano di far naufragare decenni di dialogo tra le varie comunità. Non c’è il pericolo che le posizioni si radicalizzino in maniera irreversibile?
Enrico Fink: È un rischio molto, troppo concreto. Ogni giorno una nuova parola d’ordine, una notizia non verificata e venduta all’attenzione collettiva, un’immagine, uno slogan, uno scontro fra parole opposte diventa protagonista e trascina ondate d’emozione.
E invece, se volessimo avere un ruolo positivo per quanto tangenziale, dovremmo prima di tutto mantenere la serenità che l’essere lontano dal conflitto ci può dare.
In tutto questo, nello specifico, se è di tutta evidenza un aumento vertiginoso di pregiudizio antiebraico, e lo sdoganamento di espressioni antisemite fino a ieri impronunciabili in un contesto civile, è anche vero che l’uso indiscriminato dell’accusa di antisemitismo a qualunque oppositore della politica israeliana è svilente, e contribuisce attivamente a rendere sempre più difficile la lotta all’antisemitismo vero.
Io chiedo spesso al mondo ebraico di cui faccio parte di distinguere, ed evitare di usare a sproposito questa parola. Senza naturalmente far sconti alle espressioni invece autenticamente antisemite, che è inutile negare, purtroppo risuonano con crescente clamore.
Africa-ExPress: C’è un’altra parola, genocidio, lacerante, soprattutto per le comunità ebraiche: se le parole sono pietre questa è un macigno, che alcuni temono possa essere usata per affrancare l’Occidente dalle proprie responsabilità storiche verso gli ebrei.
Enrico Fink: Il dibattito intorno all’uso del termine genocidio è surreale. Una riflessione, una accusa pesantissima e delicata, che come è del tutto ovvio spetta da una parte ai tribunali internazionali, dall’altra agli storici e al mondo accademico, invece viene usata come fosse un coltellino a serramanico in una rissa di strada. Vorrei prima di tutto chiarire un concetto: il problema non è la responsabilità storica dell’Occidente (solo) verso gli ebrei e le altre vittime della persecuzione razzista del nazifascismo – Rom e Sinti, omosessuali, disabili; il problema è la responsabilità storica dell’Occidente verso se stesso.
Viviamo in un Paese che appena ottant’anni fa ha potuto scrivere il razzismo come legge dello Stato, applicandolo fino alle sue estreme conseguenze. I nostri nonni non erano peggiori di noi: e quei germi, quella possibilità di barbarie, se c’era allora c’è oggi.
La sacralità della memoria di quel periodo non è dovuta alle vittime, ma prima di tutto ai persecutori, che siamo noi, italiani, europei. Qui sta il concetto che spesso si travisa. Qui la “unicità” della Shoah: nel suo essere un genocidio pianificato e messo scientificamente in atto dalla NOSTRA società, in tutte le sue componenti, intellettuale, tecnica, scientifica, popolare.
Se si limita l’importanza della memoria alla santificazione delle vittime, alla creazione di tante piccole statuine di Anne Frank da mettere su una mensola e spolverare ogni 27 gennaio, si perde il senso profondo di quell’esercizio.
L’attenzione va spostata dalle vittime a coloro che si sono fatti carnefici, cioè noi italiani, noi europei. Altrimenti si permette di utilizzare l’equiparazione delle vittime di allora ai carnefici di oggi, che non è solo un’aberrazione di per sé, è un pericolosissimo meccanismo di autoassoluzione.
Anche la parola genocidio e l’uso improprio che se ne fa, sta qua dentro: se
perdiamo di vista la differenza fra una strage, per quanto atroce, e un genocidio – fra un massacro e la studiata, pianificata eliminazione a tavolino di un popolo, trasformato in nemico per nascita, per DNA – si sminuisce la portata dell’indicibile violenza di cui ci siamo macchiati, appena poche generazioni fa.
Se tutto è genocidio, niente è genocidio. Naturalmente, lo ribadisco a scanso di equivoci, questa è una riflessione politica, che non toglie alcunché alla giusta indagine, nelle sedi opportune, delle responsabilità per le morti di questo conflitto: sta ai giuristi delegati determinare se ci sono intenti genocidari, e perseguirli nel caso.
Ma oggi viviamo in un contesto che spesso impedisce anche solo di prendere la parola, soprattutto a ebrei (si pensi all’ignobile campagna contro la senatrice Segre), se prima non abbiamo pronunciato la parola magica “genocidio”, diventata un feticcio, in chiave di assoluzione delle proprie colpe.
Africa-ExPress: Essere ebreo non significa identificarsi con Israele, nonostante il legame tra la diaspora e lo stato di Israele sia naturale anche se non automatico. C’è chi, anche in Italia, è dalla parte del governo israeliano senza se e senza ma e chi ne ha una visione decisamente critica. Davanti alle immagini di violenza, di morte, che toccano chiunque, in che misura la diaspora, così lontana e così vicina, può far sentire la sua voce e contribuire alla pace in nome dei valori ebraici?
Enrico Fink: Oggettivamente, la possibilità di incidere sulle scelte del governo d’Israele da parte del mondo della diaspora – che comunque è, com’è naturale, del tutto eterogeneo e diviso, portatore di istanze molteplici e spesso divergenti – è pari a zero.
Oggi Israele stesso è un Paese diviso, come testimoniano le imponenti manifestazioni di protesta che lo agitano giorno dopo giorno. L’opinione di chi abita lontano da quel conflitto non può avere presa su chi lo vive quotidianamente.
