Mutande appese: protestano in Sudafrica donne violentate dal clero anglicano

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Biancheria intima appesa per protesta alla recinzione della casa dell'arcivescovo anglicano di Città del Capo

Africa ExPress
28 settembre 2020

In occasione della “Giornata della donna 2020”, molte ragazze e signore, vittime di stupri e attiviste per i diritti delle donne, hanno appeso biancheria intima alla recinzione della residenza dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo, Thabo Makgoba. L’azione poco ortodossa è stata messa in atto per sensibilizzare la Chiesa anglicana su violenze, stupri perpetrati da reverendi sudafricani e per aprire inchieste indipendenti su questi terribili crimini.

Biancheria intima appesa per protesta alla recinzione della casa dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo

June Major, una donna sacerdote anglicana è tra le vittime e chiede giustizia da anni. Ha subito uno stupro nel lontano 2002 quando era ancora in seminario. Ha raccontato che il prete è entrato nella sua camera presso la famiglia che la ospitava durante quel periodo e l’ha violentata. “Ho cercato di porre resistenza, ma poi mi ha messo la mano sulla gola, non potevo più fare nulla, non ho urlato, per non spaventare i bambini che si trovavano nella casa”.

“Ero distrutta, disperata, volevo solo morire,Così ho chiamato un amico e gli ho raccontato il fatto. Qualche tempo dopo il prete è ritornato, voleva violentarmi nuovamente. Ha desistito solamente perchè ho fatto in tempo a dirgli che avevo informato del fatto un amico comune”, ha aggiunto la Major.

Un amico le aveva consigliato di non rendere pubblico lo stupro subìto, e il violentatore aveva promesso che non l’avrebbe più cercata. “Anch’io da parte mia non volevo ferire la Chiesa, un’istituzione alla quale ci tenevo molto. Ma il mio silenzio mi è costato caro. Di notte ero perseguitata da orribili incubi, non potevo stare in ambienti che potevano essere chiusi a chiave, ero terrorizzata quando qualcuno si avvicinava troppo a me, in particolare uomini. Non era più vita”, ha spiegato la donna.

Solo dopo aver conosciuto altre vittime di stupro ha reso pubblico la sua storia, sperando di poter aiutare in questo modo anche loro e di convincerle a non tacere più. Aveva posto le sue speranze nella Chiesa, sperava di ricevere risposte, che venisse aperta un’indagine. Ma il responso non è mai arrivato. Silenzio assoluto.

Così nel 2016 inizia il suo primo sciopero della fame. Il settimo giorno l’amministrazione del clero anglicano sudafricano fa sapere che si sarebbe interessata del suo caso. Peccato che di fatto i vertici ecclesiastici non si muovono.

June Major, prete anglicano

Bisogna aggiungere che poco dopo la sua prima azione di protesta la Major perde il suo lavoro come prete. Essendo rimasta senza entrate, decide di andare in Australia, ma per un nuovo impiego ha bisogno di referenze. L’amministrazione ecclesiastica, malgrado le promesse, non le fa pervenire quanto richiesto. A quel punto si sente vittima due volte e cita in giudizio i vertici per perdita di reddito. Il caso è ancora pendente in Tribunale.

Passa altro tempo. Quattro anni dopo, il 1°luglio di quest’anno, inizia un nuovo sciopero della fame.

Al sesto giorno della protesta, l’arcivescovo si è fatto vivo, ha parlato con la Major, le ha chiesto di inviare le sue richieste via email. Qualche giorno dopo il prelato di Città del Capo ha fatto sapere che aprirà un’indagine disciplinare e che contatterà il Pubblico ministero della città dove si è consumato lo stupro per riaprire il caso. In base a queste promesse la vittima ha interrotto il suo digiuno di protesta. Finalmente è stata ascoltata. Dopo 18 anni di silenzio.

Africa ExPress
@africexp

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  1. “L’azione poco ortodossa è stata messa in atto per sensibilizzare la Chiesa anglicana su violenze, stupri perpetrati da reverendi sudafricani”: è ora di finirla con questa storia: DIFENDETEVI E DENUNCIATE SUBITO.

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