“Mio figlio italiano di tre anni rischia la vita in Kenya nell’indifferenza del mio Paese”

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Il carcere giudiziario San MIchele di Alessandria dove Fulvio Leone è detenuto

francoDal Nostro Inviato Speciale
Franco Nofori
Alessandria, 19 giugno 2018

“Mio figlio Riccardo è ammalato e senza cibo. Sono stato strappato a lui dal Kenya ed estradato in Italia per una condanna di trentasei anni fa. E’ straziante trovarmi impotente dietro queste sbarre, mentre lui rischia la vita senza avermi al suo fianco. Se questa è la tanto decantata umanità dell’Italia, che si esprime solo nei confronti degli immigrati, cosa devo fare? Farlo arrivare qua su uno dei tanti gommoni della disperazione perché qualcuno possa curarlo e occuparsi di lui?”

Chi parla è Fulvio Alberto Leone, origini liguri e settant’anni appena compiuti. Siamo nel parlatorio del carcere giudiziario di Alessandria, dove sta scontando una pena residua di poco superiore ai sei anni.

L’ammissione ai colloqui è rigorosa. Non è consentito introdurre nulla, neppure un foglietto di carta e una penna per prendere appunti. Il parente di un detenuto ha portato un dolce che prima di essere ammesso è stato letteralmente squartato riducendosi a un ammasso di briciole senza più alcuna attrattiva. Passo il controllo al metal detector e poi alla perquisizione fisica. L’agente avverte qualcosa nella tasca posteriore dei pantaloni. Si tratta solo di alcuni biglietti da visita, ma sono proibiti. Devo lasciare anche quelli. In coda con gli altri visitatori, percorro interminabili corridoi sotterranei e scale che salgono e scendono, infine eccomi lì, dove Fulvio Leone attende accanto a un tavolo.

Il carcere giudiziario San MIchele di Alessandria dove Fulvio Leone è detenuto
Il carcere giudiziario San Michele di Alessandria dove Fulvio Leone è detenuto

Fulvio Alberto Leone non è un detenuto innocente. I reati li ha commessi e si tratta anche di reati gravi. Li ha commessi nel 1983 quando, a sua insaputa, è già attentamente monitorato dalla polizia e dalla guardia di finanza. Al termine di queste investigazioni, gli vengono imputati traffico di droga, bancarotta fraudolenta, usura e uso di falsa identità. La somma di questi reati, in forza delle sentenze congiunte dei tribunali di Genova e di Torino, produce un cumulo di pene pari a dieci anni di carcere. Nelle more del lungo procedimento, Leone si sottrae alla giustizia italiana e si rifugia in Kenya. E’ il 1994. Sfruttando il regime corrotto del Paese africano e dando fondo al denaro che ha portato con sé nella fuga, riesce a ottenere nel 2009 la cittadinanza keniana, dopo aver rinunciato formalmente a quella d’origine.

Solo tre anni dopo, mentre un mandato di cattura internazionale a suo carico, approda sui tavoli di tutte le sedi Interpol del mondo, Leone ottiene dalle autorità keniane un certificato di buona condotta e – fatto davvero stupefacente – immediatamente dopo gli viene anche rilasciato il porto d’armi. La corruzione in Kenya è la filosofia imperante che ispira l’intera gestione politica e sociale del paese. Pur avendo ottenuto ciò che voleva, Leone si trova ora con le tasche quasi vuote e deve ingegnarsi per riuscire a campare nel nuovo Paese d’adozione. Dando fondo alle ultime risorse, apre una modesta pizzeria a Bamburi – una località della costa keniana – sulla superstrada che collega Mombasa a Malindi.

La mancanza di risorse finanziarie e la crisi del turismo, che a partire da quegli anni affligge gravemente il Kenya, lo costringono presto ad abbandonare l’attività e poco dopo, riesce a ottenere un lavoro come manager nel ristorante di un amico italiano all’interno di un centro commerciale nella poco distante cittadina di Mtwapa. Nel frattempo, Leone, si è unito a una giovane donna keniana, Sarah, che nel 2015, quando lui ha raggiunto i sessantasette anni, gli dà un figlio, Riccardo. Questa inattesa paternità è un’altra delle numerose azioni incaute di Leone che, oltre ad essere finanziariamente devastato, si trova ora a doversi far carico di due persone, con il modesto compenso che riceve nel suo nuovo lavoro.

riccardo con pixel

Leone non rinnega nessuna delle sue responsabilità. Ammette i reati commessi, anche se li attribuisce alla giovane età e a una serie di coinvolgimenti e d’influenze esterne che l’immaturità di quel tempo gli ha impedito di valutare responsabilmente. La nascita di Riccardo, invece, la attribuisce a un fatto accidentale.

Tra padre e figlio nasce comunque un intenso rapporto affettivo e pur arrabattandosi al meglio, Leone riesce a non far mancare nulla al ragazzino. Dal momento del suo approdo in Kenya e per tutti i ventitré anni spesi in quel Paese, il comportamento di Leone è irreprensibile. Nessun membro della comunità italiana poteva immaginare i suoi trascorsi criminali.

Corretto, gioviale, generoso, sempre pronto ad aiutare chi glielo chiedeva, Leone si conquista la benevolenza e la simpatia di chiunque ha a che fare con lui. Mai più si aspettava che, dopo trentasei anni, il braccio lento ma inesorabile della giustizia italiana, lo raggiungesse oltre l’equatore, a settemila chilometri di distanza, per fargli scontare la sua pena. Invece, nell’aprile dell’anno scorso, la polizia keniana irrompe nel ristorante in cui sta lavorando. Brutalmente, senza fornire spiegazioni e sotto lo sguardo attonito dei presenti, lo ammanetta. Pochi giorni dopo, sarà imbarcato a forza su un aereo per Roma, dove lo attende la polizia italiana..

