La supremazia razziale e il diritto all’autodifesa: così volevano giustificare il genocidio in Rwanda

Nelson Mandela urlò al mondo di mettere in atto “azioni concrete per porre fine alla carneficina” ma non fu ascoltato

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Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
12gennaio 2024

Nel 1993, quando il Mouvement Républicain National pour la Démocratie et le Développement (MRND), partito al potere in Rwanda, era impegnato in negoziati per porre fine alla guerra civile, la voce ufficiale dello Stato, la stazione Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), trasmetteva odio e preparava i suoi ascoltatori alla violenza. La radio era sostenuta dal giornale filogovernativo, Kangura.

Kangura, No 6, 1990

RTLM inizia le sue trasmissioni poco dopo gli accordi di Arusha, che avevano posto fine alla guerra civile rwandese del 1990-1993. A differenza di Radio Rwanda, vetusta e formale, RTLM aveva portato la voce della gente comune sulle onde radio. Gli ascoltatori potevano interagire con la radio, richiedendo musica o scambiando opinioni. I giornalisti di RTLM scendevano in strada invitando i passanti a commentare gli argomenti del giorno. Un approccio populista che gli aveva permesso di entrare in ogni casa.

RTLM, dopo aver acquistato popolarità e fiducia, aveva ripetutamente e con forza sottolineato le differenze tra hutu e tutsi, l’origine straniera dei tutsi e quindi il loro non-diritto a dichiararsi ruandesi, la sproporzionata quota di ricchezza e potere detenuti dai tutsi e gli orrori del passato del dominio tutsi. Aveva continuamente sottolineato la necessità di prestare attenzione ai complotti e ai possibili attacchi tutsi. Usando il termine inyenzi (scarafaggio) in riferimento ai tutsi del Front Patriotique Rwandais e ai suoi sostenitori, ribadiva che “la crudeltà degli inyenzi può essere curata solo dal loro totale sterminio”. Aveva descritto come traditori, gli Hutu disposti a collaborare con i tutsi definendoli come “nemici della nazione che dovrebbero essere eliminati in un modo o nell’altro dalla scena pubblica”.

Sui documenti dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals (IRMCT), si può leggere ancora oggi una lunga lista tra responsabili e incitatori del genocidio in Ruanda, privi di una sentenza.

Il fallimento politico e morale della comunità internazionale in Ruanda è innegabile, compresa la disastrosa Opération Turquoise, lanciata nel 1994 dalla Francia, sotto il mandato delle Nazioni Unite. Innegabile è stato anche il silenzio del continente africano.

La Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda (UNAMIR) valutò erroneamente la gravità degli avvenimenti. E se da un lato il comandante della missione, il generale canadese Roméo Dallaire, sbagliò completamente strategia, dall’altro alla guida delle Nazioni Unite figuravano due africani: l’egiziano Boutros Boutros-Ghali, segretario generale, e il ghanese Kofi Annan, sottosegretario generale e responsabile delle operazioni di pacificazione. Entrambi poi accusati d’inazione, in riferimento al genocidio.

Solo Nelson Mandela, durante il vertice annuale dell’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1994, urlò al mondo africano di mettere in atto “azioni concrete per porre fine al genocidio”. Non si fece attendere la risposta sconcertante di François Mitterrand “Mandela o no, non permetteremo che gli anglosassoni ficchino il naso nei nostri affari”. E così il genocidio ebbe il via libera.

Una mappa della diaspora genocida mostra che ancora oggi, gli imputati sono saldi in tutto il continente, dal Sud Africa al Kenya, dallo Zimbabwe alla Repubblica Democratica del Congo. Ne è un esempio Félicien Kabuga, finanziatore del genocidio, catturato solo nel 2020 in Francia, dopo una lunga latitanza tra Repubblica Democratica del Congo e Kenya, e nemmeno mai condannato a causa di una malattia degenerativa neurologica.

Le ex colonie francesi sono state, per ovvi motivi politici, la prima scelta per i sicari in fuga. Particolarmente benvenuti in Gabon o in Camerun. Come il colonnello Théoneste Bagosora, considerato la mente del genocidio, condannato poi nel 2008.

Il tema centrale delle campagne di informazione condotte da chi aveva stretti legami con il regime genocida, era quello del popolo maggioritario e della legittimità all’autodifesa contro un sistema feudale. Il riferimento normalizzava il massacro perpetrato dalla maggioranza, che diventava espressione di rabbia democratica. “Se gli hutu, che rappresentano il 90% nel nostro Paese, riescono ad essere sconfitti da una combriccola del 10%, i tutsi, significa che non abbiamo dimostrato tutta la nostra forza”, erano le parole del leader del MRND, Joseph Nzirorera, che riecheggiavano su RTLM.

Il tocco finale è stato affidato alla rivista Kangura, diretta da Hassan Ngeze, condannato poi dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (ICTR) nel 2003, con riduzione della pena nel 2007. Il giornale divenne presto famoso per la pubblicazione di quelli che venivano follemente definiti i “Dieci Comandamenti” [Hutu Ten Commandments, Kangura, No 6, 1990], base dell’ideologia di supremazia hutu, e per aver rilanciato il Manifesto Bahutu del 1957, documento considerato l’anima dell’emancipazione hutu.

Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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