Cornelia I. Toelgyes
30 gennaio 2020
Non si placa l’ondata di violenza nel Sahel e, come l’UNICEF ha riportato nel suo rapporto del 28 gennaio scorso, sono i bambini a pagare il prezzo più alto. In Mali, Niger e Burkina Faso oltre 5 milioni di piccoli avranno necessità di aiuti umanitari nel 2020. Settecentomila in più dello scorso anno.
Marie-Pierre Poirier, direttrice regionale per UNICEF nell’Africa occidentale e centrale, ha puntualizzato che la situazione di molti minori è a dir poco terrificante. Nei primi 9 mesi del 2019 sono stati uccisi e/o mutilati 277 bambini, il doppio del 2018. Centinaia sono stati separati dalle loro famiglie, hanno subito vessazioni di tutti generi, centinaia di migliaia hanno vissuto esperienze traumatiche già nella più tenera infanzia.
Le violenze contro i minori sono in continuo e evidente aumento. Dall’inizio del 2019 sono stati 670.000 i piccoli che hanno dovuto lasciare le loro case per l’insicurezza e i conflitti in atto. Nei tre Paesi – Mali, Burkina Faso e Niger – molte scuole sono chiuse o momentaneamente non operative, oltre 3.300 alla fine del 2019, sei volte di più rispetto al 2016: 650.000 alunni sono stati privati dell’istruzione e 16.000 insegnanti hanno perso il posto di lavoro.
L’insicurezza di molte zone e gli spostamenti più o meno forzati in campi per sfollati o altrove hanno messo in ginocchio molte famiglie, che hanno grosse difficoltà per poter accedere ai servizi essenziali e a procurarsi il cibo. UNICEF stima che in tutta la regione nel 2020 oltre 700.000 bambini al di sotto dei 5 anni saranno a rischio malnutrizione acuta e severa – un killer invisibile – e necessiteranno di cure salvavita.
Attualmente nell’area di Barsalogho, città al centro-nord del Burkina Faso, si trovano più di 270.000 sfollati. Il piccolo centro sta vivendo una delle più grandi crisi umanitarie, che, ahimè è in continua crescita. All’inizio del 2019 c’erano solamente 60.000 sfollati in tutto il Paese, oggi sono oltre 600.000 e se violenze non si placano, a fine aprile potrebbero arrivare a 900.000, ha detto il norvegese Jan Egeland, ex segretario generale aggiunto dell’ONU per gli affari umanitari.
L’esercito burkinabè, mal equipaggiato e poco addestrato, non è in grado da solo a far fronte alla spirale distruttrice dei gruppi armati sempre più attivi nell’area. Secondo fonti dell’ONU, nel 2019 sarebbero morte oltre 4.000 persone in Mali, Niger e Burkina Faso a causa dell’insurrezione terrorista.
Lo scorso 13 gennaio il presidente francese Emmanuel Macron si è incontrato con i suoi omologhi del G5 Sahel (Niger, Mali, Burkina Faso, Ciad e Mauritania) a Pau (Francia) per fare il punto della situazione. In tale occasione è stata lanciata una nuova coalizione per contrastare l’ondata di violenze che i terroristi stanno scatenando nella regione, sopratutto in Burkina Faso, Niger e Mali.
La Coalition pour le Sahel (coalizione per il Sahel), come è stata chiamata, raggruppa i 5 Paesi dell’area e la Francia attraverso l’Operazione Barkhane, che attualmente conta 4.500 uomini, e altri partner già operativi nella zona; la partecipazione è aperta ad altri Stati e/o organizzazioni che desiderano farne parte. Macron ha annunciato di voler inviare altri 220 soldati nel Sahel per consolidare la presenza di Parigi.