Giardino: il primo ristorante aperto da Leone in Kenya
Giardino: il primo ristorante aperto da Leone

“Quella di fuggire è stata una decisione stupida – ammette oggi Leone – mi sono preso una condanna in contumacia e ora ne pago le spese. In alcuni dei reati che mi hanno imputato, ho avuto solo una parte marginale e a detta del mio avvocato, se mi fossi difeso, utilizzando tutte le forme previste dalla legge, me la sarei cavata con un massimo di due o tre anni e ora, grazie alla buona condotta, sarei probabilmente libero”. E’ vero. La stessa direzione carceraria parla di Leone come di un detenuto modello che potrà presto godere dei benefici previsti.

Riccardo. E’ lui, non la vita del carcere che rende infernale l’esistenza di Leone. Un bimbo di soli tre anni che non può comprendere perché il padre l’abbia così brutalmente abbandonato. “Ogni settimana parlo con Sarah – racconta Leone, mentre gli occhi gli si fanno rossi e lucidi – e sento mio figlio piangere al telefono: è una cosa straziante. Chiede perché non vado da lui, dice che sono un papà cattivo. Cosa posso spiegargli? Ha una persistente bronchite che non lo fa quasi respirare. Entra ed esce dall’ospedale, ma l’assicurazione che siamo riusciti a fargli, copre solo il ricovero, non i farmaci dopo la dimissione. Ogni mese occorre spendere ottanta/cento euro per acquistarli. Finora, grazie alla solidarietà di alcuni amici, si è riusciti a provvedere, ma non si potrà andare avanti così all’infinito e i medici dicono che, se non propriamente curata, la bronchite si farà cronica peggiorando drasticamente la situazione”.

A volte, la compagna africana di Leone, si trova costretta a scegliere tra le medicine e il cibo, così, oltre alla malattia, Riccardo si trova anche esposto al rischio di denutrizione. Cosa fare? Al momento dell’arresto, le autorità keniane hanno “scoperto” che la cittadinanza conferita a Leone era stata ottenuta illegalmente e quindi gli è stata immediatamente revocata. L’ambasciata italiana di Nairobi non spiega ai non familiari se Leone è ridiventato italiano, così da poter ottenere un supporto del nostro governo a favore del figlio. Una mail chiarisce: l’informazione  può essere fornita solo se “la richiesta è formulata al Consolato locale da un familiare del detenuto”.

Il consolato onorario di Mombasa non ne sa nulla. Occorre, dice, rivolgersi all’anagrafe del comune in cui Leone è detenuto, in quel momento a Civitavecchia. Finalmente dopo otto mesi dall’inizio della detenzione, arriva la risposta: sì, è cittadino italiano. ora lui non è più un apolide e si può quindi chiedere un aiuto per il bimbo rimasto in Kenya. Invece no: Il padre è, sì, italiano ma Riccardo è cittadino keniano e non si può aiutare. Ma la legge dispone che se il padre è italiano, il figlio naturale, se riconosciuto come tale, è automaticamente cittadino italiano. “E’ vero – è la risposta – ma occorre che questo sia certificato dall’anagrafe in cui il padre risiede”.

Fulvio Leone è preso in custodia dalla polizia italiana al suo arrivo a Roma-Fiumicino
Fulvio Leone è preso in custodia dalla polizia italiana al suo arrivo a Roma-Fiumicino

Tutti gli sforzi naufragano nei bizantinismi della burocrazia italiana. Nel frattempo Leone è stato trasferito dal carcere di Civitavecchia a quello di Alessandria. Occorre ricominciare tutto daccapo. Chi può farlo se l’interessato è dietro alle sbarre? Il signor Bombonato, direttore dell’NGO Betelonlus che assiste i detenuti e ha un ufficio all’interno della struttura carceraria. Gentile e comprensivo, ha già avuto diversi contatti con Leone e si dice molto toccato dalla situazione. Di tasca propria ha inviato duecento euro alla madre di Riccardo, un aiuto prezioso.

Però, chi si occupa delle attività esterne a favore dei detenuti è un apposito ufficio ACLI di Alessandria. Il dottor Amico,  assicura che si farà carico di ottenere i documenti necessari, ma spiega le oggettive difficoltà in cui la sua associazione si dibatte. Sono in pochi e devono assolvere le necessità di centinaia di detenuti.

Sono ormai quattordici mesi che Leone non vede suo figlio. E’ davvero possibile che non si possa assistere un bimbo che versa in gravi difficoltà ed è italiano nei fatti, anche se non lo è ancora per la burocrazia?

A sinistra, il ristorante "La Follia" presso cui Leone lavorava al momento dell'arresto
A sinistra, il ristorante “La Follia” presso cui Leone lavorava al momento dell’arresto

“Insomma il torto di mio figlio è di avere un padre italiano? si chiede Leone –  Tutta la bontà che lo Stato può permettersi è esclusivamente riservata agli extracomunitari. Io non ho nulla contro di loro, ma la discriminazione a danno di un bimbo italiano è davvero inaccettabile. E’ quest’assurdo atteggiamento del nostro governo che fa crescere il razzismo”.

il quartier generale del CID (Criminal Investigation Department) da cui è partito l'ordine d'arresto di Leone
Sede del CID (Criminal Investigation Department) da cui è partito l’ordine d’arresto di Leone

Lo lascio sfogare. Io tra poco sarò fuori. Salirò in auto e me ne andrò a casa. Lui, invece, dovrà restare lì ancora per molti anni, con uno stiletto piantato nel cuore al pensiero del figlio che, suo malgrado, ha dovuto abbandonare.

Franco Nofori
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