Eritrea, la faccia nazionalista del regime comincia dal prefisso telefonico

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Massimo Alberizzi FrancobolloSpeciale Eritrea
Editoriale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 18 settembre 2018

Diciassette anni fa, 18 settembre 2001. Saranno più o meno passate le 10 del mattino. Squilla il telefono. È un amico da Asmara. In Eritrea non esisteva ancora il network dei cellulari. Con voce concitata mi informa: “Li hanno presi, li hanno presi. Li hanno arrestati tutti”. “Chi, chi? – domando al mio interlocutore che riconosco dalla voce. Ma ho già capito di cosa sta parlando – Petros, Duro, Sharifo e gli altri. Qui è un casino furibondo. ciao”. E butta giù la cornetta.

Petros Solomon, ministro della pesca, l’eroe della guerra di liberazione contro l’Etiopia che 10 anni prima era entrato, da capo dei servizi di informazione del Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea, trionfalmente ad Asmara, temeva da tempo di essere arrestato. La sua colpa? Aver firmato, assieme agli altri 15 leader, un appello per la democratizzazione dell’ex colonia italiana.

Prevedeva quello che stava per accadere. Infatti nell’ultimo mio viaggio in Eritrea, qualche mese prima, Petros aveva preferito non incontrarmi. “Ho paura che arrestino anche te”, mi aveva confidato. Ci parlavamo per interposta persona. Un amico comune faceva la spola tra l’albergo dove alloggiavo e la sua casa. Le sue risposte alle mie domande erano precise, ma il nostro messaggero aggiungeva sempre: “Teme di essere imprigionato da un momento all’altro”. Io sarei stato arrestato ad Asmara due anni dopo, nel 2003.

Free Journalist

Da quel 18 settembre il regime ha gettato la maschera e ha dimostrato al mondo quello che è: una sanguinaria dittatura che non rispetta né regole, né promesse e viola in continuazione i diritti umani. Il pugno di ferro per schiacciare ogni voce dissidente ogni anelito di democrazia è diventato ossessivo. Una piccola élite, con a capo il presidente Isaias Afeworki, si serve di scherani e di agenti in ogni dove. Anche chi sta leggendo queste righe, al soldo del tiranno, sono certo che più tardi scriverà qualche insulto personale a me e al nostro quotidiano, Africa ExPress. Ormai è prassi acquisita.

All’interno del Paese, militarizzato all’impossibile, l’oppressione si respira ossessiva. Gli occhi attenti e inquisitori del regime raggiungono la gente in ogni dove. Perfino all’interno delle famiglie: moglie e marito non parlano tra loro di argomenti pericolosi. Temono che il partner possa essere stato comprato dal regime e abbia accettato di fare la spia. “Anche in casa dobbiamo sussurrare per paura di essere ascoltati da qualche microfono piazzato dalla polizia politica”, ha confessato una signora eritrea incontrata a Nairobi.

Durante gli anni della lunga guerra di secessione, il FPLE era riuscito a creare la nazione eritrea, un sentimento nazionalista ben radicato nel profondo del cuore e nell’animo della popolazione. L’orgoglio eritreo – concepito durante il colonialismo italiano e consolidato e rinforzato in quasi quarant’anni di guerra civile – ora si è quasi dissolto, grazie alla repressione del regime. Perfino tra la gente della diaspora non è difficile trovare chi sussurra: “Si stava meglio quando a comandare c’era il dittatore etiopico Mungistu Hailè Mariam”.

Un rimpianto difficile da comprendere per chi non conosce le condizioni attuali. Quando l’Eritrea era parte dell’Etiopia, la repressione era esercitata da un nemico dichiarato. Ora invece la polizia politica – e la sua oppressione – obbedisce agli ordini di chi si era presentato come un amico.

La volontà dispotica, prepotente e nazionalista del regime, era apparsa chiara fin dall’inizio. Quando il Fronte caccia gli etiopi, il 24 maggio 1991, le frontiere vengono sigillate, i telefoni bloccati, gli aeroporti chiusi. Pietro Veronese, a metà giugno, pubblica un azzeccato articolo su Repubbica. Scrive tra l’altro: “Nessuno sa che cosa sta succedendo ad Asmara. Perché da tre settimane esatte, da quel venerdì 24 maggio in cui le avanguardie del Fronte popolare di liberazione entrarono in città, il capoluogo dell’ Eritrea è rimasto chiuso al resto del mondo. Perché l’aeroporto non è stato ancora riaperto. Perché nessun giornalista è stato ammesso nella regione, e quei pochi (un paio) che erano riusciti ad arrivare da Addis Abeba sono stati rispediti indietro. Perché sono stati rifiutati per il momento almeno gli aiuti umanitari italiani e francesi già in zona e pronti ad essere recapitati. Cresce, tra gli amici dell’ Eritrea e del Fronte, una sensazione di disagio. Quasi di diffidenza: che sta accadendo? C’ è forse qualcosa da nascondere? Qualcosa che sta andando storto nella liberazione?”

Diventa tutto chiaro nel novembre 1991, quando riesco ad arrivare ad Asmara. Durante un’intervista alla mia domanda perché non fossero state riprese le comunicazioni telefoniche, che avrebbero dato alla ricca e scalpitante diaspora eritrea di mettersi a disposizione del Paese e aiutarlo nelle ricostruzione, il presidente Isaias Afeworki mi dà una risposta sconcertante: ”Non riapriremo telefoni e telescriventi finché non avremo un nostro prefisso internazionale”.

Rincara la dose il sindaco di Asmara, ex rappresentante del Fronte in Italia ed ex pilota militare etiopico, scappato per unirsi ai ribelli, Andemichael Khasai, che intervisto all’hotel Ambassoira. Alla domanda, “Perché vi siete chiusi dentro?” risponde sibillinamente: “Volevamo gustarci la torta della vittoria da soli”. Qualche anno dopo Andemichael manifesta qualche vago piccolo dissenso sulla politica del governo, cade dalle scale e muore. Strana fatalità.

Quei due incontri mi fecero rendere conto della deriva che stava prendendo il Paese. L’orgoglio nazionalista aveva vinto sulla necessità di aiutare una popolazione schiacciata dalla fame e prostrata da quarant’anni di guerra. Tempi bui si affacciavano sul futuro dell’ex colonia italiana.

Massimo A. Alberizzi
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