L’Europa aiuta la Libia (e i miliziani) a dare la caccia ai migranti

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naufragio di migranti nel Mediterraneo centrale

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 18 novembre 2018

“L’inferno dei rifugiati” ecco come ha definito Jean-Claude Juncker i lager libici. E anche il ministero degli Esteri tedesco ha paragonato questi centri di detenzione a campi di concentramento. Malgrado ciò, l’Unione Europea continua a intensificare la sua collaborazione con la Libia.

Secondo Andrej Hunko, parlamentare tedesco per il partito Die Linke, entro quest’anno la Libia dovrebbe essere collegata alla rete di controllo eurosur “Seahorse”, che invierà i dati in diretta alla centrale di Frontex a Varsavia, per contrastare la migrazione “illegale”, un controllo diretto sui trafficanti di esseri umani, droga e quant’altro. In questo modo la guardia costiera del Paese arabo dovrebbe ricevere in tempo reale le coordinate dei barconi con a bordo i migranti. Intanto è ancora allo studio la parte giuridica che legittimerà così i libici ad intervenire.

A fine novembre, inoltre, è terminato un corso di addestramento nell’ambito dell’Operazione Eunavformed-Sophia alla Maddalena per sessantaquattro militari della marina militare libica, in particolare della guardia costiera. I partecipanti (ufficiali e sottufficiali) hanno ricevuto anche lezioni di primo soccorso, di diritto umanitario e sugli aspetti di genere (gender). Un training volto ad acquisire conoscenze a bordo delle motovedette cedute dall’Italia. Anche i quattro Paesi di Visegrad, per contrastare il flusso migratorio, si sono allineati alla politica di Roma e, meno di un mese fa, hanno stanziato trentacinque milioni di euro e acquistato quattro natanti nuovi da regalare alla Libia.

naufragio di migranti nel Mediterraneo centrale

Ma la frontiera marittima di fatto è già chiusa. Sono pochissime le barche che riescono a salpare, spesso con esiti catastrofici, per effetto del fermo delle ONG e del blocco navale imposto dalle vedette libiche, addestrate anche dagli italiani. Oltre duemila persone hanno perso la vita quest’anno nelle acque del Mediterraneo centrale. Ma il bilancio potrebbe essere più alto. I decessi in mare spesso non vengono resi pubblici, specie se gli incidenti avvengono nelle zone di competenza dei libici.

E’ stata persino creato una zona SAR “libica” nella quale si continua a morire per mancanza di soccorsi. Le motovedette regalate dall’Italia al governo di Tripoli arrivano in ritardo, quando non sono coordinate dai comandi italiani ed europei.

In Libia intanto la situazione è sempre più critica, e per chi viene ripreso dai militari in mare non c’è scampo. Non c’è più nessuna distinzione tra centri gestiti dal governo e centri in mano alle milizie o le “Connecting house”. Per tutti i migranti che vengono riportati indietro riprendono abusi e sevizie sempre più crudeli, fino a quando qualcuno non paga il prezzo del loro riscatto.

Guardia costiera libica con un gruppo di migranti

E’ solo marginale il ruolo delle organizzazioni delle Nazioni Unite (UNHCR ed OIM), che quando riescono ad avere accesso ai centri di detenzione possono solo identificare i cosiddetti “vulnerabili” ( ma in Libia tutti i migranti in detenzione sono vulnerabili). Poche le persone evacuate, circa duemila in un anno, sottratte ai loro carcerieri. Tra l’altro per la maggior parte  vengono trasferite in Niger e non verso l’Europa. Un’eventuale trasferimento verso Paesi occidentali avviene solamente dopo mesi di lunga attesa nella ex colonia francese, è riservata a pochissimi e deve essere preventivamente concordata con i vari Stati europei.

Il 28 giugno scorso il cosiddetto governo di Riconciliazione Nazionale (GNA) di Tripoli ha notificato all’IMO (International Maritime Organization) la costituzione di una zona SAR (Search and Rescue) “libica”, con una centrale di coordinamento in territorio libico (Joint Rescue Co-ordination Centre: JRCC). Ora praticamente tutte le ONG sono state allontanate dalla rotta del Mediterraneo centrale.

