I paesi africani stanno pensando di ritirarsi in massa dalla Corte Penale Internazionale

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Il palazzo dove ha sede la Corte Penale Internazionale a L'Aja, in Olanda

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 1° febbraio 2017

L’insofferenza della maggior parte dei leader africani verso la Corte Penale Internazionale è nota da tempo. D’altro canto la pretesa che i dittatori – le cui caratteristiche contemplano il disprezzo totale dei diritti umani, il saccheggio forsennato dei loro Paesi a vantaggio dei propri conti all’estero, la somiglianza più ai satrapi che ai governanti – si facciano giudicare da un tribunale è assurda e impensabile. C’eravamo illusi che la CPI potesse spaventare qualche tiranno, inducendolo a metodi più umani. Sbagliavamo, soprattutto perché, per realizzare un’utopia, non siamo stati aiutati dai Paesi cosiddetti civili le cui parole di condanna formali non sono quasi mai state seguite da atteggiamenti conseguenti. Il bastone a parole, la carota nei fatti. E per carota intendo armi, aiuti logistici, training alle forze armate e a quelle dell’ordine.

Il palazzo dove ha sede la Corte Penale Internazionale a L'Aja, in Olanda
Il palazzo dove ha sede la Corte Penale Internazionale a L’Aja, in Olanda

Così domenica, nelle ultime ore prima della chiusura del vertice dell’Unione Africana, durante una riunione tenuta a porte chiuse (e quindi riservatissima) i leader del continente hanno deciso di studiare in massa l’uscita dal tribunale. “Studiare”, per ora perché c’è qualcuno che, democratico e dalle mani (quasi pulite), si è fatto portavoce di un dissenso forte, scandendo “io non ci sto”.

A parte qualche caso isolato, come il Gambia, il Burundi o il Sudafrica, finora nessun Paese ha chiesto formalmente di lasciare l’istituzione. Il Gambia poi, visto che il dittatore Yahya Jammeh, nonostante si fosse autoinchiodato alla poltrona dopo aver perso le elezioni, è stato costretto all’esilio, ha già annunciato, per voce del suo nuovo presidente Adama Barrow, che ritirerà la richiesta di lasciare la Corte dell’Aja.

Molti dei presidenti africani temono la possibilità di essere incriminati per pesanti violazioni dei diritti umani. In particolare temono quello che potrebbe accadere al presidente sudanese Omar Al Bashir, sul quale pende un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità, stupri e genocidio, se dovesse essere catturato.

Il presidente sudanese Omar al Bashir al potere, dopo un colpo di Stato, dal 30 giugno 1989
Il presidente sudanese Omar al Bashir al potere, dopo un colpo di Stato, dal 30 giugno 1989

Come ha fatto notare l’arcivescovo sudafricano Demond Tutu, i leader vogliono l’immunità e l’impunità per continuare imperterriti a esercitare il potere con il pugno di ferro e per arricchirsi alla faccia dei poveracci che popolano i loro Paesi.

Secondo alcune fonti contattate ad Addis Abeba, dove si è svoto il vertice dell’UA, durante l’incontro a porte chiuse si è parlato esplicitamente del pericolo rappresentato dallo statuto di Roma, che nel 2002 ha dato origine al Tribunale Penale Internazionale. Segno che la Corte fa veramente paura.

I tiranni vogliono continuare a governare imperterriti, perché sanno che non gli mancano gli appoggi internazionali. Anche dell’Italia che negli ultimi anni si è prodigata a vendere armi a dittatori incalliti e a despoti impenitenti, come il congolese Denis Sassu Nguessu o l’angolano José Eduardo Dos Santos. Ma non solo. Per la lotta contro i migranti il nostro governo non esita a negoziare, finanziare e aiutare Paesi come il Sudan, che, per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, ha uno dei più alti record negativi del mondo.

Una politica sorda alle grida di richiamo e di aiuto che arrivano dalle popolazioni africane, che però sembra non raggiungano i salotti romani.

Massimo A. Alberizzi
massimo.aberizzi@gmail.com
@malberizzi

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