Entering the Middle East [photo credit The Dallas morning news]
Federica Iezzi
Di ritorno da Gaza City, 08 luglio 2025
“Ci sono decenni in cui non accade nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni“. Così scriveva profeticamente Lenin in piena prima guerra mondiale.
Israele è arrivato scioccamente di fronte a un cupo dilemma strategico. E l’Iran ne è il protagonista. Non può distruggere il programma nucleare iraniano senza l’aiuto militare degli Stati Uniti. Né tantomeno può indurre un cambio di regime, impresa che gli Stati Uniti non sono riusciti a realizzare nonostante decenni di sforzi.
La base di Trump – l’alleanza MAGA (Make America Great Again), gli alfieri del trumpismo – si oppone fermamente a un altro conflitto in Medio Oriente. Una guerra con l’Iran potrebbe mettere a repentaglio la sua agenda interna e infiammare le tensioni con rivali geopolitici come la Cina.
Dall’Afghanistan all’Iraq, la storia ha ampiamente dimostrato che gli interventi militari statunitensi non hanno mai portato la pace. Al contrario, hanno lasciato devastazione e seminato odio, danneggiando profondamente anche la società americana.
In Iraq, gli Stati Uniti hanno rovesciato Saddam Hussein, trasformando il più grande e pericoloso vicino dell’Iran da nemico a vassallo ancor prima che le milizie di Teheran salvassero Baghdad dall’ISIS.
Le forze inviate dall’Iran in Siria hanno svolto un doppio compito, preservando il regime di Assad e aprendo al contempo un canale di approvvigionamento di armi a Hezbollah, milizia sostenuta dall’Iran. Con base in Libano, Hezbollah era il fiore all’occhiello dell’Asse della Resistenza che l’Iran aveva schierato contro Israele.
È dai tempi dell’amministrazione Bush che si elabora un piano radicale per rimodellare il Medio Oriente a favore di Israele. Dopo aver rovesciato l’Afghanistan, il piano prevedeva di invadere e smantellare sette paesi a maggioranza musulmana: Iraq, Libano, Siria, Libia, Sudan, Somalia e, infine, l’Iran. Le forze filo-israeliane negli Stati Uniti hanno svolto un ruolo centrale nel guidare l’invasione dell’Iraq.
Per oltre 80 anni, l’opposizione a Israele ha caratterizzato il Medio Oriente. Per la Repubblica Islamica dell’Iran, lo è ancora. L’allontanamento dello Stato israeliano dalle terre islamiche è fondamentale per l’ideologia della Rivoluzione islamica del 1979, che ha posto l’Iran nell’improbabile ruolo di leader del mondo musulmano.
Così, alla vigilia del 7 ottobre 2023, i leader di Hamas, l’unico nodo palestinese di spicco dell’asse, avevano motivo di supporre che, dopo aver violato le difese israeliane nella Striscia di Gaza ed essersi riversati in Israele a migliaia, non avrebbero combattuto a lungo da soli.
Ma l’asse della resistenza si è opposto a malapena. La verità è nelle parole dell’Ayatollah Khomeini, creatore del sistema teocratico che governa l’Iran, “La preservazione del sistema è la massima priorità”.
Quella a Gaza è una guerra che Israele non si aspettava e che non ha alcun piano per vincere, perché in fondo non è una questione militare. La questione palestinese sarà ancora in sospeso quando gli scontri cesseranno. La guerra contro l’Iran, al contrario, è una guerra che Israele ha pianificato per anni, e che ha aperto con una strategia di inganni e attacchi di precisione contro siti missilistici.
L’Iran non è Gaza. È uno stato sovrano di circa 90 milioni di persone. Il suo territorio ostacola le invasioni, la sua profondità assorbe gli attacchi e i suoi missili penetrano in profondità in Israele. È stato sanzionato, sabotato, assassinato, eppure resiste ancora, continua a contrattaccare.
Per la prima volta dal 1948, le città israeliane sono sotto un fuoco continuo. L’illusione di immunità è svanita. E Israele non può dichiararsi vittima. Non quando detiene le bombe, le armi nucleari, il sostegno di ogni potenza occidentale. Non quando ha trascorso decenni ad attaccare gli altri impunemente.
In una discussione che si trascina negli anni, come la questione israelo-palestinese, qualunque sia l’argomento, arriva sempre un momento in cui la probabilità di vedere apparire un paragone con i crimini del Terzo Reich diventa certa. Tutti conoscono in linea di principio questa trappola, che consiste nell’utilizzare un paragone esagerato e storicamente errato, per screditare l’avversario. E la gloria che raccoglie questa trappola è un preoccupante segno dei tempi, che tende a diventare la malattia cronica delle democrazie.
Israele è ora governato, apertamente e orgogliosamente, da fanatici. I ministri minacciano l’annientamento. I coloni gridano slogan di genocidio. I soldati si filmano mentre demoliscono case e posano con la lingerie delle donne che hanno sfrattato e ucciso.
L’obiettivo, a quanto pare, è quello di creare le condizioni per quella che sarebbe la più grande operazione di pulizia etnica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Affermare che “non un solo chicco di grano entrerà a Gaza” (Bezalel Yoel Smotrich) è una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario. È impossibile non vedervi un intento di sterminio. Non è meno grave di quello accertato in passato dalla giustizia internazionale a Srebrenica e in Ruanda.
Sia chiaro: Israele non è mai stato solo uno Stato. È stato creato come colonia occidentale per sostituire gli imperi in ritirata di Gran Bretagna e Francia. Gli Stati Uniti sono intervenuti, assumendo il ruolo di esecutore regionale, sostenendo i tiranni, assicurandosi il petrolio e reprimendo la resistenza. L’obiettivo non è mai cambiato: soggiogare la regione, estrarne le ricchezze, mettere a tacere la sua popolazione.
Ma questa volta, la strategia sta fallendo. La storia si muove. E potrebbe non muoversi a favore dell’Occidente.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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