Tra giugno 2014 e giugno 2017 sono arrivate dalla Libia via mare in Italia cinquecentocinquanta mila persone, la gran parte proveniente dall’Africa subsahariana. Nigeria ed Eritrea i Paesi di origine più rappresentati. Da luglio 2017 la frequenza degli arrivi è calata sensibilmente, come effetto degli accordi che Italia e Unione Europea hanno stretto con la Libia e con altri Paesi di transito dei migranti, come il Niger.

Secondo i dati Unhcr, tra il 1 gennaio e il 30 novembre 2018 sono sbarcate in Italia 22.550 persone, 95 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2017.

Il 72% delle persone arrivate sulle coste italiane è di sesso maschile, le donne sono il 9%, i minori il 19% – in buona parte non accompagnati. Il 14 per cento è ancora rappresentato dagli eritrei, che si collocano così al secondo posto.

Tenendo conto della percentuale della forte diminuzione delle partenze, le morti in mare sono notevolmente cresciute dall’inizio dell’estate. E quei pochi che riescono ad arrivare sulle nostre coste, sono provati fisicamente e psicologicamente dopo tempi di internamento sempre più lunghi nei centri di detenzione. La traversata poi può durare anche diversi giorni.

Per arginare il flusso migratorio, il nuovo governo italiano sta proseguendo la politica cominciata dall’ex ministro degli Interni Marco Minniti: alleanze con i libici e altri governi africani, in particolare con il Niger. Roma, dopo le elezioni, ha rafforzato la collaborazione con l’ex colonia per aumentare i respingimenti e rendere sempre più complicato il salvataggio in mare. A fine ottobre i respingimenti effettuati dai libici sono stati superiore degli arrivi in Italia. I dati si riferiscono in questo caso al 30 settembre 2018: 14.500 persone partite dalla costa africana e riportati indietro, mentre in Italia sono arrivati 12.500 migranti.

Le navi commerciali che incontrano barconi durante la navigazione, sono demotivate ad effettuare soccorsi, visto che poi si trovano a dover vagare per giorni con persone a bordo in condizioni spesso precarie prima di poter trovare un porto disponibile all’accoglienza.

Le condizioni dei lager libici ormai non sono più un segreto per nessuno in particolare dopo la pubblicazione dei rapporti di ONU, UNSMIL e dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani. Pochi giorni fa il direttore per i diritti umani e la giustizia di transizione della Missione ONU in Libia, Antonia de Meo, ha ribadito, durante un meeting a Tripoli, al quale hanno partecipato giudici, pubblici ministeri e ufficiali della polizia giudiziaria, l’assoluta necessità dell’applicazione e rispetto dei diritti umani nei centri di detenzione.

A tutt’oggi in Libia è in atto un’aggressione e una negazione nei confronti del popolo migrante senza precedenti. Gli abusi nei centri di detenzione sono indescrivibili: torture, fame, sete, mancanza totale di igiene, abusi sessuali, violenze senza fine, estorsioni, riduzione in stato di schiavitù, rapimenti e quant’altro.

Il 10 dicembre 2018 il Consiglio europeo ha rilasciato un comunicato sulla recente conferenza sulla Libia, tenutasi a Palermo lo scorso mese. Nella nota viene evidenziato che nel Paese regna ancora instabilità e insicurezza, a discapito non solo della popolazione, ma dell’intera regione e la soluzione alla crisi può essere solamente politica, e questi problemi non possono essere risolte che dai libici stessi con un processo politico inclusivo, con equa partecipazione delle donne e nel pieno rispetto delle leggi internazionali, compresi i diritti umani. Ottima analisi, ma sarà attuabile in tempi brevi?

Nel frattempo i diversi governi europei trattano un giorno con Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj, primo ministro del Governo di Accordo Nazionale della Libia, un giorno con Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, leader indiscusso della Cirenaica, pur di contrastare il flusso migratorio, o di quel che ne resta ormai. Intanto il popolo migrante resta chiuso nei lager nelle condizioni che tutti conosciamo. Finora non è stata trovata, meglio, non si vuole trovare una soluzione per queste persone, che giornalmente sono soggette a sofferenze indescrivibili. Non è dato sapere quanti di loro muoiano nelle putride galere. Pur di uscire dall’inferno accettano “il rimpatrio volontario”, ma non tutti possono correre questo rischio, come, per esempio gli eritrei.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes