Kenya: morto all’età di 95 anni l’ex presidente Daniel Arap Moi

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Daniel Arap Moi, ex presidente del Kenya

Dal Nostro Corrispondente
Mikael Backbone
Nairobi, 4 febbraio 2020

Il Kenya piange il suo secondo presidente, Daniel Toroitich Arap (figlio di in Kalenjin) Moi, deceduto all’età di 95 anni nella tarda notte il 4 Febbraio 2020 al Nairobi Hospital.

Mentre i media internazionali riportavano la notizia dalle prime ore del mattino, la Presidenza del Kenya emetteva una “Proclama Presidenziale” annunciando il decesso di Moi con un lirismo desueto, esaltandone le qualità umane e di statista visionario nonché’ devoto cristiano che ha portato il Paese per mano alla sua realtà attuale.

La realtà storica tuttavia contribuisce a dar maggior luce sul percorso del secondo presidente del Paese, distanziandosi dalla piaggeria politica che ha salutato la sua partenza con grandi verosimiglianze con lo stesso stile dei comunicati che hanno accompagnato le rancide elegie nei confronti di un altro personaggio di simile caratura, Robert Mugabe.

Daniel Arap Moi, ex presidente del Kenya

Moi inizia la sua ascesa politica nel 1955 fondando un partito antagonista (KADU) all’incombente dell’epoca KANU con l’obiettivo di posizionare la sua etnia Kalenjin nel quadro delle etnie dominanti dell’epoca, i Kikuyu e i Luya.

In un Paese a tutt’oggi fortemente dominato dal tribalismo, l’atto di fondare un partito per affermare la propria etnia fu una mossa politica azzeccata.

I Kalenjin tra l’altro, non erano neanche una reale etnia, ma l’aggregazione di una serie di etnie tribali  minoritarie nel Paese che da sole mai avrebbero potuto ambire né a posizioni di potere, ne’ tantomeno a porzioni del bilancio statale. Basti pensare che il primo libro scritto in Kalenjin di cui si abbia memoria è la Bibbia, pubblicata attorno agli anni ’50 proprio nel tentativo di affermare una cultura al tempo subalterna e terza a quella delle tribù dominanti.

Moi diventa ministro dell’Istruzione nel 1960, nel gtoverno che precedette l’indipendenza del Paese, fonde il suo partito KADU nel KANU dominato da etnie Kikuyu e Luya e cresce nell’amministrazione del Paese guadagnandosi prima lo scranno del ministero degli Interni nel 1964 e seguitamente nel 1968 diviene vice presidente del Kenya, segno che la sua influenza crescente aveva di fatto creato le basi per un compromesso forte con le etnie dominanti.

Fu osteggiato dalla leadership del momento (i Kikuyu), al punto che si tentò di modificare la Costituzione per evitare che il Vice Presidente in pectore potesse ereditare del potere, ma lo stesso Kenyatta, allora Presidente, stranamente resistette questa proposta.

Quando poi nel 1978 Moi assunse le redini del potere per successione alla morte di Jomo Kenyatta, egli ribaltò lo stile presidenziale avvicinandosi alla gente, cosa che il suo predecessore evitava; veniva familiarmente chiamato Nyayo, parola che in swahili significa “impronte”, poiché all’insediamento il suo primo messaggio era quello di condurre il paese sulle orme del suo predecessore.

Inizialmente la sua presidenza fu estremamente popolare con le masse, sotto il motto “Peace, Love and Unity”, slogan che lo contraddistinse sino al momento di un tentativo di golpe che ebbe luogo nel 1982 ad opera di ufficiali dell’aeronautica e che fu sventato, dando inizio a une serie di purghe dell’etnia dominante nei posti chiave governativi, la condanna a morte ed esecuzione dei golpisti, l’arresto dell’intera arma dell’aeronautica (2.100 soldati) e un deciso giro di vite per la limitazione delle libertà individuali.

Ne fecero le spese per esempio personaggi come Raila Odinga, che fece sei anni in carcere, Miguna Miguna, che venne spesso incarcerato in qualità di leader studentesco: sul piano nazionale iniziò a serpeggiare una cultura del sospetto, laddove chiunque poteva venire incarcerato e torturato nei locali del ministero degli Interni a Nairobi, chiamato ironicamente Nyayo House, laddove operava la famigerata polizia politica chiamata Special Branch.

Lo scenario geopolitico degli anni 70/80, laddove Stati vicini come Etiopia e Tanzania impostavano la loro leadership decisamente a sinistra fece di Moi il beniamino del blocco Nato, Stati Uniti per primi che vedevano nel Kenya l’argine al dilagare del Comunismo e Socialismo, offrendo sostegno incondizionato al Paese in cambio di una deliberata disattenzione ai diritti umani nel Paese. Fu in quel periodo che il Marxismo fu bandito come opinione politica, movimento o addirittura dall’insegnamento accademico, generando tensioni con il mondo studentesco.

Così facendo, Moi liquidò gli avversari politici, tramite la sua Special Branch instaurando una specie di despotismo tirannico dai tratti paterni nel quale amava immedesimarsi.

Durante 24 anni Moi tenne saldamente le redini del Paese, introducendo nella Costituzione il monopartitismo e resse sino all’alba del 1992, con ovvie limitazioni della libertà di espressione se non per l’adesione al pensiero unico, vinse ripetutamente elezioni macchiate da delitti di matrice politica, impresse un culto della personalità nelle masse per esempio imponendo la sua immagine sulle banconote, e soprattutto iniziò una sistematica razzia di proprietà terriere e arricchimenti personali in un clima di  corruzione rampante nel Paese.

Sotto la sua leadership scoppiò lo scandalo Goldenberg, un sistema concepito per incentivare le esportazioni di prodotti kenioti che invece favorì truffatori vicini al regime con rendite miliardarie tramite esportazioni fittizie di oro e altri presunti prodotti preziosi locali inesistenti.

Moi vinse ben cinque elezioni, 1979, 1983, 1988 ma anche le prime elezioni multipartitiche alle quali cedette per via della ravveduta consapevolezza dei suoi sponsor internazionali sulla deriva verticistica e despotica che si stava imponendo sotto la sua guida.

La soppressione degli avversari politici con qualunque mezzo era la norma, con violenze diffuse all’approssimarsi delle elezioni.

Tenne duro Moi, vinse anche due elezioni multipartitiche approfittando di un’opposizione totalmente disunita, ma con la caduta del Muro di Berlino iniziò a perdere il sostegno dei suoi sponsor internazionali, irritati dal piglio tirannico che prendeva la sua leadership. Finalmente fu costretto a cedere il potere nel 2002 per l’introduzione nella Costituzione dell’impossibilità a ripresentarsi per tre volte di seguito alle elezioni per la massima carica dello Stato.

 

Mickael Backbone

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