Avremmo invece molta possibilità di intervento sulla creazione di parole di dialogo e comprensione reciproca fra avversari, cosa che la polarizzazione del dibattito pubblico allontana, creando in chi abita laggiù la percezione di un isolamento totale, e in Italia e Europa allontanando spesso dal campo pacifista quel mondo ebraico che ha in odio la guerra, ma che non può riconoscersi in posizioni massimaliste e che, consapevolmente o meno, non predicano la pace ma la vittoria di un fronte sull’altro, che è un’altra cosa.
Le comunità, hanno la responsabilità di rifiutarsi di farsi schiacciare in posizioni che sembrano giustificare la morte, la guerra; il richiamo etico universale alla pace, al “non uccidere”, deve essere gridato a gran voce, superando qualunque schieramento politico o ideologico.
Africa-ExPress: Dopo decenni di conflitto permanente tra israeliani e palestinesi, per vari intellettuali sparsi per il mondo, anche di origine ebraica, sembra imporsi una riflessione sul sionismo e sui suoi sviluppi storici, passati e futuri.
Nello stesso Israele c’è chi mette a confronto il sionismo delle origini col sionismo religioso i cui esponenti sono ora al governo. Qui da noi si parla di sionisti e di antisionisti, alimentando la polarizzazione.
Quale contributo possono dare le comunità ebraiche, quella di Firenze in particolare, a questo dibattito culturale?
Enrico Fink: Per decenni, nel contesto della lotta al pregiudizio antiebraico, ci siamo sforzati di fare capire il concetto basilare per cui ebreo e israeliano sono due cose diverse. E per carità, abbiamo fatto bene – ancora questa confusione regna sovrana.
Però forse, e qui ci metto un poco di autocritica, non basta: forse bisogna anche spiegare il legame che lega le comunità della diaspora a Israele: un legame che non porta in automatico, e ci mancherebbe, a sostenere i governi, ma che in gran parte del mondo ebraico della diaspora è sentito con forza e passione verso la storia e i valori fondanti di un Paese che oggi una vulgata scorretta identifica in maniera aberrante con la storia del colonialismo e con una sorta di avamposto della supremazia occidentale sul resto del mondo.
La storia del sionismo non è certo esente da critiche e tragedie: ma è la storia di un movimento di autodeterminazione di un popolo, e di profughi, molto prima e molto dopo della Shoah.
Sentire addebitare su Israele tutto il male del colonialismo, in particolare da parte di un Paese che i conti col proprio, sanguinosissimo, passato coloniale non li ha fatti – dove criminali di guerra sono ancora nominati in strade e piazze, dove l’eco del razzismo di stampo coloniale permea la cultura popolare e lo stesso linguaggio, fa male.
Si tratta di un ulteriore esempio di come si usi il conflitto mediorientale per esorcizzare le proprie colpe. E ribadisco, nessun problema a ragionare criticamente sulla storia del sionismo: oggi questo termine però viene tirato di qua e di là, sempre a sproposito – non per ultimi, sia chiaro, da esponenti politici israeliani di estrema destra di matrice kahanista, qualcuno dei quali siede anche al governo purtroppo, che hanno usurpato il tema del sionismo religioso con dichiarazioni inaccettabili che niente hanno a che vedere con lo spirito originario.
Ma criminalizzare il sionismo con l’etichetta di movimento “razzista” è semplicemente un falso storico e concettuale. Su questi temi, mi rendo conto non facili e non riducibili a slogan e parole d’ordine, la riflessione ci vede volentieri partecipi.
Africa-ExPress: A Firenze qualche anno fa è nata la Scuola fiorentina di alta formazione per il dialogo interreligioso e interculturale; vicino ad Arezzo c’è l’esperienza di Rondine Cittadella della Pace che accoglie giovani provenienti da Paesi teatro di conflitti.
Insomma si lavora a vari livelli per favorire la conoscenza, abbattere i pregiudizi e i muri tra le persone. Cosa serve perché questi modelli diventino pratica condivisa, linguaggio comune? La speranza è condannata a rimanere un esercizio dello spirito?
Enrico Fink: In un recente incontro che ho avuto con Roy Silberberg, direttore della scuola per la pace di Neve Shalom dove studenti ebrei musulmani e cristiani, israeliani e palestinesi, studiano insieme – luogo di ispirazione per la nostra splendida realtà di Rondine, per l’appunto – Roy ha detto una cosa che credo dovremmo meditare tutti.
E cioè: prima o poi la guerra finirà. Non sappiamo quando, non sappiamo quante altre orribili e inutili morti ci saranno prima, ma finirà. E resteremo, dice Roy, noi persone di una parte e l’altra della barricata, con la necessità di costruire un futuro fatto di dialogo e non di scontro.
Se non cominciamo prima a costruire le fondamenta di quel dialogo, a cercare le parole della pace, dell’incontro, siamo condannati a ripetere prima o poi gli stessi errori. A questo sforzo di costruzione di un terreno di incontro e riflessione comune, noi anche da lontano possiamo contribuire.
Abbandonando le tifoserie, abbandonando la polemica fine a se stessa, cercando di perseguire una riflessione profonda, che non faccia sconti alla verità storica ma che si ponga il problema di costruire un futuro di pace.
Lavorando su ciò che è prodromo a qualunque dialogo: il riconoscimento dell’altro. Se non mostriamo di farlo noi, che abitiamo al sicuro e lontani dalla morte quotidiana, come possiamo chiederlo a chi vive laggiù?
Emanuela Ulivi
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