La scorsa settimana il ministro della Difesa francese, Florence Parly, si è recata nel Sahel, accompagnanata dai suoi omologhi di Svezia, Peter Hultqvist, e Portogallo, Joao Gomes Cravinho, nonchè dal segretario di Stato della Difesa estone, per fare il punto della situazione, sempre più critica. I quattro ministri si sono intrattenuti a dialogare con diverse autorità della regione. Dopo il loro incontro con il presidente maliano, Ibrahim Boubacar Keïta, la Parly, durante una conferenza stampa ha sottolineato che nelle prossime settimane saranno sviluppate nuove operazioni, volte a arginare gli attacchi dei terroristi, in particolare nell’area dei tre confini. Ma finora non sono trapelati dettagli rilevanti sulle nuove tattiche d’azione.
Anche il Ciad invierà rinforzi nell’area, dove saranno presenti anche uomini di Takuba (che, tradotto dal tamashek, la lingua dei Tuareg, significa “spada”), futuro raggruppamento di forze speciali europee, che sarà integrato nel comando congiunto Coalition pour le Sahel. La Parly ha espresso fiducia nella partecipazione dei Paesi europei a Takuba, che dovrebbe essere composta da 250-350 uomini. La Germania ha già fatto sapere di non voler partecipare alla nuova missione, mentre Belgio e Estonia hanno confermato il proprio impegno. Dunque bisogna attendere le prossime settimane per capire quali altri Stati europei saranno disposti a aderire a questa nuova coalizione contro i jihadisti.
Pur di mantenere l’appoggio americano nel Sahel, lunedì scorso la Parly ha incontrato il segretario di Stato per la Difesa statunitense, Mark Esper, al Pentagono. Nelle ultime settimana circolava voce che AFRICOM, commando militare USA per l’Africa creato nel 2007, voglia diminuire la sua presenza in Africa. Lo stato maggiore di AFRICOM ha sede in Germania; nel continente africano sono dislocati 7.000 soldati, la metà a Gibuti, 2.000 sono impegnati nella formazione di truppe africane. Non si esclude che venga chiusa la più grande base per droni americana a Agadez in Niger. Finora il Pentagono non ha dato garanzie in questo senso alla Francia, malgrado le parole di elogio da parte della controparte francese, che ha sottolineato l’importanza di AFRICOM: “Il sostegno di Washington alle nostre operazioni nel Sahel è cruciale e la riduzione del contingente americano limiterebbe gravemente l’efficacia dei nostri interventi contro i terroristi”.
Nel frattempo la situazione nella regione sta precipitando. Nuovi recenti attacchi sono stati registrati nel Burkina Faso, dove anche sabato scorso è stato aggredito il mercato del villaggio di Silgadji, nella provincia di Soum. Decine di civili sono stati massacrati. Il numero preciso dei morti non è stato ancora reso noto. Molti risultano dispersi.
La popolazione burkinabè è allo stremo, scoraggiata per l’ondata di violenze che sta vivendo il Paese. Sono parecchi cittadini che, oltre all’intervento militare, vorrebbero che il governo aprisse un dialogo con i capi jihadisti. Mariam Tapsoba, restauratrice di Ouagadougou ha detto che bisogna anche tentare la via della negoziazione. “Siamo ignoranti, non sappiamo come funzionano queste cose, ma forse si potrebbe trovare un’intesa anche con il dialogo”, ha aggiunto.
Mentre in Mali, l’Alto rappresentante del capo dello Stato per il centro del Paese, Dioncounda Traoré, pochi giorni fa ha dichiarato di voler aprire un canale diplomatico con i capi jihadisti: “Ho inviato alcuni emissari a Iyad Ag Ghaly et Amadou Koufa. Il primo, Iyad Ag-Ghali, è una vecchia figura indipendentista touareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine – in italiano: ausiliari della religione (islamica) – e Koufa è un predicatore radicale maliano, di etnia fulani, e capo del “Fronte per la liberazione di Macina”, entrambi fanno anche parte del raggruppamento terrorista fondato nel marzo 2017 da cinque sigle di miliziani: “Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani”.
Cornelia I. Toelgyes
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